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più caldi per nobile sentire rinunciarono di buon grado all’antico loro amore autonomico, di cui fecero sacrificio sull’altare della gran patria italiana.

Ma per disgrazia questo sentimento, che può anche fino a un certo punto dirsi di abnegazione, non vinse e predominò in tutti, ed alcuni, fra i quali si annoverano persone d’incontestabile merito, ritennero che il miglior bene che la Sicilia potesse conseguire era quello di vivere isolata moralmente come materialmente lo era. Noi non abbiamo bisogno di dire quanto grettamente egoistica sia una tale aspirazione, e quanto debbasi nell’interesse generale della nazione e in quello particolare della Sicilia stessa, condannare e combattere.

Tuttavia è un fatto doloroso ma non inquietante, che anche oggidi alcuni dei principali membri dell’aristocrazia siciliana, se non rimpiangono certo il regno del Borbone, tuttavia mostrano rincrescimento nel vedere l’antica monarchia degli Svevi e dei Normanni, divenuta una semplice provincia del regno d’Italia.

Ora noi dobbiamo saper buon grado a quelli tra i gran signori siciliani che hanno saputo spogliare quel pregiudizio — non sapremmo come chiamarlo altrimenti — il quale non ignoriamo come avesse una speciale attrattiva agli occhi loro, per aprire la mente e il cuore alla sublime aspirazione verso l’unità nazionale.

In questo numero appunto si trova il marchese Paternò di Spedalotto, uomo di meriti non comuni, e che per la sua posizione gode di una meritata influenza nell’isola natale.

La sua nomina a senatore è stata adunque una ricompensa meritata e una giustizia vera.


senatore.


L’aristocrazia romana possiede pochi membri più chiari per patriottismo e per mente, dell’onorevole principe Simonetti. Egli si è sempre studiato nelle dif-