Il Corsaro Nero/CAPITOLO XXII - La savana tremante

La savana tremante

../CAPITOLO XXI - Nella foresta vergine ../CAPITOLO XXIII - L'assalto del giaguaro IncludiIntestazione 25 settembre 2008 75% romanzi

CAPITOLO XXI - Nella foresta vergine CAPITOLO XXIII - L'assalto del giaguaro

CAPITOLO XXII
La savana tremante


L’animale che con tanta audacia li aveva assaliti, nelle forme richiamava alla mente le leonesse dell’Africa; era però di mole molto minore, non dovendo avere una lunghezza maggiore di un metro e quindici o venti centimetri, né un’altezza superiore ai settanta, misurata dalla spalla.

Aveva la testa rotonda, il corpo allungato, ma robusto, una coda lunga piú di mezzo metro, artigli lunghi ed acuti, il pelame fitto ma corto, di colore rosso giallognolo, che diventava piú oscuro sul dorso mentre era chiaro, quasi bianco, sotto il ventre e grigio sul cranio.

Il catalano ed il Corsaro, con una sola occhiata avevano subito capito che si trattava d’uno di quegli animali chiamati dagli ispano-americani mizgli o meglio ancora coguari o puma, ed anche leoni d’America.

Queste fiere, che sono sparse in buon numero anche oggidí, tanto nell’America meridionale, che settentrionale, quantunque siano di statura relativamente piccola, sono formidabili essendo feroci e coraggiose.

Ordinariamente si tengono nei boschi dove fanno grandi distruzioni di scimmie, potendo arrampicarsi con tutta facilità sugli alberi piú alti; talvolta osano avvicinarsi ai luoghi abitati, ed allora producono danni enormi, scannando pecore, vitelli, buoi e perfino cavalli.

In una sola notte sono capaci di uccidere cinquanta capi di bestiame, limitandosi a bere il sangue caldo che fanno sgorgare dalle vene del collo delle vittime. Se non sono affamati, sfuggono l’uomo, sapendo per prova che non sempre riportano vittoria; solo se spinti dalla necessità lo assaltano con coraggio disperato.

Anche feriti si rivoltano contro gli avversari senza contarli.

Talvolta vivono in branchi per meglio cacciare gli animali delle foreste, però per lo piú s’incontrano isolati, anche perché le femmine non hanno grande fiducia nei compagni, correndo il pericolo di vedersi mangiare i piccini. D’altronde anch’esse i primi nati li divorano, nondimeno col tempo diventano madri amorose e difendono accanitamente la loro prole.

— Ventre di pesce-cane!... — esclamò Carmaux. — Sono piccoli, ma hanno maggior coraggio di certi leoni, questi animali.

— Non so come non mi abbia aperta la gola, — rispose il catalano. — Si dice che sono destri nel recidere la vena jugulare per bere il sangue dei disgraziati che abbattono.

— Destri o no, ripartiamo, — disse il Corsaro. — Questo coguaro ci ha fatto perdere del tempo prezioso.

— Le nostre gambe sono leste, comandante.

— Lo so, Carmaux; non scordiamo che Wan Guld ha parecchie ore di vantaggio su di noi. In marcia, amici.

Lasciarono il cadavere del coguaro e si rimisero in cammino attraverso la sconfinata foresta, riprendendo la faticosa manovra del taglio delle liane e delle radici che impedivano loro il passo.

Si erano allora impegnati in mezzo ad un terreno imbevuto di acqua, dove gli alberi piú piccoli avevano acquistate dimensioni enormi. Pareva che camminassero su di una spugna immensa, perché colla sola pressione dei piedi schizzavano fuori, da centomila pori invisibili, dei getti d’acqua.

Forse in mezzo alla foresta si nascondeva qualche savana e chissà, forse qualcuno di quei bacini traditori, chiamati savane tremanti, col fondo costituito di sabbie mobili, che inghiottono qualunque essere osi affrontarle.

Il catalano, già pratico di quella regione, era diventato eccessivamente prudente. Tastava di frequente il suolo con un ramo che aveva tagliato, guardava dinanzi a sé per vedere se la foresta continuava e di tratto in tratto dispensava legnate a destra e a manca. Temeva le sabbie mobili, ma si guardava anche dai rettili, i quali si trovano in gran numero nei terreni umidi delle selve vergini.

Con quella oscurità, poteva porre i piedi su qualche urutú, serpente a strisce bianche, adorno d’una croce sul capo ed il cui morso produce la paralisi del membro offeso, o su di un cobra cipo o serpente liana, cosí chiamato perché è verde e sottile come una vera liana, in modo da poterlo facilmente confondere, oppure su qualche serpente corallo dal morso senza rimedio.

Ad un certo momento il catalano s’arrestò.

— Un altro coguaro? — chiese Carmaux, che gli stava dietro.

— Non oso inoltrarmi se prima non spunta il sole, — rispose.

— Che cosa temi? — chiese il Corsaro.

— Il terreno mi sfugge sotto i piedi, signore. Ciò indica che noi siamo vicini a qualche savana.

— Qualche savana tremante forse?

— Lo temo.

— Perderemo del tempo prezioso.

— Fra mezz’ora spunterà l’alba e poi credete che anche i fuggiaschi non incontrino degli ostacoli?

— Non dico il contrario. Aspetteremo il sorgere del sole.

Si sdraiarono ai piedi d’un albero ed attesero con impazienza che quelle fitte tenebre cominciassero a diradarsi.

La grande foresta, poco prima silenziosa, risuonava allora di mille strani fragori. Migliaia di batraci, rospi, rane-pipa e parraneca facevano udire le loro voci, formando un baccano assordante.

Si udivano abbaiamenti, muggiti interminabili, strida prolungate, come se centomila carrucole fossero in movimento, gorgoglii che sembravano prodotti da centinaia di ammalati occupati a umettarsi le gole con gargarismi, poi un martellamento furioso, come se eserciti di falegnami si celassero sotto i boschi, quindi degli stridii che pareva provenissero da centinaia di seghe a vapore.

Di tratto in tratto invece, sugli alberi, si udiva improvvisamente uno scoppio di fischi acuti, i quali facevano alzare improvvisamente il capo ai filibustieri.

Erano mandati da certe lucertole di dimensioni piccole, ma dotate di polmoni cosí potenti da gareggiare, per forza di voce, colle nostre locomotive.

Già gli astri cominciavano ad impallidire e l’alba a diradare le tenebre quando in lontananza si udí echeggiare una debole detonazione che non si poteva confondere colle grida dei batraci.

Il Corsaro si era bruscamente alzato.

— Un colpo di fucile? — chiese, guardando il catalano, il quale si era pure levato.

— Sembra, — rispose questi.

— Sparato dagli uomini che inseguiamo?...

— Lo suppongo.

— Allora non devono essere lontani.

— Potete ingannarvi, signore. Sotto queste volte di verzura l’eco si ripercuote ad incredibile distanza.

— Comincia a far chiaro; possiamo quindi ripartire, se non siete stanchi.

— Bah!... Riposeremo piú tardi, — disse Carmaux.

La luce dell’alba cominciava a filtrare fra le foglie giganti degli alberi, diradando rapidamente le tenebre e svegliando gli abitanti della foresta.

I tucani dal becco enorme, grosso quanto il loro intero corpo e cosí fragile che costringe quei poveri volatili a gettare il cibo in alto aspettando che cada per ingollarlo, cominciavano a svolazzare sulle piú alte cime degli alberi, mandando le loro grida sgradevoli che somigliano al cigolare di una ruota male unta; gli onorati, nascosti nel piú fitto delle piante, lanciavano a piena gola le loro note baritonali do... mi... sol... do..., i cassichi bisbigliavano dondolandosi sui loro strani nidi in forma di borse, sospesi ai flessibili rami dei mangli o all’estremità delle foglie immense dei maot mentre i graziosi uccelli mosca volavano di fiore in fiore, come gioielli alati, facendo scintillare ai primi raggi del sole le loro piume verdi, turchine o nere a riflessi d’oro e di rame.

Qualche coppia di scimmie, uscita dal nascondiglio, cominciava ad apparire, stiracchiandosi le membra e sbadigliando col muso rivolto al sole.

Erano per lo piú dei barrigudo, quadrumani alti sessanta od ottanta centimetri, con una coda lunga piú dell’intero corpo, con pelame morbido, nero cupo sul dorso e grigiastro sul ventre ed una specie di criniera sulle spalle.

Alcuni si dondolavano appesi per la coda, mandando le loro grida che sembravano volessero dire eske, eske, altri invece, vedendo passare il piccolo drappello, s’affrettavano a salutarlo con boccacce, scagliando frutta e foglie, essendo maligni e impudenti.

In mezzo alle foglie delle palme si scorgeva anche qualche banda di minuscoli quadrumani, i mico, i piú graziosi di tutti, essendo cosí piccini da poter star comodamente nella tasca di una giacca. Salivano e scendevano con vivacità i rami, cercando gli insetti che costituiscono il loro cibo, appena però scorgevano gli uomini si mettevano premurosamente in salvo, sulle fronde piú alte, e di lassú stavano a guardarli coi loro occhi intelligenti ed espressivi.

Di passo in passo che i filibustieri s’inoltravano, gli alberi e le macchie si diradavano, come se non trovassero di loro gradimento quel terreno saturo d’acqua e di natura probabilmente argillosa.

Le splendide palme erano già scomparse e non si vedevano che gruppi di imbauda, specie di piccoli salici, che muoiono durante la stagione piovosa, per ricomparire nella stagione secca; delle iriartree pinciute, strani alberi che hanno il tronco assai rigonfio nella parte inferiore, sostenuto, per un’altezza di due o tre metri, da sette od otto robuste radici e che a venticinque metri d’altezza portano delle grandi foglie dentellate, ricadenti all’ingiro come un enorme ombrello.

Ben presto però anche quegli ultimi alberi scomparvero per dar luogo ad ammassi di calupo, piante dalle cui frutta tagliate a pezzi e lasciate un po’ a fermentare si ricava una bevanda rinfrescante, ed i giganteschi bambú alti quindici e perfino venti metri e cosí grossi da non potersi abbracciare.

Il catalano stava per cacciarsi là in mezzo, quando si volse verso i filibustieri, dicendo loro:

— Prima che abbandoniamo la foresta, spero che gradirete una buona tazza di latte.

— Toh! — esclamò Carmaux allegramente. — Hai scoperto qualche mandria? In tal caso possiamo regalarci anche delle bistecche.

— Niente bistecche per ora, poiché non mangeremo nessuna mucca.

— E chi darà il latte adunque?

— L’arbol del leche.

— Andiamo a mungere l’albero del latte.

Il catalano si fece dare da Carmaux una fiaschetta, s’avvicinò ad un albero dalle foglie ampie, dal tronco grosso, liscio, alto piú di venti metri, sorretto da robuste radici che pareva non avessero posto sufficiente sotto terra, uscendo, e con un colpo del suo spadone lo incise profondamente. Un istante dopo da quella ferita si vide sgorgare un liquido bianco, denso, che somigliava perfettamente al latte e che ne aveva anche il gusto.

Tutti si dissetarono, gustandolo molto, poi ripresero subito le mosse cacciandosi in mezzo ai bambú, assordati da un fischiare acuto ed incessante prodotto dalle lucertole.

Il terreno diventava sempre meno consistente. L’acqua trapelava dappertutto sotto i piedi dei filibustieri, formando delle pozze che s’allargavano rapidamente.

Delle bande d’uccelli acquatici indicavano le vicinanze di una grande palude e d’una savana. Si vedevano stormi di beccaccini, di anhinga, volatili che hanno il collo tanto lungo e sottile che fece dare loro il nome di uccelli serpenti, la testa piccolissima, il becco diritto ed acuto e le penne setose a riflessi d’argento; di ani delle savane, i piú piccoli della specie, essendo un po’ meno grossi delle gazze, colle penne d’un verde oscuro contornate da un lembo violaceo oscuro.

Già lo spagnuolo cominciava a rallentare il passo, per tema che il terreno gli mancasse sotto i piedi, quando un grido rauco e prolungato si fece udire un po’ innanzi, seguito da un tonfo e da un gorgoglio.

— L’acqua!... — esclamò.

— Ma oltre l’acqua mi pare che vi sia qualche animale, — disse Carmaux. — Non hai udito?...

— Sí, il grido d’un giaguaro.

— Brutto incontro, — brontolò Carmaux.

Si erano fermati, appoggiando i piedi su di alcuni bambú atterrati, onde non affondare nella melma, ed avevano sguainate le sciabole e le spade.

L’urlo della fiera non era piú echeggiato; si udivano però dei brontolii sommessi che indicavano come il giaguaro fosse tutt’altro che soddisfatto.

— Forse l’animale sta pescando, — disse il catalano.

— I pesci?... — chiese Carmaux con tono incredulo.

— Vi sorprende?...

— Che io sappia i giaguari non posseggono degli ami.

— Hanno però le unghie e la coda.

— La coda?... Ed a che cosa può servire?...

— Per attirare i pesci.

— Sarei curioso di sapere in qual modo. Forse che vi attaccano all’estremità dei vermicelli?...

— Niente affatto. Si limitano a lasciarla pendere, sfiorando dolcemente l’acqua coi lunghi peli.

— E poi?

— Il resto lo si spiega. Le raje spinose, o le piraja ed i gimnoti credendo di trovare una buona preda accorrono ed è allora che il giaguaro, con un lesto colpo di zampa li afferra, mancando di rado i curiosi che osano mostrarsi alla superficie.

— Lo vedo, — disse in quel momento l’africano, il quale essendo piú alto di tutti poteva guardare piú lontano.

— Chi?... — chiese il Corsaro.

— Il giaguaro, — rispose il negro.

— Che cosa fa?...

— È sulla riva della savana.

— Solo?

— Pare che spii qualche cosa.

— È lontano?

— Cinquanta o sessanta metri.

— Andiamo a vederlo, — disse il Corsaro, con accento risoluto.

— Siate prudente, signore, — consigliò il catalano.

— Se non ci chiuderà il passo non saremo noi ad assalirlo. Avviciniamoci in silenzio.

Scesero dai bambú e, tenendosi celati dietro i fusti d’un macchione di legno cannone, si misero ad avanzare in profondo silenzio, colle sciabole e le spade sguainate.

Percorsi venti passi, giunsero sulla riva d’una vasta palude, la quale pareva che si estendesse per un lungo tratto in mezzo alla foresta vergine.

Era una savana, ossia un bacino melmoso formato dagli scoli di tutta la foresta. Le sue acque, quasi nere pel corrompersi di migliaia e migliaia di vegetali, esalavano dei miasmi deleteri pericolosi per gli uomini, producendo delle febbri terribili.

Piante acquatiche d’ogni specie crescevano per ogni dove. Erano cespugli di mucumucú, dalle larghe foglie galleggianti; gruppi di arum le cui foglie in forma di cuore sorgono sulla cima d’un peduncolo, ed i murici che si arrestano a fior d’acqua. Si vedevano però anche le splendide vittorie regie, le piú grandi fra le piante acquatiche, misurando le loro foglie perfino un metro e mezzo di circonferenza. Sembravano tondi mostruosi, con quei loro margini rialzati, ma difesi da una vera armatura di spine lunghe ed acute.

In mezzo a quelle foglie giganti, spiccavano i superbi fiori di quelle piante acquatiche, fiori che sembravano di velluto bianco, a striature purpuree con delle gradazioni rosee d’una bellezza piú unica che rara.

I filibustieri avevano appena dato uno sguardo alla savana, quando udirono dinanzi a loro, ad una distanza brevissima, risuonare un sordo brontolio.

— Il giaguaro, — esclamò il catalano.

— Dov’è? — chiesero tutti.

— Eccolo là, sulla riva, in agguato.