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atto primo. 219

Ei s’è dipinto; e governar sì ombroso,
Sì delicato e violento orgoglio,
O Senatori, non mi par che sia
Minor pensiero della guerra istessa.
Finor fu nostra cura il mantenerci
La riverenza de’ soggetti; or l’altro
Studio far si dovria, come costui
Riverir degnamente. E quando egli abbia
La man nell’elsa della nostra spada,
Potrem noi dir d’aver creato un servo?
Dovrà por cura di piacergli ognuno
Ognuno di noi? Se nasce un disparer, fia degno
Che nell’arti di guerra il voler nostro
A quel d’un tanto condottier prevalga?
S’egli erra, e nostra è dell’error la pena,
Chè invincibil nol credo, io vi domando
Se fia concesso il farne lagno; e dove
Si riscotan per questo onte e dispregi,
Che far? soffrirli? Non v’aggrada, io stimo,
Questo partito; risentirci? a dargli
Occasion che, in mezzo all’opra, e nelle
Più difficili strette ei ci abbandoni
Sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,
Forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli
Quanto di noi pur sa, magnificando
La nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?

il doge.


Il Conte un prence abbandonò; ma quale?
Un che da lui tenea lo Stato, e a cui
Quindi ei minor non potea mai stimarsi;
Un da pochi aggirato, e questi vili;
Timido e stolto, che non seppe almeno
Il buon consiglio tor della paura,
Nasconderla nel core, e starsi all’erta;
Ma che il colpo accennò pria di scagliarlo;
Tale è il signor che inimicossi il Conte.
Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo
Che gli somigli. Se destrier, correndo,
Scosse una volta un furibondo e stolto
Fuor dell’arcione, e lo gettò nel fango;
Non fia per questo che salirlo ancora
Un cauto e franco cavalier non voglia.

marino.


Poichè sì certo è di quest’uomo il Doge,
Più non m’oppongo; e questo a lui sol chiedo:
Vuolsi egli far mallevadore del Conte?