Il Circolo Pickwick/Capitolo 5
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Il cielo era limpido e calmo, l’aria balsamica, ed ogni cosa intorno raggiava di bellezza mentre il signor Pickwick, appoggiato al parapetto del ponte di Rochester, contemplava la natura ed aspettava la colazione. E la scena era tale veramente, che un animo anche meno disposto alla contemplazione ne sarebbe stato commosso.
A sinistra dello spettatore ergevasi l’antica muraglia, rotta qua e là, e chinata con un suo fiero cipiglio sulla stretta baia sottostante. Dei ciuffi di alga pendenti dalle pietre smussate ondeggiavano al menomo soffio del vento, e i merli oscuri tristamente s’incoronavano di edera. Dietro questo muro sorgeva l’antico castello, colle torri sfondate, le mura crollanti, ma ancora bello della sua forza, del suo potere di un giorno, quando, settecento anni fa, risuonava biecamente di armi o si allegrava al rumore delle feste e dei canti. Dall’una o dall’altra parte, le rive della Medway, ricche di biade e di pascoli, variate qua e là da un mulino o da una chiesa; vasto e splendido paesaggio, colorato dalle ombre cangianti che rapidamente lo attraversavano a seconda delle prime nuvolette che brillavano e si dissolvevano ai raggi del sole mattutino. Il fiume, riflettendo l’azzurro limpido del cielo, scintillava di mille fuochi; e i remi dei pescatori rompevano in cadenza l’onda tranquilla che si portava lungo la corrente le loro barche pesanti ma pittoresche.
Un profondo sospiro e un lieve tocco sulla spalla destarono il signor Pickwick dalla dolce meditazione. Si voltò e si trovò faccia a faccia con l’uomo-cataletto.
— Contemplate questa scena? gli domandò l’uomo-cataletto.
— Sì, — rispose il signor Pickwick.
— E vi compiacete di esservi levato di così buon mattino?
Il signor Pickwick accennò di sì col capo.
— Ah! bisogna levarsi presto per vedere il sole in tutto il suo splendore, il quale non dura sempre per tutta la giornata. L’alba del giorno e l’alba della vita pur troppo si rassomigliano.
— Avete ragione, signore, — disse il signor Pickwick.
— Com’è comune l’adagio, — riprese a dire l’uomo-cataletto; — "è troppo bella la giornata perchè duri" e come si adatterebbe alla nostra esistenza di tutti i giorni! Che cosa non darei io per tornare ai giorni della mia fanciullezza o per dimenticarli in eterno!
— Avete menato una vita molto travagliata, — disse il signor Pickwick in tono di compassione.
— Molto, oh molto! Più di quanto si possa figurare chi mi vede adesso.
Tacque un momento, poi di botto domandò:
— V’è mai venuta l’idea, in una mattina come questa, che l’annegarsi potrebbe essere la felicità e la pace?
— Dio buono, no! — rispose il signor Pickwick, scostandosi un po’ dal parapetto per un’istintiva apprensione che il suo interlocutore non l’avesse buttato di sotto in via di esperimento.
— Io ci ho pensato più di una volta, — disse l’altro senza badare a quell’atto — Mi pare che quell’acqua calma, fresca, vada mormorando un invito al riposo. Un tonfo, uno sprazzo, una breve lotta; nel primo momento si forma un vortice, poi l’onda s’increspa e gorgoglia; le acque si son chiuse sul vostro capo, e il mondo s’è chiuso per sempre sulle vostre miserie.
L’occhio infossato dell’uomo-cataletto brillava di fosca luce. Ma l’eccitazione fu momentanea. Egli fece per allontanarsi con molta calma, dicendo:
— Andiamo, basta così. Io volevo dirvi tutt’altra cosa. Ieri l’altro sera voi m’invitaste a leggere quel mio scartafaccio e mi ascoltaste attentamente.
— Sì, — rispose il signor Pickwick, — e certamente ho pensato...
— Non vi domando un parere, — lo interruppe quegli, — non ne ho bisogno. Voi fate un viaggio di svago e d’istruzione. Supponete ch’io vi dia un curioso manoscritto, non già curioso, badate bene, perchè strano od inverisimile, ma curioso come una pagina strappata al romanzo della vita. Lo comunichereste al Circolo di cui tante volte mi avete parlato?
— Certamente, — rispose il signor Pickwick, — se così vi piacesse; e sarebbe subito inserito negli Atti.
— Sta bene, lo avrete. Il vostro indirizzo?
Il signor Pickwick gli comunicò il loro probabile itinerario, e l’uomo-cataletto presane nota in un suo untuoso portafogli e rifiutato recisamente il cortese invito a colazione che gli faceva il signor Pickwick, voltò le spalle e si allontanò.
Il signor Pickwick trovò bell’e levati i suoi tre compagni che aspettavano lui per la colazione, la quale era già bandita ed aveva un aspetto molto tentatore. Si posero a tavola; e il prosciutto cotto, le uova, il tè, il caffè, eccetera, incominciarono a scomparire con una rapidità che dimostrava nel tempo stesso la squisitezza del cibo e il buon appetito dei consumatori.
— Ed ora, alla Fattoria, — disse il signor Pickwick — Come ci andremo?
— Sarebbe forse bene consultare il cameriere, — disse il signor Tupman.
Il cameriere fu chiamato.
— Dingley Dell, signori? quindici miglia, signori, per la scorciatoia. Carrozza di posta?
— Nella carrozza di posta non si va che in due, — notò il signor Pickwick.
— È vero, signore, domando scusa, signore. Una bella carrozza a quattro ruote, signore. Sedile per due persone, dietro, uno davanti pel signore che guida — oh! domando scusa, non si va che in tre.
— Che fare? — esclamò il signor Snodgrass.
— Forse ad uno dei signori piacerà andare a cavallo, — suggerì il cameriere, dando un’occhiata al signor Winkle; — ottimi cavalli da sella, signore; qualunque degli uomini del signor Wardle che viene a Rochester lo riporta indietro, signore.
— Egregiamente, — disse il signor Pickwick. — Winkle volete andare a cavallo?
Ora il signor Winkle, nelle più intime latebre del cuore, nutriva certi suoi gravi dubbi relativi alla sua abilità equestre; ma siccome per nulla al mondo avrebbe voluto che altri ne avesse sospetto, rispose subito con grande ardimento:
— Certamente, col massimo piacere.
Il dado era tratto; non c’era risorsa.
— Fateli venire alle undici, — disse il signor Pickwick.
— Benissimo, signore, — rispose il cameriere.
Il cameriere si ritirò, la colazione finì, e i viaggiatori salirono alle loro camere rispettive per preparare un po’ di biancheria da portarsi per l’escursione imminente.
Il signor Pickwick avea già fatto i suoi preparativi e se ne stava a guardare dalla finestra del caffè la gente che passava, quando il cameriere venne ad annunziare che la carrozza era pronta; annunzio che fu subito confermato dall’apparizione della carrozza medesima dietro la finestra sullodata.
Era una curiosa scatola verde piantata su quattro ruote, con dietro un sedile basso per due, che pareva una tinozza per l’uva, e davanti un seggiolino aereo per uno. Era tirata da un immenso cavallo scuro, notevole per una stupenda simmetria di ossa. Un mozzo di stalla gli stava vicino tenendo per la briglia un altro cavallo immenso, — parente stretto, a quanto pareva, di quello della carrozza, — perfettamente sellato pel signor Winkle.
— Signore Iddio! — esclamò il signor Pickwick, mentre stavano ancora in terra e si mettevano i pastrani in carrozza, — Signore Iddio, chi è che deve guidare? A questo non ci avevo pensato.
— Oh, voi naturalmente! — disse il signor Tupman.
— Naturalmente, — ripetette il signor Snodgrass.
— Io! — esclamò il signor Pickwick.
— Niente paura, signore, — disse il mozzo. — Una pecora, signore; un bambino in fasce lo potrebbe guidare.
— Non è ombroso eh? — domandò il signor Pickwick.
— Ombroso? Non s’adombrerebbe se pure avesse ad incontrare un carico di scimmie con le code in fiamme.
A quest’ultima assicurazione non c’era da ribattere. I signori Tupman e Snodgrass montarono; il signor Pickwick s’inerpicò a cassetta, e pose i piedi sopra un apposito predellino coperto da un tappeto sdrucito.
— A te, bel Guglielmo, — disse il mozzo ad un suo sottoposto, — dà le guide al signore.
Il bel Guglielmo, così chiamato probabilmente pei suoi capelli grassi e la faccia untuosa, pose le guide nella mano sinistra del signor Pickwick e il mozzo in capo gli consegnò una frusta nella dritta.
— Ehi, ehi! — gridò il signor Pickwick, vedendo che l’immane quadrupede dimostrava una decisa inclinazione a rinculare nella finestra del caffè.
— Ehi! — echeggiarono Tupman e Snodgrass dal loro sedile.
— Niente, niente! uno scherzo, signori, — disse il mozzo in capo con tono incoraggiante, — tienilo un po’, Guglielmo.
Il mozzo in seconda frenò l’impeto della bestia, mentre il suo superiore andava ad aiutare il signor Winkle a montare a cavallo.
— Dall’altra parte, signore, se non vi dispiace.
— Accidenti se il signore non voleva montare a rovescio, — bisbigliò un postiglione al cameriere che se la divertiva mezzo mondo.
Il signor Winkle, ricevute le debite istruzioni, s’arrampicò sulla sella, con la medesima difficoltà che avrebbe incontrato nel montare in groppa di una, fregata di prima classe.
— Tutto va bene? — domandò il signor Pickwick, con un intimo presentimento che tutto andava male.
— Tutto bene, — rispose debolmente il signor Winkle.
— Lascia andare! — gridò il mozzo — Tenetelo stretto, signore! — e via di conserva la carrozza e il cavallo da sella, col signor Pickwick davanti alla prima, e il signor Winkle in groppa al secondo, con soddisfazione e diletto ineffabile di tutta la gente della corte.
— Che cos’è che lo fa andar di fianco? — domandò il signor Snodgrass dalla scatola al signor Winkle sulla sella.
— Non capisco, — rispose questi. Il suo cavallo camminava in effetto in un modo assai misterioso, cioè tutto di traverso, con la testa da una parte della via e la coda dalla parte opposta.
Il signor Pickwick non era in grado di osservare questo od altri particolari, poichè tutte le sue facoltà erano assorbite dall’animale attaccato alla carrozza, il quale spiegava varie singolarità, molto interessanti per uno spettatore, ma niente affatto piacevoli per chi gli stava seduto dietro. Oltre allo scuotere continuamente la testa con gran fastidio di chi lo guidava e al tirar tanto le redini che a gran stento il signor Pickwick riusciva a tenerle in mano, aveva una strana propensione a gettarsi improvvisamente da un lato della strada, per poi fermarsi di botto e quindi slanciarsi avanti per qualche minuto con una furia che era assolutamente impossibile trattenere.
— Che vuol dir ciò? disse il signor Snodgrass, quando la bestia ebbe eseguito per la ventesima volta questa manovra.
— Non capisco, — rispose il signor Tupman; — mi pare che sia ombroso, o press’a poco.
Il signor Snodgrass stava per rispondere, quando un grido del signor Pickwick lo interruppe.
— Oh, perbacco! M’è caduta la frusta.
— Winkle, — gridò il signor Snodgrass, mentre il cavaliere se ne veniva trottando sul suo immenso bucefalo, col cappello sulle orecchie, e scotendosi tutto come se la violenza di quell’esercizio stesse per ridurlo in frantumi. — Winkle, fate il piacere, raccattate la frusta.
Il signor Winkle tirò la briglia del cavallo gigante fino a diventar paonazzo; ed essendo finalmente riuscito a fermarlo, smontò, consegnò la frusta al signor Pickwick, e riafferrate le redini, fece per rimontare in sella.
Ora, o che il cavallo, per sua naturale disposizione umoristica volesse pigliarsi un po’ di spasso innocente col signor Winkle, o che avesse pensato di poter fare il viaggio egualmente bene con o senza cavaliere, sono punti sui quali, come s’intende, non ci è dato venire ad una conclusione netta e precisa. Quali che fossero i suoi motivi, il fatto è che non sì tosto il signor Winkle avea toccato le redini, che l’animale vi passò di sotto la testa, e indietreggiò per quanto quelle eran lunghe.
— Povera bestia, — disse il signor Winkle con voce carezzevole, — povera bestia, buon vecchio animale! — Ma la povera bestia non era accessibile alle lusinghe; più tentava il signor Winkle di accostarsi, e più quella si cansava; e ad onta di tutti gli artifizi e le carezze, il signor Winkle e il cavallo non fecero che girare l’uno intorno all’altro per dieci minuti di fila, in capo ai quali ciascuno dei due si trovava precisamente al posto di prima. In somma, una disgraziata situazione in qualunque circostanza, ma specialmente sopra una strada solitaria dove non c’è da avere nessuna sorta di aiuti.
— Che debbo fare? — gridò il signor Winkle, quando questo giuoco fu durato un bel pezzo. — Che debbo fare? non mi riesce di pigliarlo.
— È meglio che lo meniate a mano fino a che non saremo arrivati ad una barriera — rispose dalla carrozza il signor Pickwick.
— Ma non vuol venire, capite, — tuonò il signor Winkle. — Venite voi e pigliatelo.
Il signor Pickwick era la vera personificazione della gentilezza e dell’umanità; gettò le guide sulle groppe del cavallo, e disceso che fu dal suo elevato seggiolino, accostò la carrozza alla siepe, per chi sa qualche altro veicolo avesse a sopravvenire, e tornò indietro per assistere il desolato compagno, lasciando soli nella loro tinozza i signori Tupman e Snodgrass.
Non appena il cavallo ebbe scorto il signor Pickwick avanzarsi alla sua volta con la frusta in mano, che subito mutò il movimento rotatorio, del quale fino a quel punto s’era compiaciuto, in un movimento retrogrado così determinato, che il signor Winkle attaccato ai capi delle guide fu trascinato con una certa rapidità verso il punto dal quale erano partiti. Il signor Pickwick corse in suo aiuto; ma più il signor Pickwick correva avanti e più la bestia correva indietro. Vi fu un grande scalpitio, un gran tirar di calci, ed un gran polverio; fino a che il signor Winkle, avendo le braccia quasi slogate, ebbe a lasciar presa. Il cavallo si chetò, sbarrò gli occhi, scosse la testa, voltò la schiena, e si avviò al piccolo trotto verso Rochester, lasciando il signor Winkle e il signor Pickwick a guardarsi in faccia l’un l’altro con la più profonda desolazione. Un rumore a breve distanza attrasse la loro attenzione. Alzarono gli occhi.
¾ Potenzinterra! — esclamò fuori di sè il signor Pickwick, — ecco l’altro cavallo che se la batte!
Pur troppo era vero. L’animale s’era spaventato al rumore e si sentiva le guide sulla groppa. Si capisce subito quel che doveva avvenire. Pigliò a scappare tirandosi dietro la scatola, e i signori Tupman e Snodgrass nella medesima. La corsa fu breve. Il signor Tupman si slanciò nella siepe, il signor Snodgrass ne seguì l’esempio, il cavallo portò a sbattere la carrozza contro un ponte di legno, separò le ruote dalla cassa, e la tinozza dal seggiolino, — e finalmente si fermò sulle quattro zampe a contemplare la rovina che aveva fatto.
La prima cura dei due amici che stavano ancora ritti fu di strigare gli sventurati compagni dal loro ginepraio; operazione complicata che dette loro l’ineffabile soddisfazione di scoprire che non s’erano fatto alcun male, eccetto qualche strappo nei vestiti e varie lacerazioni nella pelle. La seconda cosa da fare era di staccare il cavallo e togliergli i guarnimenti. Compiuto tutto questo, la brigata si avviò a lenti passi, menando con sè il cavallo ed abbandonando la carrozza al suo fato.
Dopo un’ora di cammino arrivarono ad una miserabile osteria con davanti due olmi, una tina ed una insegna; di dietro, una o due mole rotte; di fianco un orto, e tutt’intorno, ammassate in una strana confusione, persiane rotte e imposte e impannate sfasciate. Un uomo dai capelli rossi lavorava nell’orto; e a lui appunto gridò il signor Pickwick:
— Ehi di casa!
L’uomo rosso si rizzò, e facendosi solecchio di una mano, guardò tranquillamente ed a lungo il signor Pickwick e i suoi compagni.
— Ehi di casa! — ripetette il signor Pickwick.
— Ohi! — rispose l’uomo dai capelli rossi.
— Quanto c’è di qui a Dingley Dell?
— Sette miglia avvantaggiate.
— È buona la strada?
— No, punto.
E data questa succosa risposta con un’altra sua occhiata indagatrice, l’uomo rosso si rimise al suo lavoro.
— Vorremmo lasciar qui questo cavallo, — disse il signor Pickwick; — possiamo, eh?
— Volete lasciar qui l’animale, volete? — domandò l’uomo rosso appoggiandosi al manico della vanga.
— Precisamente, — rispose il signor Pickwick, che s’era intanto avvicinato, menando il cavallo per la briglia, al cancello del giardino.
— Ohi, padrona! — gridò l’uomo rosso, uscendo dal giardino, e guardando fiso al cavallo, — padrona!
Una femmina alta ed ossuta, diritta come una colonna, con indosso una rozza mantelletta turchina, e con la vita che le scendeva appena un par di pollici di sotto le ascelle, rispose a quella chiamata.
— Potremmo lasciar qui questo cavallo, buona donna? — disse il signor Tupman avanzandosi e parlando nel tono più insinuante che sapesse. La donna squadrò con un’occhiata sospettosa i quattro viaggiatori, e l’uomo rosso le susurrò qualche cosa all’orecchio.
— No, — rispose dopo un momento, — ho paura io.
— Paura! — esclamò il signor Pickwick, — di che cosa ha ella paura costei?
— Ci dette troppo da fare l’ultima volta, — disse la donna tornando dentro. — e di questi impicci non ne voglio più sapere.
— Ecco la cosa più straordinaria che mi sia mai accaduta, — esclamò stupefatto il signor Pickwick.
— Credo.... credo veramente — bisbigliò il signor Winkle mentre gli amici gli si stringevano intorno, — credo che questa gente ci pigli per ladri.
— Come! — esclamò il Signor Pickwick con uno scoppio d’indignazione.
Il signor Winkle modestamente ripetette la sua supposizione.
— Ehi, quell’uomo! — gridò furioso il signor Pickwick, — vi credete forse che l’abbiamo rubato questo cavallo?
— Altro se lo credo, eh! — rispose l’uomo rosso con una sua smorfia che gli allargò la bocca da un’orecchia all’altra. E così dicendo, voltò le spalle e sbatacchiò loro la porta sul muso.
— Mi pare un sogno, — esclamò il signor Pickwick, — uno spaventevole sogno. Pensare soltanto di dover andar attorno una giornata intiera con un cavallaccio di cui non ci si può sbarazzare!
Gli abbattuti Pickwickiani ripresero tristamente la loro via, seguiti dalle pesanti pedate dell’immenso quadrupede, pel quale tutti oramai provavano il più profondo disgusto.
Era già verso sera quando i quattro amici e il loro compagno a quattro piedi imboccarono il viale che menava alla Fattoria; e benchè così prossimi alla meta, il piacere del viaggio fornito era di molto intiepidito dalla singolarità della loro apparenza e dall’assurda posizione nella quale si trovavano. Abiti laceri, visi graffiati, stivali impolverati, estenuazione generale, e, sopra ogni cosa, il cavallo. Oh, con che cuore il signor Pickwick mandava quel cavallo a tutti i diavoli! Di tanto in tanto avea gettato sul nobile animale qualche sua occhiata spirante odio e vendetta; più di una volta avea calcolato dentro di sè la spesa approssimativa che avrebbe potuto sopportare, segandogli a dirittura la gola; ed ora la tentazione di distruggerlo o di abbandonarlo al suo destino sulla faccia della terra, lo assalì dieci volte più forte. Fu destato da queste bieche meditazioni dal subito apparire di due figure umane ad un gomito del viale. Era il signor Wardle col ragazzo grasso, suo fido seguace.
— Dove diamine siete stati? — domandò il vecchio signore. — Tutt’oggi vi ho aspettati. Mi sembrate stracchi, eh? Come! anche delle graffiature? Niente di male, spero. Bravo, mi fa piacere, tanto piacere. Sicchè, la carrozza è ribaltata? Non importa. Casi frequenti da queste parti. Joe! maledetto ragazzo, s’è addormentato. — Joe, piglia il cavallo da quel signore e portalo nella stalla.
Il ragazzo grasso, tenendo il cavallo per la briglia, si pose a seguirli molle e slombato; e il vecchio signore, cercando con buone parole di consolare i suoi ospiti di quella parte di disgrazie che a loro parve conveniente di rivelare, li menò tutti verso la cucina.
— Ci aggiusteremo un po’ qui, — disse, — e poi vi presento su in salotto. Emma, tira fuori lo spirito di ciliege; a te, Giannina, un ago e un po’ di filo; l’acqua e gli asciugamani, Mariuccia. Su, ragazze, svelte!
Tre o quattro ragazzotte ben pasciute si dispersero subito in cerca dei vari articoli richiesti, mentre due testoni e due faccioni di domestici dell’altro sesso sbucarono dal loro cantuccio presso il camino (perchè, quantunque in maggio, il loro attaccamento al fuoco di legna pareva così cordiale come se si fosse a Natale), e frugarono in certi oscuri ripostigli, dai quali trassero alla luce una bottiglia di grasso lucido e una mezza dozzina di spazzole.
— Su svelti! — disse da capo il vecchio signore. Ma l’esortazione era affatto superflua, perchè in meno di niente una delle ragazze versò lo spirito di ciliege, un’altra portò gli asciugamani, ed uno degli uomini, afferrando per una gamba il signor Pickwick a rischio di fargli perdere l’equilibrio, si diè a strofinargli lo stivale con tanta furia da fargli scottare i calli mentre il compagno, armato di una enorme spazzola, strigliava il signor Winkle con tutta la forza delle braccia, e faceva con la bocca quella specie di zufolio che è proprio dei mozzi di stalla quando sono intenti a questo ufficio dello strigliare una bestia.
Il signor Snodgrass, compiute le sue abluzioni, si mise con le spalle al fuoco, e centellinando sibariticamente il suo spirito di ciliege, diè un’occhiata complessiva alla stanza. Egli ce la descrive di vaste dimensioni, con mattoni rossi e gran cappa di camino; il soffitto ornato di prosciutti, code di cipolle e lardo. Le pareti erano decorate di varie fruste, due o tre briglie, una sella, e un vecchio schizzettone arrugginito, con sotto una scritta che diceva: Carico, — e doveva esserlo, a vederlo, almeno da un mezzo secolo. Un antico orologio, dall’aspetto tranquillo e solenne, palpitava sordamente in un angolo; ed un altro orologio d’argento, non meno antico, pendeva ad uno dei tanti uncini che erano attaccati al muro.
— Siamo pronti? — domandò il vecchio signore, quando i suoi ospiti furono ben lavati, rammendati, spazzolati e ristorati.
— Prontissimi, — rispose il signor Pickwick.
— Andiamo dunque! — E la brigata, dopo aver traversato varii corridoi ed essere stata raggiunta dal signor Tupman, che s’era indugiato alquanto per rubare un bacio a Emma, dalla quale era stato debitamente rimunerato con varii pugni e graffi, arrivò alla porta del salotto.
— Benvenuti! — disse il vecchio signore spalancandola e passando avanti per annunziarli, — benvenuti, o signori, a Dingley Dell.