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simo violento dei retrivi. Non è altresì da tacersi come la di lui condotta relativamente all’occupazione di Viterbo gli meritasse la viva approvazione del governo, e come la sua lettera al generale Goyon e il di lui contegno fermo e risoluto, non solo impedissero che i pontifici entrassero in quella sventurata città prima dei Francesi, ma anche contribuissero a salvare la provincia d’Orvieto dalla rioccupazione delle truppe papali, che sembrava già decretata.

Il marchese Gioacchino Pepoli, quale giusta ricompensa per tanta lealtà e sapienza d’operare, ebbe l’alto onore di recare in Napoli al nostro nobile re il risultalo del plebiscito dell’Umbria, nella quale occasione Vittorio Emanuele lo fregiava del gran cordone dell’ordine Mauriziano. Contemporaneamente il presidente del Consiglio gli scriveva pregandolo di tenersi pronto a sostenere gli alti uffici che il governo gli destinava.

Senonchè, sembrando al nostro protagonista che questo stesso governo, specialmente in quanto riguarda gli alfari di Napoli, non seguisse quella via di conciliazione che avrebbe secondo esso dovuto, e che era meglio consentaneo al concetto politico del Pepoli, questi, eletto di nuovo deputato in Bologna al Parlamento del regno italiano, sedette sui banchi del centro sinistro, e si pose francamente nell’opposizione, come lo hanno provato i di lui voti in favore della proposta del generale La Marmora, e dell’ordine del giorno Garibaldi.

La parola del marchese Popoli, senz’essere delle più eloquenti è però autorevole e degna; il breve discorso da lui pronunciato anche nella presente sessione in occasione dell’interpellanza Audinot sugli affari di Roma ne fa fede; tal discorso venne applaudito da tutti i seggi del Parlamento.





È nato in Militello, provincia di Catania in Sicilia, il 4 dicembre del 1800 dal barone Benedetto, e dalla baronessa Agata Cucuzzelli.