Il Baretti - Anno III, n. 1/Inchiesta sull'Idealismo/IV
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IV.
Io sono stato, ma non sono più idealista, nè nel senso tedesco, nè in quello anglo-americano, nè, tanto meno in quello crociano o gentiliano, che non ho mai condiviso. Il dire quindi quel che penso di quest’ultimo equivarrebbe a esporre la mia filosofia, ciò che spero fare presto o tardi, ma che certo non si può fare in un breve articoletto. Quel che qui posso fare può essere del tutto comprensibile solo a chi da esso sia filosoficamente capace di assurgere al mio punto di vasta, lo accetti o no. Comincerò quindi con l’osservare, che il successo editoriale e anche culturale temporaneamente conseguito da un dato sistema in un dato paese o momento storico, non è necessariamente indizio della sua verità e che, ad es., l’intero indirizzo idealistico, da Descartes a Gentile, potrebbe essere dovuto a cause storiche contingenti; e che le verità permanenti da esso acquisite potrebbero benissimo essere, e con più coerenza e organicità, inquadrati in altro sistema. E pur ammettendo che nè il neo realismo anglo-americano, nè il realismo critico anglo-americano e tedesco sono ancor riusciti a formulare una soddisfacente teoria della conoscenza e a rendere giustizia all’idealismo osserverò in secondo luogo che il neo-idealismo italiano trionfa nel mentre altrove, in vario grado e modo, il realismo è in piena rinascita e che, a mio parere, pure in Italia, esso non ha fin qui adeguatamente risposto alle critiche formidabili di Varisco, Aliotta e Mario Sturzo. Può darsi che esso abbia una funzione storica utilissima senza che per ciò esso sia vero di verità propria.
A mio modo di vedere l’idealismo moderno costituisce una grande parentesi critica tra il realismo classico - cristiano - scolastico e un nuovo realismo in via di formazione. Esso è, storicamente, il prodotto, in primo luogo della reazione del mondo moderno contro l’autocrazia ecclesiastica e l’irrigidimento culturale della Chiesa, dal secolo XV in poi; della reazione contro (anzitutto nell’ordine pratico e poi nel culturale) l’incapacità della Chiesa, nonostante che nulla nella sua natura o dottrina intrinsecamente vi ripugnasse o vi si opponesse, a rispettare le autonomie nazionali e le autonomie delle varie arti o scienze; in secondo luogo è il prodotto del senso di espansione e potenza seguito dal costituirsi delle nuove scienze e da tante scoperte ed invenzioni. La Chiesa aveva peccato di eccessiva impazienza di umiliazione delle conoscenze e aveva incautamente dato significato filosofico e religioso a molti elementi puramente scientifici e caduchi delle antiche cosmologie. Il risultato della scoperta che la realtà era più vasta e complessa che non la configurasse la sintesi aristotelico-scolastica o di quella che la Chiesa sapeva dominare fu a un tempo quello di screditare con l’autorità di questa l’ispirazione legittima che l’aveva diretta e di rivendicare la dignità degli elementi della natura e dell’uomo da essa negletti o compressi. Anco una volta l’effetto d’ogni abuso di potere e di autorità fu di far disconoscere e obliare ciò che v’era di legittimo nei motivi di chi ne fu responsabile. Successivamente il naturalismo, l’umanismo, l’idealismo immanentistico moderni sono i prodotti d’un’autocrazia ecclesiastica, che troppo spesso dimenticò il Dio Padre di Gesù per non affermare che il despota e il giudice dell’Antico Testamento.
Dal punto di vista teoretico tutto, l’idealismo moderno è l’inevitabile corollario dell’imperfetto e grossolano realismo aristotelico-scolastico: se l’intelletto non può che cogliere le essenze e se i sensi non ci danno le cose particolari, ma solo i loro accidenti, come conosciamo noi le cose particolari? Una volta scoperta l’inanità della teoria dell’illuminazione soggettiva delle essenze date nel «fantasma» da parte dell’intelletto agente, il fatto della sensazione diventa qualcosa di incomprensibile, diventa prima una conoscenza confusa, poi qualcosa di cieco (Kant) e quindi inutile; e la sola fonte di conoscenza è il nous, la ragione. Anzi, siccome non c’è più neanche ragione di pensare che lo stesso principio di causalità che spinge il fenomeno al noumeno non sia esso stesso un prodotto della mente, presto o tardi sarà inevitabile arrivare alla conseguenza che la mente umana sia la sola realtà, che essa stessa sia la creatrice d’ogni suo contenuto concreto; e che il mondo non sia che il processo di questa mente, di cui noi siamo particolari momenti e individuazioni. Senonchè per questa via, fino a Spaventa, l’idealismo restava puramente razionalistico e inetto a spiegare l’innegabile fatto che noi abbiamo o crediamo avere conoscenze di realtà particolari. Benedetto Croce ha creduto colmare questa lacuna dell’idealismo per mezzo della sua teoria dell’intuizione estetica come primo e basale momento della conoscenza teoretica: la conoscenza delle cose particolari sarebbe la vita precedente che acquista forma e che appare conoscenza particolare e non solo fantastica all’attività concettuale che essa suscita e che la fa oggetto di riflessione. Senonchè, ancora, così facendo egli non ha fatto che richiamare l’attenzione sul fatto che se l’intuizione estetica e la conoscenza delle cose particolari hanno in comune la concretezza individuale, esse però differiscono anche essenzialmente e l’intuizione estetica lunge dal precedere segue la conoscenza teoretica, la quale è sempre contemplativa di un dato che il soggetto sente non essere creazione propria come invece sente l’opera d’arte o il sognare. E col richiamare l’attenzione su questo fatto Benedetto Croce, senza volerlo, ha ridiscoperto il punto di partenza del realismo e aperta la via a una teoria della conoscenza che restituisce, anzi per la prima volta riconosce alla sensazione o meglio alla percezione il valore di conoscenza teoretica di realtà non create dal soggetto conoscente. L’identità dell’intuizione estetica e della conoscenza delle realtà individuate è una conseguenza del postulato idealistico; non è un pronunciamento di una descrizione fedele della realtà. E con essa cade la teoria della circolarità delle forme dello spirito come realtà autonoma e chiusa in sè; come pur cade tutta la riduzione gcntiliana all’unità dell’atto puro del pensare di dette forme. E sopratutto cade, la teoria sia crociana che gentiliana della religione. Se la formula esse est percipi atque intelligi non vale per la conoscenza degli oggetti naturali, che pure sono relativamente passivi rispetto al soggetto, essa è manifestatamente falsa per l’esperienza religiosa la cui irreducibile caratteristica, che le ha meritato il nome di rivelazione si è appunto questa che il soggetto umano è conscio che egli conosce l’oggetto divino solo per l’iniziativa stessa dell’oggetto divino nel rivelarglisi. Se fosse vero che l’uomo arriva al concetto di Dio come trascendente perchè nega sè stesso egli non dovrebbe mai emergere da questa negazione; e se la negazione è solo metaforica, è solo un oblìo momentaneo di sè stesso, rispondiamo che in tal caso avviene qualche cosa d’incompatibile con le premesse idealistiche che non hanno posto per l’inconscio: il soggetto, durante tale oblio, esisterebbe senza saper d’esistere. Lunge la religione dall’essere solo la negazione che il soggetto fa di sè, essa è l’affermazione d’un Oggetto che da sè si rivela come assoluto all’uomo. La religione è l’esperienza più realistica e più refrattaria a interpretazioni idealistico-immanentistiche. Similmente dicasi della storia. L’idealismo ha indubbiamente il merito di aver dimostrato che non solo la realtà umana non è semplicemente vita e nemmeno semplicemente psiche, ma ancora che essa è spirito e che lo spirito umano è essenzialmente storico, in ciò completando e approfondendo l’idea bergsoniana della durata. Ma dal fatto che ogni narrazione storica è fatta dal punto di vista del presente, non segue punto che il passato, che, certo, è dato nel presente, non sia che una creazione del mio presente atto di pensiero: il passato è solo un dato interpretato alla luce del presente. Se io col mio attuale atto di pensiero creo il mondo e se il passato non è che una proiezione del presente, perché ho io bisogno di gesti, di documenti, di monumenti? Come mai vi sono lacune storiche e come mai vi sono progressi nelle conoscenze storiche? In altri termini la storia, come la scienza, presuppone l’attività conoscitiva dell’uomo, sapevamolo; ma presuppone anche una realtà extra soggettiva come oggetto di tale attività; una realtà la cui esistenza è dimostrata dal fatto che essa (e non le nostre preoccupazioni da sole) detta le conclusioni nostre storiograficamente valide.
Nella storia come nella scienza della natura il soggetto procede facendo ipotesi ed esperimenti, scegliendo zone, delimitando campi di esplorazione e proiettando su di essi fasci di luce della vita presente più viva, suggerito da questo o da quel punto di vista: sono sue le ipotesi, sono suoi gli esperimenti, i limiti delle zone, i fasci di luce, i punti di vista tolti dal presente con cui esplora ciò che nel presente resiste al suo sforzo creativo e distruttivo; ma questo ciò, se è presente nel presente, non è identico con ciò che io posso creare di questo presente. E questo ci porta a un altro punto capitale di divergenza. La storia è certo la forma più concreta della realtà, se confrontata con la vita del biologo, con la durata dello psicologo; ma è dessa la forma più alta della realtà spirituale? è lo spirito necessariamente divenire storico? È la storia l’equivalente di Dio e il solo Dio, il solo Assoluto? O non piuttosto la stessa intelligibilità del processo storico, anzi dei processi storici, giacchè non ve n’è uno solo ed unilineare, ma molti che interferiscono gli uni con gli altri, solleva questioni sulla realtà della personalità umana singola, sulla sua dignità morale, nonché questioni sulle condizioni permanenti dei processi stessi, che conducono ad ammettere che essi si svolgono sostenuti e condizionati da una realtà assoluta e incondizionata donde il divenire procede e a cui esso tende, da una realtà che essa sola è atto puro, che possiede interamente sè stessa al di sopra della successione e per rispetto alla quale lo sviluppo biologico, la durata psicologica, la storicità sono i modi in cui esseri finiti sono partecipi dell’eterno? Si che lunge dall’essere la scienza fisico-matematica, la biologia, la psicologia, la storia che ci introducono a Dio col salire verso di lui, esse non descrivono che il movimento, la tendenza del finito verso Lui che solo è ed ha il possesso pieno della realtà e solo origina e spiega dall’alto i loro vari livelli di esistenza e di intelligibilità?
Non potrebb’essere l’iniziata elaborazione filosofica del concetto di storia solo il primo passo a una riconquista del suprastorico e a una rivalutazione della esperienza religiosa e mistica? Non sono il solo a crederlo. Certo mi pare che quali si sieno i servigi resi dall’idealismo in genere ed dal neo-idealismo italiano in particolare alla causa della cultura, quest’ultimo in particolare, pur assurgendo al disopra del neutralismo positivistico, lascia, col non culminare in una concezione religiosa della vita, un vuoto nelle anime, che presto o tardi, nella’azione pratica non meno che nella teoria non ne fa che un positivismo dialettico, una apoteosi di ciò che si compie. Mi pare che la sua funzione storica sia più negativa che positiva e consista nel rivelare all’uomo il vuoto che è nella vita che non ha Dio nel proprio cuore e nel riaprire la via a una più profonda ridiscoperta della grande verità agostiniana: Tu nos ad te fecisti et cor nostrum inquietum est donec requiescat in Te. Mi pare che, con tutta la sua ricchezza quantitativa, il pensiero moderno reagendo al classico-cristiano, ha perduto di vista molte essenziali distinzioni, molte esperienze, molte verità, che solo questa coscienza di vuoto può aiutare a ridiscoprire, a reintegrare e a sviluppare. L’Enciclica papale instaurante la festa di Cristo Re mi sembra più ricca d’urgenti verità restauratrici e rinnovatrici di tutte le filosofie del divenire.
Angelo Crespi.