Un bel mattino donna Donnoletta,
colto il momento, nella casa entrò
d’un giovane Coniglio.
E mentre ch’egli è fuori a far l’amore
nella rugiada, in mezzo al timo in fiore,
le masserizie sue vi collocò.
Quando il Coniglio ebbe mangiato ed ebbe
saltato e rosicchiato,
a casa sua tornò.
Ma proprio in quel momento
ch’entrava nell’oscuro appartamento,
alla finestra l’altra si affacciò.
- Santa ospitalità! che vedo io qui? -
disse il Coniglio fermo sulla porta.
- O signora Faina prepotente,
faccia il piacer d’uscirne immantinente,
o chiamo tutti i Topi del paese
che la faran sgombrar ed a sue spese.
- Che? la terra - risposegli madama
dal naso aguzzo, - è di chi se la piglia.
E proprio non consiglio per sì poco
d’una guerra tentar l’incerto gioco.
E poi per qual ragione
soltanto suo proclama
un luogo ove si arrampica
pel primo anche il padrone?
Qual legge, qual diritto,
e su qual carta è scritto
che questa tana sia
di Pietro, di Martin quondam Iseppe,
o piuttosto di Gianni od anche mia? -
Gian Coniglio rispose che anche l’uso
è buona legge e che per questo ei crede
d’aver diritto. Il nonno suo Belmuso
lasciò la casa al padre suo Belpiede,
dal quale venne al figlio,
ch’è lui, Giovan Coniglio.
- Se del primo occupante tu ritieni -
la Donnola rispose, -
giusta la legge, vieni
e interroghiam Mammone,
ch’è giudice sicuro in queste cose -.
Era questi un gatton grasso e bonario,
un sant’uomo di gatto,
tutto pel, tutto gozzo e tutto lardo,
e che facea la vita
beata di pacifico eremita.
Buon giudice del resto in ogni sorta
di casi... Vanno, picchiano alla porta,
deo gratias... - Miei figliuoli, -
dice padre Leccardo, -
venite pure avanti,
perché sapete, gli anni
m’han fatto sordo, oltre agli altri malanni -.
Vanno i due litiganti,
senza nessun sospetto,
al suo santo cospetto.
Quando il padre Leccardo, il santo scaltro,
li vide bene a tiro,
aprendo le due zampe, all’uno e all’altro
aggiustò le partite in un sospiro.
Così capita spesso
a certi staterelli, che giustizia
chiedon a un diplomatico congresso.