Il Canzoniere (Bandello)/Le Rime Estravaganti/XXIV - Fenicia fu il mio nome, e indegnamente

Le Rime Estravaganti
XXIV - Fenicia fu il mio nome, e indegnamente

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Le Rime Estravaganti
XXIV - Fenicia fu il mio nome, e indegnamente
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XXIV.

È il sonetto che si legge nella novella dove il Bandello introduce Scipione Attellano a narrare «come il Signor Timbreo di Gardena essendo col re Piero di Ragona in Messina, s’innamora di Fenicia Lionata, e i vari e fortunevoli accidenti che avvennero prima che per moglie la prendesse» (I-22).
      In forma di sonetto-epitaffio essendo Fenicia stata creduta morta; fa da epigrafe sulla sua finta sepoltura.
      Questo e i quattro che seguono sono, a nostro avviso, da aggiungersi alle rime dettate dal Bandello per le ragioni esposte nelle pagine introduttive (vedi p. 28, nota).


Fenicia fu ’l mio nome, e indegnamente
     A crudo cavalier fui maritata,

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     Che poi, pentito1 ch’io gli fossi data,
     4Femmi di grave error parer nocente.2
 Io, ch’era verginella ed innocente,3
     Come mi vidi a torto sì macchiata,
     Prima volli morir ch’esser mostrata
     8A dito, ohimè, per putta da la gente.
Nè fu bisogno ferro al mio morire;4
     Che ’l dolor, fiero più che ferro, valse
     11Quando contra ragion m’udii schernire.
Morendo, Iddio pregai che l’opre false5
     Al fin facesse al mondo discoprire,
     14Poi ch’ai mio sposo di mia fe’ non calse.

Note

  1. V. 3. Pentito, infatti, benchè così non fosse e credesse Timbreo Fenicia disonorata, «messer Lionato restò con questa opinione, che il Signor Timbreo si fosse pentito di far il parentado parendogli che forse troppo si abbassasse e tralignasse dai suoi maggiori» (p. 292).
  2. V. 4. Nocente. Intendi: fece apparire me nocente cioè nociva a lui, quindi colpevole di grave errore. È da escludersi il senso di nocente per innocente, per aferesi, dato il v. 5.
  3. Vv. 5-8. Verginella, sì macchiata, mostrata a dito. Nel lamento succitato Fenicia dice anche: «io so che appo tutti i Messinesi, io acquisto biasimo eterno di quel peccato che mai, non dirò feci, ma certo di far non ci pensai già mai. Tuttavia io come putta sarò sempre mostrata a dito» (p. 293). — Prima volli, nel senso di volli piuttosto, preferii.
  4. Vv. 9-11. Nè fu bisogno ferro al mio morire, bastò il dolore. La stessa idea è già in queste Rime estravaganti al son. XV, v. 12-14. Nella novella la fine è così narrata: «Detto questo [il lamento di Fenicia sopra citato] fu tanta la grandezza del dolore che intorno al core se le inchiavò e sì fieramente lo strinse, che ella volendo non so che più oltre dire, cominciò a perder la favella e balbutire parole mozze, che da nessuno erano intese, e tutto insieme se le sparse per ogni membro un sudor freddissimo, in modo che incrocicchiate le mani si lasciò andar per morta» (p. 294).
  5. Vv. 12-14. Iddio pregai. E la novella: «Poi con tutto il core lo prego divotissimamente che al signor Timbreo apra gli occhi, non perchè mi ritoglia per sposa, che a poco a poco morir mi sento, ma a ciò che egli, a cui la mia fede è stata di poco prezzo, insieme con tutto il mondo conosca, che io mai non commisi quella follia e sì vituperoso errore» (p. 294). E come avvenne, che l’innocenza rifulse e Fenicia fu sposa di Timbreo narra distesamente la seconda parte della lunga, anzi prolissa novella.