Il Parlamento del Regno d'Italia/Carlo Torrigiani
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senatore.
In quei tempi da campo eliso, in cui in Toscana si viveva una vita, che sotto l’apparenza di una gaiezza fittizia e di una coltura superficiale, nascondeva un gran vuoto, esistevano alcune case, nelle quali soltanto si riuniva una società seria, composta di dotti uomini che sapeva guardare un poco al di là del presente o di un immediato avvenire.
Di queste case non nomineremo che una, per ora, ed è quella appunto del chiaro personaggio, di cui ci facciamo a parlare.
Noi non siamo esagerati, affermando che nei tempi cui abbiamo fatta allusione e che vennero fino all’a scensione al pontificato di Pio IX, non si sia fatto e detta cosa a Firenze, che valesse la pena di esser saputa e ripetuta, la quale non fosse stata o proposta o maturata in casa Torrigiani.
Evidentemente il merito di tanto e si utile convegno, dal quale resultavano conseguenze così proficue che basterà immaginare piuttosto che noi le abbiamo a de scrivere, doveva attribuirsi in massima parte al proprietario stesso di quell’ospitale abitazione, dotato qual era e quale è di esimie qualità personali, le quali valevano massimamente ad attirargli d’attorno le persone di maggior valore che possedesse in allora l’Atene italiana.
Il semenzaio delle persone probe, bene intenzionate, energiche e capaci, era là e in due o tre altri palagi, come già abbiamo detto; e mentre i grandi ostelli, in cui le ombre dei magnanimi fiorentini che portarono così in alto la fama della loro patria, dovevano fuggirsi adontante, nel mirare i degeneri loro discendenti, mormorare un frizzo vuoto di senso all’orecchio di una fredda bellezza straniera, cui per pagare le proprie sregolatezze affittavano le case avite, dal Torrigiani si esaminavano ponderatamente la probabilità di un av venire migliore per la patria italiana, e si ventilavano i modi i più opportuni onde trarre un profitto durevole da eventualità forse passeggiere e fuggevoli.
Se le pareti di quelle sale potessero ridire tutti i progetti, i piani e le proposte d’ogni maniera che intesero colle loro orecchie di pietra ricoperte da ricchissime stoffe, e che noi avessimo incarico di riferirle al lettore, empiremmo certo molti volumi che potrebbero gettare non poca luce sugli avvenimenti e sui principali uomini dei nostri tempi, e che si leggerebbero con molto profitto anche dai dotti e forse più specialmente anzi da questi.
Ognun comprende di leggeri qual parte il sagace e patriottico proprietario di una simile casa abbia do vuto avere nei movimenti toscani; egli è però modesto, come lo sono in generale — non sia detto a piena lor gloria — i Toscani.
Sentiamo il bisogno di spiegare subito il significato di questa parentesi che potrebbe parere per lo meno un logogrifo agli occhi d’alcuno.
La modestia è una virtù, senza alcun dubbio, ma spinta tropp’oltre può degenerare in vizio, o almeno servire a nascondere un vizio, e noi diciamo che ciò appunto accade non raramente in Toscana. Dappoichè non vi è paese che in una certa classe si ami più il dolce far niente di quello che si ami in Toscana, e siccome questo dolce far niente si comprende, da chi non è addirittura un idiota, essere una colpa verso la Società, così lo si mette troppo spesso e troppo volontieri sul conto della modestia.
Dio sa se quell’apatia che incontestabilmente viene a buon dritto rinfacciata a quest’ora ai Toscani, apatia che dà così bel giuoco ai Paolotti e ai granduchisti, non ha le sue radici in quella falsa modestia.
Ma il marchese Torrigiani ha date tali prove di operosità in ogni buona ed utile impresa, ch’è più che certo la sua modestia dover essere giudicata, com’è giudicata in effetto, di natura schietta e purissima.
Ad ogni modo egli è senatore; e non si è tratto addietro per divenirlo; e in quell’assemblea un personaggio di criterio e di buon consiglio quale appunto egli è può rendere eccellenti servigi al paese e siamo persuasi che li renderà.