Il Parlamento del Regno d'Italia/Antonio Mosca

Antonio Mosca

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Francesco De Sanctis Vincenzo Cepolla
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


[p. XCV modifica]Antonio Mosca.

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È nostro sistema nel redigere le biografie che ci siamo assunti l’impegno di pubblicare in queste pagine, oltre alle notizie che raccogliamo da persone bene informate, amiche od anche avversarie politiche della persona di cui ci accingiamo a narrare la vita, di aver ricorso a questa persona stessa, la quale, o autograficamente, o a mano di un amico o d’altri, ci trasmette dal canto suo più o meno particolareggiati quei dati o informazioni di che la richiediamo.

A tale inchiesta da noi diretta all’egregio avvocato Mosca, come generalmente a tutti gli onorevoli senatori e deputati, questi ha incominciato col rifiutarsi di accondiscendere ad appagarla; quindi, cedendo a nuove e più pressanti istanze, ci ha inviato una lettera autobiografica, che noi troviamo nella sua semplicità interessantissima, e che, a nostro rischio e periglio, commettiamo l’indiscretezza di regalare tal quale al lettore, che ce ne saprà buon grado, non ne dubitiamo un momento.

Ecco la lettera:

«Egregio signore,

«Milano, li 9 agosto 1861.        

«Scrivo per liberare la promessa data al di Lei segretario di somministrarle alcune notizie intorno alle mie origini e alle vicende della mia esistenza. Nello stesso tempo Le accompagno il mio ritratto.

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«Sono nato in Milano nel giorno 13 maggio 1820. Mio padre era un povero fruttivendolo, mia madre una operaja ricamatrice di paramenti di chiesa; ma la povertà estrema de’ miei genitori non impedì loro di fare ogni opportuno sacrificio onde inviarmi almeno alle scuole elementari. Ivi mi feci distinguere per un’estrema vivacità di carattere ed anche per una certa svegliatezza d’ingegno, che mi attirarono l’attenzione e la benevolenza de’ miei maestri e di tutti i conoscenti.

«Fatto sta che, compiti gli studî elementarî, traendo occasione da una tenue vincita al lotto, che gliene forniva i mezzi, mio padre si decise a farmi intraprendere anche il corso ginnasiale. Ma da questo tempo in poi la fortuna della mia famiglia venne decadendo così rapidamente e profondamente, che noi ci siamo veduti gettati nella più orribile miseria.

«Mio padre, assalito da furiosi attacchi epilettici, tutto pesto e rovinato della persona e altrettanto nell’intelligenza, per crepacuore di tanta sventura andò a finire la travagliata sua carriera all’ospedale. Mia madre, carica del peso di tre figli, senz’altri mezzi che la tenue sua mercede giornaliera di venti soldi di Milano al giorno di lavoro, non viveva più che del sentimento de’ suoi doveri materni, reggendo appena a darci a noi, poveri suoi bambini, un tozzo di pane.

«Nondimeno, tanta era la fede che mia madre poneva nel mio avvenire, che per trovar modo a farmi compire un corso regolare di studî, m’indusse a prender l’abito ecclesiastico e mi collocò chierico in Duomo.

«Questo provvedimento fu la mia salvezza, perchè mi procurò egregi maestri di lettere e mezzi sufficienti di sussistenza fino al termine del corso ginnasiale. Io però non aveva mai avuta alcuna propensione per lo stato ecclesiastico, e molti de’ miei superiori non avevano tardato a rendersene accorti. Sicchè, pigliando essi pure quel provvedimento negli stessi intendimenti miei, acconsentirono di buon grado a che io potessi con quel mezzo procacciarmi quell’istruzione di cui mi credevano meritevole. I successivi studî liceali e universitarî vennero pure da me intrapresi e compiuti [p. 331 modifica]colle sole mie forze, essendomi applicato progressivamente agli insegnamenti inferiori, ed all’università anche in ripetizioni a favore de’ miei condiscepoli medesimi. Così io ho la consolazione di essere figlio della mia qualunque fortuna, giacchè dai dodici anni di mia età in poi mi sono mantenuto sempre col frutto del mio lavoro, ed anzi più tardi, cioè dai 17 anni in poi, seppi provvedere anche all’educazione de’ miei fratelli, e a consolare gli ultimi giorni della mia santa madre.

«Laureato in legge, mi adattai, per vivere e per far vivere la mia famiglia, ad entrare provvisoriamente in uno stabilimento d’istruzione privata in Milano. Intanto però e in meno di diciotto mesi io presi rapidamente tutti gli esami necessarî ad essere facoltizzato per l’insegnamento privato legale e per tutte le materie di tale insegnamento. Venni pure aggregato come dottore collegiale alla facoltà di giurisprudenza di Pavia e una numerosa clientela di studenti mi compensò largamente delle mie fatiche, e mi collocò finalmente al disopra d’ogni bisogno.

«Avrei continuato in questa carriera, per la quale avevo una predilezione decisa, ma il governo austriaco, da qualche tempo ingelositosi di una istituzione che sfuggiva necessariamente alla sua vigilanza, la cominciò a tormentare in diversi modi e sotto tanti pretesti da renderla impossibile e odiosa. Allora io dovetti rivolgermi all’avvocatura, al cui esercizio venni nominato nel 1854 immediatamente in Milano. Subito nel successivo anno 1855 venni eletto a formar parte della commissione giudiziale di Appello per gli esami degli avvocati, e nello stesso anno essendosi attivata la nuova procedura penale, ebbi occasione di farmi distinguere in alcuni importanti dibattimenti, sicchè avendo acquistata qualche reputazione oratoria, mi vidi affidati molti dei processi penali più rilevanti che in questo tratto di tempo vennero giudicati avanti i diversi tribunali di Lombardia, ed anche qualcuno di estero Stato.

«Nella rivoluzione dell’anno 1848 e nei principî della nostra liberazione nel 1859 non ebbi dal governo nè onori, nè uffici di qualsiasi indole o grado. All’aprirsi delle elezioni amministrative alcuni intriganti, [p. 332 modifica]essendosi industriati di escludermi dalle nomine, non fecero che meglio assicurare la mia elezione a consigliere comunale di Milano e a gettare le basi della mia elezione politica in uno dei collegi di questa stessa città; onore, a dir vero, troppo grande perchè io possa avere la debolezza di credere averlo meritato. La mia vita politica, del resto, non è cominciata che in Parlamento, dove ciascuno mi può e mi potrà giudicare a suo beneplacito.

«Ella vede quindi che, dal lato politico principalmente, la mia biografia è di un’insignificanza affatto opprimente. Egli è per questo motivo che io non posso approvare il di lei disegno di collocarmi in una galleria qualunque di uomini contemporanei. Per altro Ella faccia quanto stima meglio, e aggradisca ad ogni modo i sensi di distinta considerazione con cui mi professo di V. S.

Devotis. servo

«Avv. Antonio Mosca».


A questa lettera noi aggiungeremo poche parole.

Il Mosca è entrato al Parlamento preceduto dalla fama di sommo oratore. A questa fama ei non è venuto meno, anzi ha aggiunto nuova forza coi discorsi da lui proferiti nelle due sessioni legislative del 1860 e 61. Il Mosca non prende sovente la parola, ma quando lo fa, ei produce una sensazione profonda. Le materie economiche e le giudiziarie gli sono famigliari ad un modo e la sua maniera di ragionarne è quella di un sano, dotto e logico pensatore.