Il Baretti - Anno II, n. 9/Romanticismo mascherato

Umberto Morra di Lavriano

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Anton Wildgans Hamlet al Haymarket
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ROMANTICISMO MASCHERATO


Una disputa tardiva.

Non parrà strano che io qui mi metta a risuscitare i termini d’un’antica questione, compresa ormai nella storia delle polemiche e delle idee, e anzi lontana tanto dal nostro tempo e dalle nostre voglie, che nessuno è tratto a rinfrescarla con lo studio de’ suoi documenti. Che, se si è sentito questi ultimi anni parlare di neoclassicismo, bisognerebbe anche determinare su quale delle due parole, aggettivo e sostantivo, i suoi fautori ponevano l’accento. Sarà facile convenire, inoltre, che avesse o non avesse quel tentativo saldezza e organicità, non mirava a una conquista o a una riedificazione, non s’opponeva ad un nemico da abbattere; sforzandosi anzi a epurare il ciclo letterario e a ripristinare un gusto che (se si può dire) delibasse e si suggesse una per una le locuzioni e le parole, sprezzava la confusione dei problemi e svalutava la volontà mistica, propagandista, profetica che adopera le lettere a un fine violento verso la vita. Non riteneva, insomma, d’avere a combattere un romanticismo.

In Francia, invece, tale combattimento perdura, o si rinnova. Le sue forme, le sue condizioni, furon diverse, anche al principio, da quelle cui sottostette in Italia; variarono poi rispetto al loro stesso inizio, si ripeterono nei successivi momenti parteggiandosi diversamente il campo; scomparvero a volte i nomi. Sotto altri nomi rifiorirono le stesse idèe, sotto altre idèe militarono le stesse tradizioni e «posizioni»; e per difender meglio quel che parve importante, i primi insorti, i primi romantici furono dagli stessi per così dire loro seguaci rinnegati, scavalcati. Se oggi i primitivi nomi, in qualche senso, o per ironia, o per rimprovero, o per smania nobilitatrice ritornano, e dovere che ogni accusa o difesa che a quei nomi s’accompagna sia bene esaminata, e rivoltata contrariamente al senso esplicito delle parole, prescindendo dalla volontà e dall’ostentazione dei campioni in parata. Per anticipare quelcheduno dei cenni con cui si potrà concludere, diciamo che si trova, come presupposto della tenzone, una implicita e pregiudiziale necessità di parteggiare: quasi che senza «principi», senza aiuti — e di quelli che suscitano intorno rispetto, di cui si può dunque menar vanto — i critici, o anche gli scrittori non potessero tenersi sicuri. Col tentare appoggi e aggrapparsi a puntelli, chiudono meglio, più legittimamente, le fila dei loro argomento; e quasi quasi il vero sta per loro non in una propria esperienza di certezza ma nel potersi muovere di conserva con gli spiriti magni; o anzi secondo una speciale tradizione che spersonalizza fino gli individui più rappresentativi e dalle loro opere trae una sorta di formulario pratico. Queste considerazioni posson valere per le due parti mosse a rumore, benché si abbia da insistere principalmente sulle ragioni di una di esse.

La singolare chiarezza degli scrittori francesi elude la ricerca delle cagioni occulte o dissimulate dei loro scritti; la dirittura della loro espressione può’ indurre a credere a un animo aggressivo e lineare, a un portamento cavalleresco di polemisti che nella lotta toccano sul vivo e pure rispettano gli avversari, ma non tendono tranelli e non gioiscono malignamente delle proprie arti subdole. In vero, il congegno della loro psicologia è più complesso: la bella parata e la finta, che sembrano arti guerresche e esterne, sono anche una difesa, un’occlusione dell’intimo, una specie di serrato inganno del quale i lettori vengono malagevolmente a capo: Quando si riuscisse a spianarlo, si sarebbe poi forse ricompensati da uno spettacolo assai meschino.

Ma, si può allora dire: val la pena di durar tanta fatica, di mettersi a scovare i motivi riposti, quando si sia convinti della loro fallacia? Importa, fuori dei suoi confini e degl’interessi che la agitano, una bega letteraria? La letteratura, ci vuol poco a ammetterlo, va considerata nell’opera; e anzi nella miglior condizione dell’opera, togliendo quel che di troppo particolare e momentaneo la può accompagnare; cercando quando si sanno di dimenticare, o di riassorbirli in una visione serena e confidente, i caratteri troppo precisi, le minuzie, le voglie o le ubbie dell’artista; come d’un amico non si ricordano neppure i difetti ridicoli. Tutto il contorno delle polemiche, aspro ma così breve, non sarebbe meglio trascurarlo, per non esserne involti fuor di luogo, e tratti a scendere a ingiustizie, a partigianerie non richieste?

Invece proprio lo studio, entro la polemica, delle sue ragioni, la spiega e la fa degna. La passione polemica è passione di idèe; se talvolta certe idèe, false o non credute, la servono bassamente, oltre quel primo schermo si giunge alle idee vere che la sottendono. Non tutte si vogliono, o si possono confessare. Son di solito queste a contar di più, a farsi contemporaneamente materia e sostrato dell'opera d'arte; la quale nell'attacco de' suoi nemici ha quasi uno specchio delle proprie ragioni. La polemica che qui si considera è poi tanto piena, tanto vasta che non solo vi si vede come in iscorcio la storia, si può dire, di un secolo; ma vi si bilanciano i contrapposti problemi, le tendenze che affaticano anche fuori dell'arte gli uomini. Se il discorso sarà un pochino lungo, si cerchi la scusa nel desiderio di non trascurare, di non urtare i punti più sensibili degli animi che vi si son rivelati — e dell'animo nostro.


Giudizi temerari.

Il libro che induce in questo discorso non è altro che una raccolta di articoli o di studii critici e riguarda le lettere francesi nei punti secondo l’autore salienti, nel loro carattere più sintomatico. Accanto a alcuni scrittori viventi, e anzi prima di essi, sono considerati tre grandi, ormai morti, che li spiegano; che stabiliscono, fondano gli argomenti, i bisogni onde poi i nuovi scrittori s’ispireranno. Così si produce una filiazione che non è palese nell’arte, perchè è segnata da altre ragioni. A voler un poco esagerare, e mirando più all’intenzione che ai risultati di questo critico, uomo accorto e, suo malgrado, di gusto, si può dire che per lui l’arte non conta; o non gli serve e non se ne fida. Il titolo dei due volumi dichiara il suo animo: egli non riconosce per sè una funzione d’accompagnamento, d’assidua e tranquilla cura e dilucidazione, d’analisi vicina e informatrice; non s’accontenta che i suoi «pezzi» siano, bonariamente, discorsi, ragguagli, articoli. Per osservare il fatto umano e naturale dell’arte, sforzo di tanti e risultato di tanto pochi, ma sempre, dove riesce, bontà che premia la fatica, che riscatta le pecche e rimuove le intenzioni vili; per trovar contatto tra le esigenze, magari posticce, dello scrittore, e la distrazione, la fretta del pubblico che non sarà poca nemmeno in Francia, egli s’impanca sulla più alta cattedra, e manda intorno i suoi verdetti appassionati, irremissibili, e costruisce e pronuncia i suoi giudizi.

Questi «Jugements» di Henri Massis fanno dunque come un breviario di solidale, inflessibile condanna. I primi colpiti sono Renan, France, Barrès; poi vengono Gide, Rolland, Benda, tutti, in globo, gli scrittori giovani, e, per incidenza, Fromentin. Si salva, non diciamo Claudel che è visto di sfuggita e si piglia anche lui le sue brave percosse, ma il solo Duhamel. Parecchie osservazioni son giuste, qualche analisi, le più malvage, penetrano, fatte apposta, con arte, con astuzia, per far male, per far colpo, per toccare quel punto nel quale s’avvelena tutta l’opera. Di eresie letterarie ne son state dette di molto peggio; critiche senz’ordine, critiche assurde se ne conoscono a bizzeffe; critiche tutte inamidate e lustre di logica appariscente, piatte e sempre uguali, che non c’è verso aderiscano alla pelle dei poveri scrittori torturati, anche. Massis, per indole, si lieti lontano da questi esempi e, salvo un caso (il principale), tratta i suoi autori con decenza; ma io stimo che quanto più si tien rispettoso e distante, tanto meno essi (o i loro lettori) gli posson perdonare. Poiché la mancanza prima di rispetto, quel che lo fa nemico delle lettere, e pericoloso e inutile apprezzatore; e il suo arbitrio, il posto di direttore che s’è vagheggiato, la dipendenza in cui chiude gli scrittori, la sufficienza con cui li tien d’occhio. Non ha in essi un momento di fiducia, non si accosta, non li ascolta; non ne sente la potenze, non li ama. E certi pareri, che possono esser rudi e immotivati, o magari sbagliatissimi; ma che sondati con la severa coscienza dell'amicizia, della comunanza d'intenti della collaborazione, dove si cela un'amarezza che è pur sempre affetuosa, o un dispetto che riprende e dimostra un'antica speranza: faranno di certo meno male del più blando di questi giudizi, che sembra sempre una dura degnazione. Quelli poi che non riconoscono le regole che Massim impone e non consentono ne' suoi principi ostentati, trovare ch'egli ne deduce una carità singolarmente esemplare.

Se Massis mi leggesse, rileverebbe in queste parole una filza d’errori e m’avrebbe già condannato. Ho detto del rispetto, della gratitudine che unisce il critico all’autore; ho implicitamente considerato come libero l' ingegno umano; ho riconosciuto i diritti degl’individui. Sono per me, queste, verità semplici, che non ci si sta a spender parole, da cui si muove anche senza proferirle, e così ci s'intende; sono, meglio che verità, usanze. La civiltà, la cultura, parole che anche a Massis son care, le presumono.

Per lui, invece, non sono da accettarsi; sono ombre vane, illusioni, menzogne o anche di peggio: l’incarnazione del male. Entra dunque nella critica questo nuovo, o tanto tempo taciuto, elemento morale: e, sottolineamo, nuovo. Si sta con lui infatti fuori della retorica — o dentro una retorica maggiore. Non si tratta più dell'arte: non si tratta di sbandirne le opere irregolari; ne della gerarchia dei generi: non si tratta di sottomettervi le opere ribelli, di epurare quelle contaminate. In opere d’arte hanno una figura, una potenza terribile, son veicolo di morte. Non son soltanto il segno d’un'epoca, d'una società inquinata, ma l’agente. Il difensore del bene deve dar l'allarme e correre ai ripari. Siccome sono nate da una volontà malvagia e, a prescindere dai risultati, seno perfide nelle intenzioni, il giudice provvede; questa specie di pubblico accusatore incita il popolo a trarne vendetta; questo auto eletto sacerdote denuncia e esorcizza il demonio che vi s'annida.

Non si vuole qui caricare uno sdegno poco proficuo e forse poco convincente. Si cercherà più avanti di prendere a partito il signor Massis su qualche punto preciso, ma le sue affermazioni genetiche e pregiudiziali non riescono nemmeno a soddisfarci. Dove e da chi ha avuto egli l’investitura e la prerogativa del bene? chi gli ha insegnato a farsi creatore, sotto una insegna morale, di dogmi letterari? Il bene di Massis, il male degli scrittori ch’egli denuncia son per noi argomenti dello stesso valore, sfoghi sullo stesso piano, identiche esaltazioni di chi delle lettere si fa una passione e le intende secondo un istinto di dominio che le perturba e le sforma. Con questa differenza: che l’arte, per quanto così ridotta, è sempre ingenua, sempre pura e anche una bestemmia la rende innocua, rivelandola nella sua qualità espressiva. Le diatribe di Massis, secche, articolate, pervase di malizia e continuamente simulatrici, non hanno nemmeno un segno di quella libertà e sincerità che le potrebbe render accettate. Da Veuillot a Blois e a Giuliotti, si conosce la forma artistica dello sdegno e della protesta religiosa, e si ammira. Ma qui non sdegno vivo e non protesta audace. Scoprire gli interessi e i motivi, palesi o occulti, di questo polemista in veste di critico: tale è la forma d’indulgenza con cui par giusto di dover trattare.


Massis e l’Indice.

Massis fa professione di fede cattolica e di pensiero neoscolastico; e anzi la sua critica sarebbe nient’altro che l’applicazione dei presupposti della fede. Crede quindi che gli sia sortita una funzione di provveditore alle lettere e d’indagatore delle tendenze e delle mire dei letterati: un ufficio intermedio tra quello della Congregazione dell’Indice e quello della Santa Inquisizione. Ma i Canoni che statuiscono della censura e della proibizione dei libri, e che formano il codice della Congregazione dell’Indice, non contengono, esplicito o sottinteso, nessun principio positivo di discriminazione; lasciando all’arbitrio e all’iniziativa della Santa Congregazione il giudizio sulla sindacabilità delle opere letterarie, elencano soltanto i libri proibiti ipso iure. Non si erra di molto, credo, se si afferma che i membri della Congregazione mettono all’indice i libri per ragioni analoghe a quelle specificate nel Canone 1399, cioè per ragioni pratiche, quando l’attenzione è attratta da fame scandalose o la moda corre dietro a delle novità teoriche o scientifiche buone per rimbecillire il pubblico grosso. Il padre Giovanni Casati, nella prefazione d’un suo volume assai gustoso, dove tratta dei libri letterati condannati all’indice, dice precisamente: «La Sacra Congregazione dell’Indice giustamente non motiva le sentenze. La ragione è ovvia, e guai se non fosse così! I motivi ch’io o altri può portare potrebbero fors’anche parere a taluno discutibili o non così forti da dover involvere una condanna. Orbene, possono benissimo questi privati giudizi essere discutibili, non può essere discutibile la sentenza della Chiesa, data per ragioni d’ordine pubblico. La sacra auctoritas providentiae doctrinalis, che v’è nella Congregazione dell’Indice, se non ha l’ugual valore dell’infallibilità che v’è in materia di fede, ha però per l’ubbidienza d’un cattolico l’uguale peso». Donde si trae: che i decreti della Congregazione son provvedimenti d’autorità, che un cattolico non può sindacare per quanto si creda superiore e immune, come il più eroico soldato non può a cagione del suo eroismo arbitrarsi a criticare le provvidenze che piglia lo Stato Maggiore contro temuti pericoli ch’egli non è in grado di valutare; e inoltre, che i motivi da cui la Congregazione è diretta sono specifici e singolari, non dipendono da una dottrina che la Chiesa proclami nell’atto di condannare chi se ne scarta, ma da un giudizio di opportunità. Non è difficile capire che la Chiesa a farsi banditrice d’una dottrina letteraria, o a dedurre strettamente una regola critica dal suo insegnamento, farebbe opera caduca e anche insana; poichè essa sa che quanti hanno imparato a credere la sua fede e si son nutriti delle sue parole, non vanno a cercare un nuovo viatico e un’imperfetta scienza, nelle pagine dettate dall’ingegno umano. In esse non trovan nulla di divino, ma un segno vivo dei propri fratelli. Se non le accolgono con sensi di fraternità, se non cercano di giustificarle e d’elevarle, se son pronti a accendersi nello scandalo, e quasi con diletto, non vorremmo, a dir questo, cadere nella stessa colpa, ma ci par proprio che aliti in loro, non vinto, lo spirito dell’odio.

Non odia di certo chi, nella critica d’un libro, fa il suo mestiere, e cerca di sceverare il bello dal brutto; non odia se in tale lavoro riesce ingiusto, che non sarà nemmeno colpa sua, e neanche se, invece di bello e brutto, dice buono e cattivo; non è colpevole neppure, non è spietato se in un libro, in un autore riscontra i segni d’una decadenza, d’una miseria, d’un male, benchè allora abbia a pensare che se quei segni non sono palesi esteticamente e non giungono a una mancanza formale, s’è consolata la miseria, e la decadenza è, con l’ottenere un’espressione, sanata. Ma che cosa si dirà d’un critico che in uno scrittore a cui consacra ben centotrenta pagine riconosce, con astio non mai smesso, la potenza, la volontà, starci per dire la natura del male?


Il demoniaco Gide.

«... cest un livre qui brûle les mains pendant qu’on le lit et avec lequel je n’ai jamais voulu me trouver en tête-à-tête tant je crois qu'il est redoutable» — chi legge queste parole capirà che sono proferite da un povero spirito, da un’anima torbida e debole in preda forse ai fantasmi della sua solitudine o di qualche tara che la rode. Infatti chi la pronuncia è l’eroe d’una storia d' «inquiète puberté - cet état physiologique, cette crise où le masculin et le femminin se confondent où le instincts prennent le dessus, où le raisonnement lui même est tout affectif-cet état informe où le médecin encore plus que le psicologia aurait son mot a dire». Le prime parole riferite son portate sul frontispizio, le seconde scritte a pag. 114 dello stesso volume; le prime estratte da un romanzo di Roger Martin du Gard, les Thibault, annunciano i plurimi sempre uguali saggi su Gide e vi predispongono il lettore; nelle seconde senza reticenze Massis esprime il suo pensiero sugli eroi adolescenti che Martin du Gard è andato a scovare. Insomma, di quella stessa creazione ch’egli considera poi malvagia e anche irreale si serve al principio come d’un testo che provi fino all’evidenza il buon fondamento del suo giudizio su Gide e che obblighi il lettore a dargli ragione. Ma quando le palme ardono naturalmente, qualunque libro càpiti di toccare parrà di fuoco. A tale stregua, non dico i classici ch’egli pretende d’amare, ma tutti i lessici e i dizionari son libri da bandirsi. Conosce forse regole empiriche di condotta e divieti che salvino i ragazzi dagli acerbi perturbamenti? Massis potrebbe sostenere che altro è l’informazione diretta oggettiva e in qualche modo necessaria; i pericoli ch’egli vede e depreca dipendono invece dalla mancanza di brutalità e di precisione, dalla delicatezza, dall’ombre, dalle suggestioni sparse, dallo strano e immediato capovolgimento di valori che un arte esperta ottiene proprio nell’animo di quel fanciullo che più sarebbe oppresso e respinto da una rivelazione rapida, spensierata. Se è davvero opportuno seguitare a discutere di simili argomenti, gli opporremo che anche in questa materia non si vive di solo pane; e che, se un’esperienza dell' osceno è necessaria, è necessaria pure un’esperienza del torbido.

Però lo scandalo di Massis sarebbe confortato dalle confessioni del medesimo Gide; dal modo della raccolta dei suoi «Morceaux choisis» prima di tutto; da quella sua fiducia in un pubblico avvenire che è fatta apposta per inebriare gli adolescenti col gusto — e il premio — della scoperta fruttuosa; dalle confidenze in cui sembra indulgere non tanto come in uno sbocco lirico, per togliersi un peso di dosso, quanto per cattivarsi i cuori, per penetrare gli animi e adoperarli: «j’aime mieux faire agir que d’agir». E ancora: «J’écris pour qu’un adolescent, plus tard, pareil à celui que j’étais à seize ans mais plus libre, plus hardi, plus accompli, trouve lei réponse à son interrogation palpitante».

Nel tempo che Massis scrisse i suoi «jugements» non era divulgato un libro che sarebbe una più triste testimonianza della direzione, segreta o palese, della volontà gidiana. Se il critico avesse tentato di mostrare le brutture, o magari il fallimento dell’opera come un effetto di debolezza, di passività, d’incapacità di costruire: sarebbe rimasto su un terreno neutro, dove le opinioni prevalgono o si chetano secondo la forza persuasiva che comportano e le circostanze; e molte delle sue sarebbero potute parer buone. Qui invece egli s’è corazzato con argomenti di tutt’altro genere, ha mobilitato potenze celesti e infernali; l’inconsueta battaglia fa salire a una dignità non mai prevista il nemico ch’egli non riesce co’ mezzi suoi propri a dominare. Gli imagina dunque una forza cui non sembra egli potesse aspirare; peggio, riconoscendogli delle qualità sataniche, gliela crea, si ha da dire francamente che il temuto pericolo sta negli accenti di cui Massis si serve per meglio determinare e rivelare il testo gidiano; nel rifiuto che sottolinea, nello sdegno così consapevole che richiama e forse avvince; in quel continuo vezzo di rincarare la dose onde le pagine più deplorevoli, che son poi le più attente e le più chiuse, son qui, anche ingiustamente, denunciate; cosicché i lettori più ingenui troveranno l’incitamento a riscorrere i libri e, preoccupati, intristiti, sciuperanno la prima impressione, ch’era la più generosa.

Ecco, per essere più precisi, un episodio secondo Massis rivelatore. Delle «Caves du Vatican» Gide riporta nella sua scelta due brevi brani; il secondo è quello che prepara il delitto «immotivato» di cui si macchia il protagonista Lafcadio. Chi è Lafcadio? — è un prodotto libero, di diverse razze, di combinazioni impensate, d’incontri casuali, e uno che non conosce l’essere suo fino a diciannov’anni, e quando pateticamente lo viene a sapere, vi porta quasi un privilegio d’indipendenza, di candido abbandono e d’autonomia; è un figlio dell’autore. Nelle vagabonde sue esperienze, nella sua indisciplina non trova altro che una maniera di conoscersi — e forse, in certo modo, di «fondarsi»; non può e non sa trovar altro. Un giorno, in treno gli capita un compagno di viaggio ignoto, che gli è indifferente e perciò lo urta; noiato, in cerca d’un qualunque pensiero la sua mente che non piglia sonno si lascia attrarre da una macabra fantasia: «là, tout près de ma main, cette double fermeture que je peux faire jouer aisément; cette porte qui, cédant tout à coup, le laisserait couler en avant; une petite secousse suffirait... Ce n’est pas tant des évènements que j’ai curiosité que de moi - même (in tanto di là dal finestrino muta il paesaggio)... Là sous ma main, cette double fermeture — tandis qu’il est distrait et regarde au loin devant lui — joue, ma foi! plus aisément encore qu’on eût cru. Si je puis compter jusqu’à douze, sans me presser, avant de voir, dans la campagne quelque feu, le tapir est sauvé. Je commence: une; deux; trois; quatre; (lentement! lentement!) cinq; six; sept; huit; neuf... Dix, un feu!» Così il delitto si compie.

Non è possibile, si vede, pensare questo delitto senza Lafcadio; non può essere che si tratti di una propaganda, sia pure simbolica, a favore di un simile atto «gratuito»; il delitto starà o non starà bene alla persona di Lafcadio, la persona sua sarà criticabile sotto molti aspetti, oppure assurda e non viva; la sua assurdità, le sue mancanze si potranno identificare con deficienze personali di Gide che egli e condannato a scontare nella sua arte. Ma fargli imputazioni diverse, maggiori, come se un capitolo di romanzo fosse un articolo sedizioso, è un brutto e villano giuoco. Sarebbe come imputare a un disordine di Stendhal il delitto di Giuliano Sorel.

Ed ecco le parole di Massis: «Cette dangereuse curiosité, c’est pourtant le principe de l’éthique d’André Gide, comme ce goùt du pervers, celui de son esthetique. Et puisque Lafcadio est une créature de son àme, il est legitime que nous cherchions le secret de cette âme, la où il l’a voulu cacher, dans l'intimitè de son art».

Gide, poi, ha fatto di peggio, ha anche scritto: «Il n’y a pas d’oeuvre d’art sans collaboration du démon»; la volontà diabolica, il gusto, l’amore della perdizione è dunque al centro della sua opera; ogni qual volta ha cercato, tentato o raggiunto la libertà, egli è stato arnese del diavolo; ogni suo movimento, incertezza, o «virata» — e sono tante — ne è segno. Ossesso da tale virtù par quasi uscito dal novero dei mortali; poiché egli solo, nelle sue tentazioni intellettuali, avrebbe il male al suo comando. Ma queste frasi, dette e ripetute da uno che ci erede e non per finta, non danno senso; non si conosce virtù magica che si esplichi con un mezzo placido e lento come i libri. Gide, al solito, esperto di tòcco, sulle frasi demoniache non c’insiste; forse le ha incluse per un incauto gusto d’attrattiva e di sfida verso gli spiriti come quello di Massis volontariamente insensibili al suo.

Può menar vanto, se veramente si sazia d’una vittoria come questa. «Et nune» egli ha letto nel Vangelo. «C’est le secret de la félicité superieure que le Christ nous révèle. C’est dés à present et tout aussitòt que nous pouvons participer à la

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félicité. Quelle tranquillité! Ici vraiment le temps s’arrête. Nous entrons dans le royaume de Dieu».

Si rovescino le espressioni: la volontà diabolica regna nel mondo: ora, sùbito, si entra in inferno. La verità tremenda si rivela per bocca d’un uomo, con l’opera de’ suoi scritti, la quale è come un veleno; chi la gusta, non c’è scampo. O forse solo con un antidoto ultrapotente, con un libro che smascheri l’avvincente impostura, col gridare l’allarme sui tetti, con l’acceso garrire di pensieri opposti. Così i malleabili lettori, la dolce e molle natura umana, sono una palla, giocata a rimbalzo fra Gide e Massis, fra le tenebre e la luce, fra l’abisso e l’eliso. Innocenza, vanità: tronfia sicumera di letterati, fregola di pettegolezzi e di risentimenti. Il romantico giuoco, dove non c’è posta poichè il mondo si salva o si perde a dispetto di tali infatuazioni e rancori, nasconde forse una dolorosa realtà dalla quale invano tenta d’escludersi e di schermirsi.


L’elogio della metafisica.

Massis nei suoi sfoghi e nelle sue tentate ricostruzioni non è solo. Julien Benda riconosce anche lui nella coltura occidentale uno spirito di corruzione, che promana nientemeno da Belfegor; e Massis si avvicina particolarmente alle sue ubbie quando si accanisce contro la musica (le genie de la musique en effet est indépendant de toute réflexion, de toute intention consciente... il n’à que faire des concepts et chasse la raison) perchè «Romain Rolland, en effet, est un musicien»; ma lasciamo andare. Con più vigore e con più frutto tanti anni or sono Pierre Lasserre svolse la sua tesi contro l’antico, clamoroso e presto abbandonato romanticismo francese. Ma queste opere, e molte altre, tutti gli scritti insomma che provengono dalla Francia accademica, a volte anche ricchi di buon senso arguto, di correttezza, di placido spirito educato, quali che siano i princìpi e le ambizioni dei loro autori, non esulano, nei loro effetti, del campo letterario. Massis, come s'è detto, è mosso da un’altra passione; forse, meglio che restaurare nelle lettere una norma e un ordine cattolico, si smania d’applicare ad esse quei principi conclamati che sembra possedere non senza maraviglia e senza sforzo.

Non lo si vuol offendere se si rileva che «il problema della realtà» com’egli lo intende, ci sembra un indizio d'una violenza iniziale, d’un ordine imposto e, noi si direbbe, anche più meritorio, ma il quale non si stanca di suscitare consensi, quasi aspirasse a un’armonia che non la devon decidere le opere e la coscienza, ma che richiede soccorsi esteriori e puntelli. Il fervore del proselitismo è di solito un privilegio degli eretici, che rompono la tradizione e quindi non sentono certezza in sè, se non è garantita dall’eco degli adepti.

Nel fuggire se stessi, in questa ricerca d’un mondo, di una realtà che vien ricostruita secondo una forma prediletta, e noi diciamo romanticamente, c’è un sintomo d’impazienza. La solitudine di Pascal non garba a Jacques Maritain, che di Massis si può forse considerare maestro. L’appello alla ragione, la fiducia in essa, lo sperato consenso degli altri entro la precisa Autorità della Chiesa: la libertà delle anime ragionanti che stanno al loro posto ordinato e fanno parte del corpo comune con coscienza tranquilla, più che esser deduzioni, o verità direttamente insegnate dalla Scienza, posson parere un’opinione, un riparo umano di spiriti che son rimasti scossi e vinti da aspetti o da ombre di quella realtà che vorrebbero così ridurre. Per salvare la realtà, essi accusano gli uomini, il tempo; una lunga e pertinace deformazione, un irrazionale abbandono di principi che ha condotto a successive catastrofi, che ora pesa quasi come una necessità formale dalla quale pochi sanno liberarsi: pochi, ma questi tanto illuminati da farne la diagnosi imperterriti e punto timorosi d’esser soggetti alla stessa passione.

Il primo medicamento predicato non è la fede, ma l’uso dell’intelletto. Che la fede sia concessa a rari spiriti e come un loro privilegio, costoro lo ammettono anche troppo facilmente; non sanno le parole, forse illogiche, forse poco plausibili, che son capaci di suscitarla; non si contentano della virtù dell’esempio, che è cosa santamente «gratuita», e potenza da poterla esercitare senza orgoglio il più umile cristiano. La critica che Maritain rivolge a Pascal, non limitandola, al solito, a un ufficio di spiegazione, magari di complemento, ma come giudizio dottrinario e condanna inappellabile d’un suo «male» è notevole: «En fait néanmoins, il serait puéril de ne pas l’avouer, il n’est pas parvenu au plein équilibre doctrinal, et n’a pas su se maintenir parfaitement dans cette pure ligne formelle à laquelle tendait l’instinct de sa foi. Défaillances accidentelles, déficiences et scories humaines qui sont précisément ce qu’aiment et lui des esprits qu’il aurait haïs, car ils n’aiment pas la vèrité, mais l’homme, et ne cherchent dans les grandes àmes qu’ils admirent qu’à s’aimer eux-mêmes avec plus de concupiscence et de délectation».

«Que dirons nous ici? Pascal, et c’est le principe de toutes ses faiblesses, a une incurable défiance à l’égard de la métaphysique». Strana fissazione: le anime sperdute, che si cercano e si ripiegano continuamente, magari follemente perchè non han trovato appoggio di verità son qui prese a consacrare come dei mostri d’egoismo, che non possono provare amore e desiderio della parola altrui senza che v’entri la volontà perversa di trovar consonanze inattese e di bearsi della propria eco. Quelli che l’hanno letto, quasi tutti hanno letto il Vangelo ignoranti, e molti sfiduciati, della metafisica; non staremo qui a dire quale virtù ne hanno tratta. Saranno deboli, ma, appunto, più di tutti han bisogno d’una norma convincente e vicina. E quale forza dimostra chi, eleggendosi a maestro, nella sua aridità li respinge e li sconosce e non si ritiene mai abbastanza logico e pronto nel condannarli, forse per la paura o per il rimorso della sua debolezza non bene guarita?

Con tali osservazioni, con tali insinuazioni psicologiche si rientra di netto nella schiera dei reprobi, trasportati e vinti da una di quelle correnti fatali, a chi non si argina dietro la salda filosofia scolastica; che sono il seguo e la forza del male di questo secolo. Ma una simile condanna non è per dispiacerci. Proprio perchè siamo tanto lontani dal candido ottimismo da non ricordarci nemmeno più dei suo valore, la critica non solo alle utopie romantiche e al mito del progresso, ma allo stesso idealismo, ci convince e, per quanto siamo riformabili, ci raddrizza; è la legittima parola di uomini ormai disamorati di quegli ideali falliti. Faremo volentieri la patetica osservazione delle stanchezze e delle rovine che nelle speranze umane ha portato, dopo tanti inni, quest’ultimo periodo di guerre e di sconquassi: ne dedurremo che la teoria dove si nega o si allontana il male è un’allegra facezia o una disperata difesa di chi non sa sopportare l'evidenza. Ma non possiamo abbandonare, rifiutare il male di questo secolo, il non ancor sceverato male che ci sta nell’animo per rifarci a un imaginato bene che vige, costruito e perfetto, in una precisa epoca della storia; non siamo adatti a accettare il servaggio mentale a un’ipotetica età dell’oro.

Se poi ci vengono a dire che quel pensiero, con i soli mezzi umani, è giunto alla libertà intera e ivi splende, così che ci tocca soltanto interpretarlo, adattarvi la falsa realtà d’oggi giorno perchè essa ritrovi la sua forma vera e si separi dai suoi errori, risponderemo che questa prospettiva mirabile e i tentativi d’applicazione che se ne dànno ci lasciano di molto scettici; e solo se quel pensiero si farà nostro lo potremo accettare. Discorso questo che gli scolastici non posson gradire, come troppo soggettivo e mosso da un pregiudizio fallace; ma perchè si potesse smetterlo, ci vorrebbe un tale mutamento nella nostra natura, che noi non se ne può ammetter l’ipotesi nè preveder le condizioni. Sarà, benché di poca soddisfazione, una superbia: ma induce a non accondiscendere la persuasione che, staccati dagli entusiasmi filosofici e svezzati della compiacenza nei sistemi, sia facile capirli e magari amarli fino nelle loro debolezze e nei loro attriti.


Il realismo romantico.

Guardato con occhi attenti, che cosa ci rappresenta un siffatto tentativo, così fiducioso in un bene già costruito da imparare razionalmente, così accanito contro il fatale danno delle singole libertà e autonomie? Là dove mira all’arte, non la sfiora nemmeno, scambiandola con una dottrina e una disciplina che, se pesano nell'opera poetica, vuol dire che l’autore noti le possiede. Perciò l’asserita sua base filosofica non riesce a impregnare il pensiero o il sentimento cattolico nelle deduzioni a cui giunge. Chi vuol conoscere un pensiero ortodosso, che quasi sembra ispirato da quelle fonti da cui Massis si stacca con disdegno, ne troverà l’esposizione chiara e definita in un recente opuscolo di monsignor Mario Sturzo intorno alla estetica di Benedetto Croce. Il dissenso, necessario per un cattolico, dai fondamenti delle teorie crociane, vi è segnato; ma non toglie la riconoscenza dell’autore a Croce, il favore all’opera sua di svecchiamento e di rinnovamento culturale, una pratica adesione ai risultati della sua critica, espressa con parole anche più calorose di quelle del suo ideatore. All'identità d'intuizione — espressione monsignor Sturzo premette qualche cosa d’inespresso, ma di fondamentale: un’ispirazione, un «primum» che non è certo logico ma nemmeno fantastico, che si specificherà poi nelle ulteriori manifestazioni dell’animo, modificandosi e perdendo. L’intuizione pura perciò è per lui innaturale; l'arte è l’elaborazione ideale d’un dato momento della vita. L’arte pura è prosa o poesia, secondo il modo come lo spirito, che è uno, agisce; perciò lo spirito ha una sua realtà, che precede l’arte. La poesia è «vita cantata». «Questo canto non è solo il verso; prima del verso è tutta la tonalità del pensiero».

Se qui si riscontra una premura di fondar l’arte realisticamente estranea al pensiero crociano, si tratta però d’un realismo del soggetto, che si stacca definitivamente dalle preoccupazioni oggettive. La parola «imitazione» che ricorre, sebbene con cura circospetta, in Lasserre e Massis, è respinta espressamente dallo Sturzo, il quale nega il modello estetico, i canoni, le regole: e nega altresì il valore esemplare e normativo delle rappresentazione artistica, chiodo nel cervello dei suddetti realisti. Per non toglier nulla della sua secchezza al discorso, riportiamo; «Pure l’arte ha il suo valore... La vita ha anche bisogno dell’arte. E quando sono i momenti della poesia forte, viva, esuberante si cerca l’arte come mezzo per perpetuare quei momenti, o per dirli agli altri, o per dar sfogo alla piena del cuore, come avviene col canto. Ma da sola l’arte non vale la vita, da sola la poesia... è come la storia; la storia non vale l’azione, del resto non ne è che la memoria; la poesia dell’arte strettamente dipende dalla poesia della vita, e tanto è più grande, quanto più a quella si accosta».

Si osservi come le parole, in sè esuberanti e infiammate, sono qui contenute e ridotte secondo un’opinione misurata, che non si lascia ingannare dal vago. L’arte non vale la vita; e perciò, anche se vi si scopre qualche fondamento, sono inutili e pericolose le effusioni, le imprecazioni di un Massis. Non può esser angelica, non è diabolica: l’arte è cosa umana, d’un’umanità che in essa dimentica le cure e purifica i sentimenti, limitando: in una forma precisa.

Lo spirito che in essa cerca, trova, teme un cibo sostanziale, un indirizzo vitale, un inizio è uno di quegli spiriti confusi e opachi come sarebbero i peggiori e i più stravaganti di quelli che si dissero romantici.

La parola del classicismo, come costoro ce la servono, cela dunque un inganno; e si smaltisce col suo stesso tono, tanto e adirata e violarla. C’è un vero e proprio scambio di termini. Appare chiaro che essa si tramuta in intenzione o in dispetto romantico (come il loro cattolicismo si segrega e si riduce nella più rigida forma d’orgoglio nazionale); resta ancora da intendere come, perchè la confusione avviene.

A trovare la scusa e la spiegazione d'un tale atteggiamento lo stesso Massis ci aiuta, e in un modo che sembra irrefutabile. Bisogna, anche qui, riferire:

«Toutes lés litteratures ne créent pas ce milieu bien tempéré, et il n’est pas établi que de toutes un ordre se dégage. Peut-on vraiment parler, par exemple, du genie traditionnel de la littérature anglaise? Le genie n’y est rien qu'individuel. Il jaillit en personnalités hardies, excentriques de leur nature, et par là même d’une variété déconcertante; échantillons disparates d'une même race san doute, mais où tout semble créé à chaque coup, le style, la composition et jusqu'à la langue. Chaque oeuvre surgit comme une aventure que rien ne laissait prévoir, anormale et quelque peu monstrueuse. Aussi bien n’exerce-t-elle pas d'influence au sens où nous l’entendons; et n’existe-t-il pas de culture anglaise à proprement parler. Des oeuvres, des individualités exceptionelles, sans action sur la societé, sinon sans disciples... Aussi la littérature anglaise... se retranche du public».

Tolte alcune esagerazioni d’una visione preconcetta, o indotte dalla cattiva fede, non si ritrova in queste parole la precisa figura dell’artista, quale noi lo si immagina? Poteva dir le stesse cose, o poco meno, dell’Italia; facendo il debito onore inoltre alla nostra tradizione retorica, sulla quale anche il più balzano dei futuristi deve (e sa) contare. Si vede dunque definirsi un contrasto che pareva ideale come un contrasto dell'indole di due nazioni; ogni volta che nel corso di questi appunti s’è usato dir «noi», si era mossi da un istintivo e intimo senso che ci appartiene come italiani. Non si pensava d’impostare un’opposta tendenza battagliera, ma di svolgere una considerazione pacata, d’esprimere un giudizio spassionato e normale su alcune quistioni molto scottanti per i nostri vicini d’oltr’Alpe; rassicurati ancora da questo vantaggio: che siccome le varie nostre impressioni non si compongono in una teoria di difesa nazionale, siamo perciò più vicini a un criterio giusto e applicabile universalmente.

Tale teoria dell'arte obbiettiva e, come dicono, classica e dunque strettamente legata a una teoria di conservazione della compagine sociale della Francia e risulta chiaro come in tutto questo «realismo», s'intoni esso alla morale, alla religione, o all'estetica, il predominio lo tiene la politica, la ragion di stato. «Il en va tout autrement des lettres française» — prosegue il Massis — éminemment sociales, où, sous la liberté infime des styles (ma, di fatto, fino a qual segno è propenso a difenderla?) se découvre un réseau merveilleux de disciplines qu’on ne rompt jamais sans une perte désastreuse». Non diciamo, per carità, che con queste stigmate sociali non si possa far arte; diciamo che quando la si gusta se ne deve prescindere in tutto.

Ma d’altronde un principio così superficiale ed estrinseco si rivolta in suo proprio danno: dalla stessa osservanza e pressura d’un mezzo sociale ristretto e esigente scatta, una pretesa di libertà, per l'artista, che è altrettanto avulsa dalle ragioni dell’arte e perniciosa. L'individuo artista si gonfia della sua propria eco; si stima, e si vuole, riformatore, missionario, vate. L’eccitabile popolo di Francia come una volta nella corte o nelle classi raffinate della società «spirituale» trova nell’arte il suo modello e il suo specchio; e vi ha pure un rapido mezzo di propagarla. Dalla balorda esaltazione romantica al dandysmo affettato, al verismo scientifico, a quest'ultimo assillo, forse più tristo e più segreto, d'immoralismo, sentiamo pesare negli artisti un'ansia, un odio, un amore sociale, che li fa spesso pedanti e smorti funzionari del disordine. Massis vorrebbe essere, tra tante rovine, un morale architetto; non si può negare che Gide sia, nell’intenzione sua appena cosciente, un turbato demolitore.

Queste maschere, noi, o ingenui o accorti, non so, le strappiamo senza rimorso alla lettura; ricompaiono, fastidiose e ingombranti, quando ci mettiamo a riflettere, a analizzare. Che siano un utile strumento, e una necessità della vita francese, non neghiamo; ma è ingrata la fatica di volerle estendere, e ci si può opporre con tranquilla coscienza al tentativo di dar loro forma e valore universale.

Umberto Morra di Lavriano.