<dc:title> Il Conte di Carmagnola </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Alessandro Manzoni</dc:creator><dc:date>1828</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Opere varie (Manzoni).djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Il_Conte_di_Carmagnola/Atto_primo/Scena_III&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20221009134029</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Il_Conte_di_Carmagnola/Atto_primo/Scena_III&oldid=-20221009134029
Il Conte di Carmagnola - Atto primo - Scena terza Alessandro ManzoniOpere varie (Manzoni).djvu
Dissimil certo da sì nobil voto
Nessun s’aspetta il mio. Quando il consiglio
Più generoso è il più sicuro, in forse
Chi potria rimaner? Porgiam la mano
Al fratello che implora: un sacro nodo
Stringe i liberi Stati; hanno comuni
Tra lor rischi e speranze; e treman tutti
Dai fondamenti al rovinar d’un solo.
Provocator dei deboli, nemico
D’ognun che schiavo non gli sia, la pace
Con tanta istanza a che ci chiede il Duca?
Perchè il momento della guerra ei vuole
Sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.
Il nostro egli è, se non ci falla il senno,
Nè l’animo. Ei ci vuole ad uno ad uno;
Andiamgli incontro uniti. Ah! saria questa
La prima volta che il Leon giacesse
Al suon delle lusinghe addormentato.
No; fia tentato invan. Pongo il partito
Che si stringa la lega, e che la guerra
Tosto al Duca s’intimi, e delle nostre
Genti da terra abbia il comando il Conte.
marino.
Contro sì giusta e necessaria guerra
Io non sorgo a parlar; questo sol chiedo
Che il buon successo ad accertar si pensi.
La metà dell’impresa è nella scelta
Del Capitano. Io so che vanta il Conte
Molti amici tra noi; ma d’una cosa
Mi rendo certo, che nessun di questi
L’ama più della patria; e per me, quando
Di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.
Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,
Serenissimo Doge, oppormi a voi.
Non è il duce costui quale il richiede
La gravità, l’onor di questo Stato.
Non cercherò perchè lasciasse il Duca.
Ei fu l’offeso; e sia pur ver: l’offesa
È tal che accordo non può darsi; e questo
Consento: io giuro nelle sue parole.
Ma queste sue parole importa assai
Considerarle, perchè tutto in esse
Ei s’è dipinto; e governar sì ombroso,
Sì delicato e violento orgoglio,
O Senatori, non mi par che sia
Minor pensiero della guerra istessa.
Finor fu nostra cura il mantenerci
La riverenza de’ soggetti; or l’altro
Studio far si dovria, come costui
Riverir degnamente. E quando egli abbia
La man nell’elsa della nostra spada,
Potrem noi dir d’aver creato un servo?
Dovrà por cura di piacergli ognuno
Ognuno di noi? Se nasce un disparer, fia degno
Che nell’arti di guerra il voler nostro
A quel d’un tanto condottier prevalga?
S’egli erra, e nostra è dell’error la pena,
Chè invincibil nol credo, io vi domando
Se fia concesso il farne lagno; e dove
Si riscotan per questo onte e dispregi,
Che far? soffrirli? Non v’aggrada, io stimo,
Questo partito; risentirci? a dargli
Occasion che, in mezzo all’opra, e nelle
Più difficili strette ei ci abbandoni
Sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,
Forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli
Quanto di noi pur sa, magnificando
La nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?
il doge.
Il Conte un prence abbandonò; ma quale?
Un che da lui tenea lo Stato, e a cui
Quindi ei minor non potea mai stimarsi;
Un da pochi aggirato, e questi vili;
Timido e stolto, che non seppe almeno
Il buon consiglio tor della paura,
Nasconderla nel core, e starsi all’erta;
Ma che il colpo accennò pria di scagliarlo;
Tale è il signor che inimicossi il Conte.
Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo
Che gli somigli. Se destrier, correndo,
Scosse una volta un furibondo e stolto
Fuor dell’arcione, e lo gettò nel fango;
Non fia per questo che salirlo ancora
Un cauto e franco cavalier non voglia.
marino.
Poichè sì certo è di quest’uomo il Doge,
Più non m’oppongo; e questo a lui sol chiedo:
Vuolsi egli far mallevadore del Conte?
A sì preciso interrogar, preciso
Risponderò; mallevador pel Conte,
Nè per altr’uom che sia, certo, io non entro;
Dell’opre mie, de’ miei consigli il sono:
Quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto
Che guardia al Conte non si faccia, e a lui
Si dia l’arbitrio dello Stato in mano?
Ei diritto anderà; tale io diviso.
Ma s’ei si volge al rio sentier, ci manca
Occhio che tosto ce ne faccia accorti,
E braccio che invisibile il raggiunga?
marco.
Perchè i principi di sì bella impresa
Contristar con sospetti? E far disegni
Di terrori e di pene, ove null’altro
Che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio
Che all’util suo sola una via gli è schiusa;
Lo star con noi. Ma deggio dir qual cosa
Dee sovra ogni altra far per lui fidanza?
La gloria ond’egli è già coperto, e quella
A cui pur anco aspira; il generoso,
Il fiero animo suo. Che un giorno ei voglia
Dall’altezza calar de’ suoi pensieri,
E riporsi tra i vili, esser non puote.
Or, se prudenza il vuol, vegli pur l’occhio;
Ma dorma il cor nella fiducia; e poi
Che in così giusta e grave causa, un tanto
Dono ci manda Iddio; con quella fronte,
E con quel cor che si riceve un dono,
Sia da noi ricevuto.
molti senatori.
Ai voti, ai voti!
il doge.
Si raccolgano i voti; e ognun rammenti
Quanto rilevi che di qui non esca
Motto di tal deliberar, nè cenno
Che presumer lo faccia. In questo Stato
Pochi il segreto hanno tradito, e nullo
Fu tra quei pochi che impunito andasse.