Il Parlamento del Regno d'Italia/Gioacchino Napoleone Pepoli

Gioacchino Napoleone Pepoli

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Gerolamo Pallotta Salvatore Majorana Cucuzzella


Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


[p. CVIII modifica]Gioachino Pepoli.

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Discendente da una delle più antiche e nobili famiglie d’Italia (i Pepoli furono signori di Bologna nel medio-evo), il marchese Gioacchino Napoleone è figlio al marchese Guido Taddeo e alla principessa Letizia Murat, figlia dello sventurato re Gioacchino.

Egli è nato il 10 ottobre del 1825 in Bologna.

Fin dai più teneri anni il Pepoli mostrò generosi spiriti e nutrì singolare amore allo studio, occupandosi soprattutto di letteratura, e producendo alcuni lavori drammatici, accolti con favore sulle scene italiane.

La sua vita politica incominciò nel 1846, quando, morto Gregorio XVI, mentre la sede era vacante, venne formulata una petizione onde chiedere riforme. Di tal petizione il giovine Pepoli fu non solo uno dei promotori, ma di persona recossi nei pubblici caffè e nei più popolosi ritrovi onde far sì che la convalidassero numerosissime sottoscrizioni. Che anzi ci sembra non inutile ricordare a tal proposito come il commissario straordinario pontificio monsignor Savelli, avendolo chiamato a sè ed ammonito onde si astenesse da tali brighe, il nostro protagonista ebbe a rispondergli con [p. 356 modifica]molto animo che ov’ei volesse ch’esso avesse a cessare da quell’opera, il facesse arrestare, altrimenti non desisterebbe.

La sua giovinezza gl’impedì di sedere nell’assemblea politica del 1848, ma fu però uno dei più energici membri di quel comitato di salute pubblica di Bologna, che valse a prendere le misure opportune, onde allorquando il dì 8 agosto gli Austriaci assalirono quella generosa città, venissero energicamente respinti.

Nominato poscia colonnello della guardia nazionale in quel triste periodo del settembre 1848, in cui una mano sfrenata di turbolenti commise molti omicidi politici, il Pepoli rimase saldo a difendere l’ordine pubblico, e contribuì assaissimo a far sì che cessassero quei delitti.

Dopo la ristaurazione pontificia avvenuta nel 1849, il nostro protagonista si tenne in disparte, vivendo per lo più in Toscana, ridottosi a coltivare gli studî letterarî.

Nel 1856 riaprendo l’animo a speranze di avvenire migliore pel proprio paese, il Pepoli, il quale non avea trascurato di studiare la situazione rovinosa e precaria delle finanze pontificie, pubblicò intorno a quelle uno scritto che fece senso in tutta Europa e che non valse poco a dare una scossa a quel governo, foriera della decadenza successiva di esso.

Nel 1858 non è a dirsi quanto il marchese Gioacchino cooperasse di persona, e mediante l’influenza ch’egli esercitava su tutte le classi del popolo bolognese e delle Romagne, non è a dirsi quanto cooperasse al precipitare di quei fausti avvenimenti, che il dì 12 giugno, colla partenza degli Austriaci valevano a far pronunziare con piena spontaneità quelle popolazioni in favore dell’annessione al Piemonte.

Il Pepoli fece parte della giunta di governo che nei primi tempi resse le emancipate provincie, e fu uno dei principali incaricati per recare gli indirizzi delle Legazioni al re ed all’imperatore dei francesi. Ben noto e accetto a quest’ultimo, al quale, come ognun sa, lo stringono vincoli di parentela, ne ottenne l’importante [p. 357 modifica]promessa, in un colloquio seco lui avuto posteriormente in Torino, che ove l’ordine non fosse stato turbato, non avrebbe avuto luogo intervento straniero per ristabilire gli antichi governi nell’Emilia e nei Ducati.

Allorchè il cavaliere Leonetto Cipriani si ebbe il governo delle Romagne, il Pepoli coprì l’importante carica di ministro degli esteri e delle finanze; nel disimpegno della quale si mostrò uomo di Stato di non comune abilità, mentre il di lui bilancio fu lodato da tutti; la nota da lui pubblicata come ministro degli esteri si ebbe pure l’approvazione universale.

Il popolo bolognese dette al Pepoli chiare prove dei sentimenti di stima ed alletto che nutriva per esso, col fargli una straordinaria ovazione il dì stesso in cui, mediante plebiscito, dichiarava quasi unanimemente, voler far parte integrante del regno costituzionale di Vittorio Emmanuele.

Durante la dittatura Farini, il Pepoli fu pure ministro delle finanze, e produsse quel documento che intitolò Bilancio comparativo, il quale fu riconosciuto come importantissimo, e tale da spargere viva luce sulle più rilevanti questioni finanziarie.

Il primo collegio di Bologna elesse Gioacchino Pepoli a suo rappresentante nella sessione parlamentare del 1860.

Nel settembre di quel medesimo anno, quando il governo imprendeva la spedizione delle Marche e dell’Umbria, al marchese Gioacchino Pepoli veniva affidata la vitalissima missione di commissario generale nella seconda di tali provincie. In tale missione il nostro protagonista dette più che mai saggio di energia, non disgiunta da prudenza, di spontaneità d’iniziativa e di fermezza nel saper resistere alle opposizioni, o renitenze, che d’ogni parte gli contrastavano il passo, nella via di ardito progresso civile, ch’egli avea preso a percorrere. In pochi dì organizzò quel paese, istituì le guardie nazionali, i municipi, la pubblica sicurezza, rovesciando tutto l’antico edificio. Fece di più; non esitò a pubblicare le leggi che prescrivevano il matrimonio civile, e la soppressione della maggior parte dei monasteri, leggi che attirarono sul capo del nostro protagonista il [p. 358 modifica]biasimo violento dei retrivi. Non è altresì da tacersi come la di lui condotta relativamente all’occupazione di Viterbo gli meritasse la viva approvazione del governo, e come la sua lettera al generale Goyon e il di lui contegno fermo e risoluto, non solo impedissero che i pontifici entrassero in quella sventurata città prima dei Francesi, ma anche contribuissero a salvare la provincia d’Orvieto dalla rioccupazione delle truppe papali, che sembrava già decretata.

Il marchese Gioacchino Pepoli, quale giusta ricompensa per tanta lealtà e sapienza d’operare, ebbe l’alto onore di recare in Napoli al nostro nobile re il risultalo del plebiscito dell’Umbria, nella quale occasione Vittorio Emanuele lo fregiava del gran cordone dell’ordine Mauriziano. Contemporaneamente il presidente del Consiglio gli scriveva pregandolo di tenersi pronto a sostenere gli alti uffici che il governo gli destinava.

Senonchè, sembrando al nostro protagonista che questo stesso governo, specialmente in quanto riguarda gli alfari di Napoli, non seguisse quella via di conciliazione che avrebbe secondo esso dovuto, e che era meglio consentaneo al concetto politico del Pepoli, questi, eletto di nuovo deputato in Bologna al Parlamento del regno italiano, sedette sui banchi del centro sinistro, e si pose francamente nell’opposizione, come lo hanno provato i di lui voti in favore della proposta del generale La Marmora, e dell’ordine del giorno Garibaldi.

La parola del marchese Popoli, senz’essere delle più eloquenti è però autorevole e degna; il breve discorso da lui pronunciato anche nella presente sessione in occasione dell’interpellanza Audinot sugli affari di Roma ne fa fede; tal discorso venne applaudito da tutti i seggi del Parlamento.