Favole (La Fontaine)/Libro decimoprimo/VII - Il Contadino del Danubio

Libro decimoprimo

VII - Il Contadino del Danubio

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Jean de La Fontaine - Favole (1669)
Traduzione dal francese di Emilio De Marchi (XIX secolo)
Libro decimoprimo

VII - Il Contadino del Danubio
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Un buon consiglio ch’ha la barba grigia
è di non giudicar sull’apparenza.
Del pipistrello già contai la favola
per meglio dimostrar questa sentenza;
ma posso anche citare Esopo e Socrate,
gente conosciutissima, mi pare,
e insieme raccontare
ciò che da Marco Aurelio si descrive
d’un rustico villan che del Danubio
viveva sulle rive.

Ispida e folta la gran barba scende,
e il pel, che tutto prende il collo e il torso,
lo rassomiglia a un orso mal leccato.
Sotto un ciglio più nero del carbone
losco lo sguardo; il naso sgangherato,
le labbra enfiate e addosso un zimarrone
di pel di capra e giunchi alla cintura...
Ecco dell’uom la nobile figura.

Questo superbo arnese
mandaron deputato
alcune cittadelle del paese
che l’Istro bagna, per alzar la voce
contro l’ingorda, atroce
avarizia fiscale dei Romani,
che in ogni parte ormai mettean le mani.
Viene e comincia l’orso
a fare il suo discorso:

- Romani e voi, padri coscritti, udite.
Invoco ai detti miei
propizi prima gl’immortali dèi,
perché non esca dal mio cor un segno
che sia di me, che sia di voi men degno.
Se non parlano i Numi in fondo al core,
ingiustizia vi parla, odio, furore.
E noi sappiamo, ahi miseri! che senza
le sante leggi ogni virtù non vale,
ché sui delitti nostri è la potenza
degl’inimici fabbricata e scende,
istrumento del ciel, Roma fatale,
che coll’avida man tutto ci prende.

Ma vi pigli, o Romani, alto sgomento
che non venga per Roma anche il momento
in cui rovesci il ciel sul vincitore
di tanti vinti il pianto ed il dolore!
Non temete che il ciel ritorca queste,
che voi stringete, per punir funeste
armi sui petti vostri,
e per la man di schiavi vi dimostri
la sua vendetta e l’ira?
Perché siam fatti servi?
Qual forza o qual destino
vi fa tanto protervi?
Perché sull’universo solo a voi
dato è un poter che non è dato a noi?
I nostri campi in pace
noi sempre coltivammo e l’arte e i cari
affetti pria che un popolo rapace
ci togliesse ai tranquilli focolari.
Se i popoli germani,
come da voi s’insegna,
a depredar stendessero le mani,
avrian sul mondo stesa la potenza
della tedesca insegna,
e l’armi anch’essi, come voi, ma senza
ferocia e avidità.
Dei proconsoli vostri al cielo grida
ormai la crudeltà,
che i sacri altari e gl’Immortali sfida.
Mercé vostra, gli dèi non altro mirano
che stragi ed ignominie
e feroci rapine e sprezzo e scempio
di lor, dei templi loro.
Nulla basta a placar questa dell’oro
romana fame, non la terra e l’aspro
degli uomini lavoro.
Oh cessi alfin questo flagel! togliete
questi avidi ladroni,
che già troppo sfruttar dei nostri buoni
popoli i campi, o noi lasciam le mura
delle città, lasciamo
i campi tutti e sui monti fuggiamo
e nelle dense selve
tra men feroci belve,
stanchi di procrear figli, che Roma
uccide, vende, doma.
Presto di vita privi
anche i nostri vedrem figli mal vivi,
ché spinge noi la vostra mano impronta
a far seguire anche il delitto all’onta.
Richiamate i carnefici, o Romani,
che sol dei vizi e di mollezza il culto
diffondono tra i popoli germani,
o voi vedrete scotere la soma
questa gente mal doma e dar spettacolo
sol di rapine onde famosa è Roma.

Invan giustizia con argento ed oro
e con preziose porpore
invocammo più volte da costoro.
Che in mille avvolgimenti
delle leggi si perde anche il decoro.
Che se la voce mia chiara ed aperta
a molti fia savor di forte agrume,
a me togliete il lume
del giorno e fine alla pietosa sorte
ponete colla morte -.

Ciò detto, egli si prostra
in terra e stanno attoniti i Romani,
pensando il cor magnanimo ed il fiero
parlar dell’uom selvatico e sincero,
che tanta forza ed eloquenza mostra.
Sola vendetta e di Romani degna
fu di patrizio a lui data l’insegna,
poi, scelti nuovi magistrati, esempio
agli oratori nostri, dal senato
fu il bel discorso scritto e celebrato.
Ma questa natural arte nel colto
popol di Roma non rimase molto.