Il Baretti - Anno II, nn. 6-7/André Gide

Gugliemo Alberti

André Gide ../Paul Valéry ../Comtesse de Noailles IncludiIntestazione 19 marzo 2020 100% Da definire

Paul Valéry Comtesse de Noailles

[p. 4 modifica]

Chi ha letto i libri di André Gide, se con amore e sagacia ne ha approfondito il segreto animo, non è senza riluttanza che s’induce a parlarne. Vorrebbe soddisfarsi di segnalare la perfezione formale di ogni opera, così veramente compiuta, se non conclusa, quale ogni libro, secondo che si legge in Paludes, dev’essere: «pieno, liscio, come un uovo — e le uova non si riempiono: nascono piene». Ma vorrebbe subito soggiungere che il valore dell’artefice non può andar qui considerato disgiunto dalla misteriosa collaborazione inerente alla sua genesi. A chi sappia penetrarne l’incanto l’uovo rivela un Dioscuro latente. Ma, si dirà, la grazia del dio è proprio del poeta in genere di sollecitarla: l’opera perfetta n’è l’abitacolo...

Sono le vie di questa amorosa impetragione che fan così prezioso Gide: difficili, inconsuete vie, perché la virtù ch’egli esige da sè è di donarsi nella sua più ricca, completa integrità — e per giungervi, ecco il desiderio che l’anima, struggente qual’è, farsi trepido, sommesso, agile, delicato. Tutto dona di se: «le meilleur et le pire». Perchè trabocca di riconoscenza per il Creatore: il quale ha fatto «il lupo e l’agnello: poi ha sorriso vedendo che «andava assai bene».

Ahi! ma questo dono di amore, come renderlo accetto altrui? Come arricchire altrui di questo fervore, come trasfonderlo, suscitarlo?

«Chi dirà di quanti arresti, e reticenze, e vie traverse non è responsabile la simpatia, la tenerezza?».

Basta leggere il Prometeo male incatenato per scoprire in Gide, dolorosa e ironica a un tempo, la coscienza non solo della difficoltà di convincere, dei pericoli che minacciano ogni divulgazione e chi s’accanisca a provare, ma più ancora di quanto sia «pericoloso ogni spirito che si assicura che una soluzione possa trovarsi fin da questo mondo; che s’assicura ch’è la sua, e s’adopera a imporla». Prometeo ha un bel nudarsi il fianco e dare il fegato in pasto all’aquila coram populo, ha un bell’alternare alla disperata perorazione della sua conferenza i giochi dei razzi e la distribuzione delle cartoline oscene: il pubblico sbadiglia, poi tumultua. Ma Damocle l’ha ascoltato, e miserevolmente ammala. La parola di Prometeo l’ha morso, e insanabilmente lo corrode. Delira: «Signore, Signore, a chi debbo? Il dovere, Signore, è una cosa orribile; io ho deciso di morirne... «Che hai tu dunque che tu non abbia ricevuto» dice la Scrittura... ricevuto da chi, da chi?? da chi??? — La mia angoscia è intollerabile». Tanto, che ne muore.

«Oh — dice allora Prometeo, uscendo dalla camera mortuaria — tutto ciò è orribile! La fine di Damocle mi sconvolge. E’ vero che la mia conferenza fu la causa della sua malattia?

— Non posso affermarlo, risponde il cameriere — ma so almeno che fu molto scosso da ciò che diceste intorno alla vostra aquila.

— Ero così convinto! — dice Prometeo.

— Per questo lo convinceste... la vostra parola era così viva...

— Io supponevo che non mi ascoltasse... insistevo... se avessi saputo che mi ascoltava...

— Che avreste detto allora?

— La stessa cosa, — balletta Prometeo.


Gide non ha mai tanto cercato lettori, quanto il lettore. Quello stesso al quale si rivolgeva Baudelaire:

Hypocrite lecteur, mon sentblable, mon frère... Il lettore suscettibile, si, di sgomento (di tremblement: das Schaudern, il meglio dell’uomo, dice Goethe) ma che non trarrà mai motivo di scandalo da alcuna delle sue parole — nè d’alcuno dei suoi improvvisi silenzi. Ma chi talora al sentirlo così misteriosamente eludere ogni presa, non ha provato l’impazienza del l’adolescente di Dostoievsky dinanzi a quello stupefacente, sconcertante personaggio che è Versilov?

« — Tacere! ne venite sempre a questo.

— Amico mio, tacere è innocente e bello.

— Bello!

— Certo, il silenzio è sempre bello, e il silenzioso è sempre più bello di colui che parla».

L’opera di Gide così squisitamente letteraria è tutta sbocchi fuor d’ogni letteratura: in quel silenzio che é a un tempio agio, libertà, disinteresse, dove lo spirito si muove agilmente, riconosce le sue necessità, si addestra, si allena — dove ogni anima trova la sua via.

«Leggo come vorrei che mi si leggesse» dice. E più oltre, di un autore: «non afferma, ma insinua; senza mai discutere persuade; entra di sghembo nello spirito del lettore; non so come vi giunga, fa suo il nostro pensiero. Ogni capitolo non ha che poche pagine; mi piace che non esaurisca mai il suo soggetto. Mi piace che dopo averci camminato al fianco alcun tempo ci lasci, che non ci accompagni troppo innanzi. Non si è riconoscenti ai libri che della impulsione che ci danno. Se ne vuole a chi veglia sui nostri passi fino all’ultimo».

Ogni opera di Gide si racchiude in un breve volume. Le prime eduzioni, di tiratura limitata, sono introvabili. Ora, man mano che si ristampano è in libercoli di tale formato che paion fatti per stare in tasca, inavvertiti. La somma dei Morceaux choiisis non soltanto l’aspetto ha di un breviario. Pure «Non portarti dietro il mio libro!» era l’urgente consiglio con cui l’autore delle Norritures terrestres si raccomandava all’ignoto, al sospirato Nathanael...

Nathanael, discepolo ideale, vagheggiato, accarezzato. Troppo amato perchè il poeta subito non lo sfugga, non lo discosti, distacchi da sè. «Butta il mio libro, gli dice, non soddisfartici. Non credere che da alcun altro possa esser trovata la tua verità; più di ogni altra cosa, abbi vergogna di ciò. Se ti cercassi gli alimenti, non avresti fame per mangiarli; se ti preparassi il letto, non avresti sonno per dormirvi».

Ma Nathanael è ancor tutto inerente all’animo del poeta; nè l’espediente che quasi involontariamente si cela nella effusione lirica sfugge al suo chiaro sguardo: «Sono stanco di fingere di educare qualcuno. Quand’ho mai detto che ti volevo simile a me? — E’ perché differisci da me che ti amo; non amo in te che quel che da me differisce. Educare! — Chi educherei dunque se non me stesso? Nathanael, te lo dirò? io mi sono interminabilmente educato. Continuo. Io non mi stimo mai se non in quel che potrei fare».

Fin dagli inizi dell’opera di Gide questa figura si vede che gli si propone di continuo, ma che non gli riesce, che non può ancora liberare da sè. Timida dapprima, ma pur tendenziosa, la riconosciamo in Davide, cui tragicamente, doloroso e miserevole a un tempo, si contrappone Saul indemoniato; poi in Neolottolemo preso a mezzo tra Ulisse e Filottete; più oltre sono Charles Bocage e Moktir volta a volta che vi alludono; il Figliuol prodigo li assomma tutti nella sua confessione — quand’ecco alfine balzar vivo Lafeadio e uscir pel mondo, dove già e come ognuno per la sua via van Fabrizio del Dongo, James Steerforth, Lord Jim o Arcadio Macarovich.

Svelta creatura umana, tutta giovanile grazia in cui le più varie possibilità si equilibrano in una felice armonia... Ah! Lafeadio, sono a chiedermi se alcunché non ti manchi: s’io debba rimpiangere che così grande sia la tua libertà da vietarti attaccamento alcuno, alcuna amicizia... O che sia mestieri persuadersi che «le pas du parfait copain se danse seul»?


Son queste, poche note che un lettore di Gide si lascia carpire. E’ suo malgrado, ripete, che ha ceduto. Non si scusa tuttavia della loro insufficenza, perchè ha la pretesa di estimarla inevitabile.

«Un grande scrittore soddisfa a più di una esigenza risponde a più d’un dubbio, nutre i più diversi appetiti». Queste parole di Gide meglio di qualsivoglia altra valgono per lui stesso. Esigenze, dubbi, appetiti — a un solo che n’abbia, mi stimerò sommamente felice se queste righe saranno valse a indicargli tanta copia e varietà d’alimenti.

Poiché si deve pur ripetere per Gide l’elogio ch’egli rivolgeva a Charles-Louis Philippe: «Egli porta in sè di che disorientare e sorprendere, cioè di che durare».