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il baretti 39

ROMANTICISMO MASCHERATO


Una disputa tardiva.

Non parrà strano che io qui mi metta a risuscitare i termini d’un’antica questione, compresa ormai nella storia delle polemiche e delle idee, e anzi lontana tanto dal nostro tempo e dalle nostre voglie, che nessuno è tratto a rinfrescarla con lo studio de’ suoi documenti. Che, se si è sentito questi ultimi anni parlare di neoclassicismo, bisognerebbe anche determinare su quale delle due parole, aggettivo e sostantivo, i suoi fautori ponevano l’accento. Sarà facile convenire, inoltre, che avesse o non avesse quel tentativo saldezza e organicità, non mirava a una conquista o a una riedificazione, non s’opponeva ad un nemico da abbattere; sforzandosi anzi a epurare il ciclo letterario e a ripristinare un gusto che (se si può dire) delibasse e si suggesse una per una le locuzioni e le parole, sprezzava la confusione dei problemi e svalutava la volontà mistica, propagandista, profetica che adopera le lettere a un fine violento verso la vita. Non riteneva, insomma, d’avere a combattere un romanticismo.

In Francia, invece, tale combattimento perdura, o si rinnova. Le sue forme, le sue condizioni, furon diverse, anche al principio, da quelle cui sottostette in Italia; variarono poi rispetto al loro stesso inizio, si ripeterono nei successivi momenti parteggiandosi diversamente il campo; scomparvero a volte i nomi. Sotto altri nomi rifiorirono le stesse idèe, sotto altre idèe militarono le stesse tradizioni e «posizioni»; e per difender meglio quel che parve importante, i primi insorti, i primi romantici furono dagli stessi per così dire loro seguaci rinnegati, scavalcati. Se oggi i primitivi nomi, in qualche senso, o per ironia, o per rimprovero, o per smania nobilitatrice ritornano, e dovere che ogni accusa o difesa che a quei nomi s’accompagna sia bene esaminata, e rivoltata contrariamente al senso esplicito delle parole, prescindendo dalla volontà e dall’ostentazione dei campioni in parata. Per anticipare quelcheduno dei cenni con cui si potrà concludere, diciamo che si trova, come presupposto della tenzone, una implicita e pregiudiziale necessità di parteggiare: quasi che senza «principi», senza aiuti — e di quelli che suscitano intorno rispetto, di cui si può dunque menar vanto — i critici, o anche gli scrittori non potessero tenersi sicuri. Col tentare appoggi e aggrapparsi a puntelli, chiudono meglio, più legittimamente, le fila dei loro argomento; e quasi quasi il vero sta per loro non in una propria esperienza di certezza ma nel potersi muovere di conserva con gli spiriti magni; o anzi secondo una speciale tradizione che spersonalizza fino gli individui più rappresentativi e dalle loro opere trae una sorta di formulario pratico. Queste considerazioni posson valere per le due parti mosse a rumore, benché si abbia da insistere principalmente sulle ragioni di una di esse.

La singolare chiarezza degli scrittori francesi elude la ricerca delle cagioni occulte o dissimulate dei loro scritti; la dirittura della loro espressione può’ indurre a credere a un animo aggressivo e lineare, a un portamento cavalleresco di polemisti che nella lotta toccano sul vivo e pure rispettano gli avversari, ma non tendono tranelli e non gioiscono malignamente delle proprie arti subdole. In vero, il congegno della loro psicologia è più complesso: la bella parata e la finta, che sembrano arti guerresche e esterne, sono anche una difesa, un’occlusione dell’intimo, una specie di serrato inganno del quale i lettori vengono malagevolmente a capo: Quando si riuscisse a spianarlo, si sarebbe poi forse ricompensati da uno spettacolo assai meschino.

Ma, si può allora dire: val la pena di durar tanta fatica, di mettersi a scovare i motivi riposti, quando si sia convinti della loro fallacia? Importa, fuori dei suoi confini e degl’interessi che la agitano, una bega letteraria? La letteratura, ci vuol poco a ammetterlo, va considerata nell’opera; e anzi nella miglior condizione dell’opera, togliendo quel che di troppo particolare e momentaneo la può accompagnare; cercando quando si sanno di dimenticare, o di riassorbirli in una visione serena e confidente, i caratteri troppo precisi, le minuzie, le voglie o le ubbie dell’artista; come d’un amico non si ricordano neppure i difetti ridicoli. Tutto il contorno delle polemiche, aspro ma così breve, non sarebbe meglio trascurarlo, per non esserne involti fuor di luogo, e tratti a scendere a ingiustizie, a partigianerie non richieste?

Invece proprio lo studio, entro la polemica, delle sue ragioni, la spiega e la fa degna. La passione polemica è passione di idèe; se talvolta certe idèe, false o non credute, la servono bassamente, oltre quel primo schermo si giunge alle idee vere che la sottendono. Non tutte si vogliono, o si possono confessare. Son di solito queste a contar di più, a farsi contemporaneamente materia e sostrato dell'opera d'arte; la quale nell'attacco de' suoi nemici ha quasi uno specchio delle proprie ragioni. La polemica che qui si considera è poi tanto piena, tanto vasta che non solo vi si vede come in iscorcio la storia, si può dire, di un secolo; ma vi si bilanciano i contrapposti problemi, le tendenze che affaticano anche fuori dell'arte gli uomini. Se il discorso sarà un pochino lungo, si cerchi la scusa nel desiderio di non trascurare, di non urtare i punti più sensibili degli animi che vi si son rivelati — e dell'animo nostro.


Giudizi temerari.

Il libro che induce in questo discorso non è altro che una raccolta di articoli o di studii critici e riguarda le lettere francesi nei punti secondo l’autore salienti, nel loro carattere più sintomatico. Accanto a alcuni scrittori viventi, e anzi prima di essi, sono considerati tre grandi, ormai morti, che li spiegano; che stabiliscono, fondano gli argomenti, i bisogni onde poi i nuovi scrittori s’ispireranno. Così si produce una filiazione che non è palese nell’arte, perchè è segnata da altre ragioni. A voler un poco esagerare, e mirando più all’intenzione che ai risultati di questo critico, uomo accorto e, suo malgrado, di gusto, si può dire che per lui l’arte non conta; o non gli serve e non se ne fida. Il titolo dei due volumi dichiara il suo animo: egli non riconosce per sè una funzione d’accompagnamento, d’assidua e tranquilla cura e dilucidazione, d’analisi vicina e informatrice; non s’accontenta che i suoi «pezzi» siano, bonariamente, discorsi, ragguagli, articoli. Per osservare il fatto umano e naturale dell’arte, sforzo di tanti e risultato di tanto pochi, ma sempre, dove riesce, bontà che premia la fatica, che riscatta le pecche e rimuove le intenzioni vili; per trovar contatto tra le esigenze, magari posticce, dello scrittore, e la distrazione, la fretta del pubblico che non sarà poca nemmeno in Francia, egli s’impanca sulla più alta cattedra, e manda intorno i suoi verdetti appassionati, irremissibili, e costruisce e pronuncia i suoi giudizi.

Questi «Jugements» di Henri Massis fanno dunque come un breviario di solidale, inflessibile condanna. I primi colpiti sono Renan, France, Barrès; poi vengono Gide, Rolland, Benda, tutti, in globo, gli scrittori giovani, e, per incidenza, Fromentin. Si salva, non diciamo Claudel che è visto di sfuggita e si piglia anche lui le sue brave percosse, ma il solo Duhamel. Parecchie osservazioni son giuste, qualche analisi, le più malvage, penetrano, fatte apposta, con arte, con astuzia, per far male, per far colpo, per toccare quel punto nel quale s’avvelena tutta l’opera. Di eresie letterarie ne son state dette di molto peggio; critiche senz’ordine, critiche assurde se ne conoscono a bizzeffe; critiche tutte inamidate e lustre di logica appariscente, piatte e sempre uguali, che non c’è verso aderiscano alla pelle dei poveri scrittori torturati, anche. Massis, per indole, si lieti lontano da questi esempi e, salvo un caso (il principale), tratta i suoi autori con decenza; ma io stimo che quanto più si tien rispettoso e distante, tanto meno essi (o i loro lettori) gli posson perdonare. Poiché la mancanza prima di rispetto, quel che lo fa nemico delle lettere, e pericoloso e inutile apprezzatore; e il suo arbitrio, il posto di direttore che s’è vagheggiato, la dipendenza in cui chiude gli scrittori, la sufficienza con cui li tien d’occhio. Non ha in essi un momento di fiducia, non si accosta, non li ascolta; non ne sente la potenze, non li ama. E certi pareri, che possono esser rudi e immotivati, o magari sbagliatissimi; ma che sondati con la severa coscienza dell'amicizia, della comunanza d'intenti della collaborazione, dove si cela un'amarezza che è pur sempre affetuosa, o un dispetto che riprende e dimostra un'antica speranza: faranno di certo meno male del più blando di questi giudizi, che sembra sempre una dura degnazione. Quelli poi che non riconoscono le regole che Massim impone e non consentono ne' suoi principi ostentati, trovare ch'egli ne deduce una carità singolarmente esemplare.

Se Massis mi leggesse, rileverebbe in queste parole una filza d’errori e m’avrebbe già condannato. Ho detto del rispetto, della gratitudine che unisce il critico all’autore; ho implicitamente considerato come libero l' ingegno umano; ho riconosciuto i diritti degl’individui. Sono per me, queste, verità semplici, che non ci si sta a spender parole, da cui si muove anche senza proferirle, e così ci s'intende; sono, meglio che verità, usanze. La civiltà, la cultura, parole che anche a Massis son care, le presumono.

Per lui, invece, non sono da accettarsi; sono ombre vane, illusioni, menzogne o anche di peggio: l’incarnazione del male. Entra dunque nella critica questo nuovo, o tanto tempo taciuto, elemento morale: e, sottolineamo, nuovo. Si sta con lui infatti fuori della retorica — o dentro una retorica maggiore. Non si tratta più dell'arte: non si tratta di sbandirne le opere irregolari; ne della gerarchia dei generi: non si tratta di sottomettervi le opere ribelli, di epurare quelle contaminate. In opere d’arte hanno una figura, una potenza terribile, son veicolo di morte. Non son soltanto il segno d’un'epoca, d'una società inquinata, ma l’agente. Il difensore del bene deve dar l'allarme e correre ai ripari. Siccome sono nate da una volontà malvagia e, a prescindere dai risultati, seno perfide nelle intenzioni, il giudice provvede; questa specie di pubblico accusatore incita il popolo a trarne vendetta; questo auto eletto sacerdote denuncia e esorcizza il demonio che vi s'annida.

Non si vuole qui caricare uno sdegno poco proficuo e forse poco convincente. Si cercherà più avanti di prendere a partito il signor Massis su qualche punto preciso, ma le sue affermazioni genetiche e pregiudiziali non riescono nemmeno a soddisfarci. Dove e da chi ha avuto egli l’investitura e la prerogativa del bene? chi gli ha insegnato a farsi creatore, sotto una insegna morale, di dogmi letterari? Il bene di Massis, il male degli scrittori ch’egli denuncia son per noi argomenti dello stesso valore, sfoghi sullo stesso piano, identiche esaltazioni di chi delle lettere si fa una passione e le intende secondo un istinto di dominio che le perturba e le sforma. Con questa differenza: che l’arte, per quanto così ridotta, è sempre ingenua, sempre pura e anche una bestemmia la rende innocua, rivelandola nella sua qualità espressiva. Le diatribe di Massis, secche, articolate, pervase di malizia e continuamente simulatrici, non hanno nemmeno un segno di quella libertà e sincerità che le potrebbe render accettate. Da Veuillot a Blois e a Giuliotti, si conosce la forma artistica dello sdegno e della protesta religiosa, e si ammira. Ma qui non sdegno vivo e non protesta audace. Scoprire gli interessi e i motivi, palesi o occulti, di questo polemista in veste di critico: tale è la forma d’indulgenza con cui par giusto di dover trattare.


Massis e l’Indice.

Massis fa professione di fede cattolica e di pensiero neoscolastico; e anzi la sua critica sarebbe nient’altro che l’applicazione dei presupposti della fede. Crede quindi che gli sia sortita una funzione di provveditore alle lettere e d’indagatore delle tendenze e delle mire dei letterati: un ufficio intermedio tra quello della Congregazione dell’Indice e quello della Santa Inquisizione. Ma i Canoni che statuiscono della censura e della proibizione dei libri, e che formano il codice della Congregazione dell’Indice, non contengono, esplicito o sottinteso, nessun principio positivo di discriminazione; lasciando all’arbitrio e all’iniziativa della Santa Congregazione il giudizio sulla sindacabilità delle opere letterarie, elencano soltanto i libri proibiti ipso iure. Non si erra di molto, credo, se si afferma che i membri della Congregazione mettono all’indice i libri per ragioni analoghe a quelle specificate nel Canone 1399, cioè per ragioni pratiche, quando l’attenzione è attratta da fame scandalose o la moda corre dietro a delle novità teoriche o scientifiche buone per rimbecillire il pubblico grosso. Il padre Giovanni Casati, nella prefazione d’un suo volume assai gustoso, dove tratta dei libri letterati condannati all’indice, dice precisamente: «La Sacra Congregazione dell’Indice giustamente non motiva le sentenze. La ragione è ovvia, e guai se non fosse così! I motivi ch’io o altri può portare potrebbero fors’anche parere a taluno discutibili o non così forti da dover involvere una condanna. Orbene, possono benissimo questi privati giudizi essere discutibili, non può essere discutibile la sentenza della Chiesa, data per ragioni d’ordine pubblico. La sacra auctoritas providentiae doctrinalis, che v’è nella Congregazione dell’Indice, se non ha l’ugual valore dell’infallibilità che v’è in materia di fede, ha però per l’ubbidienza d’un cattolico l’uguale peso». Donde si trae: che i decreti della Congregazione son provvedimenti d’autorità, che un cattolico non può sindacare per quanto si creda superiore e immune, come il più eroico soldato non può a cagione del suo eroismo arbitrarsi a criticare le provvidenze che piglia lo Stato Maggiore contro temuti pericoli ch’egli non è in grado di valutare; e inoltre, che i motivi da cui la Congregazione è diretta sono specifici e singolari, non dipendono da una dottrina che la Chiesa proclami nell’atto di condannare chi se ne scarta, ma da un giudizio di opportunità. Non è difficile capire che la Chiesa a farsi banditrice d’una dottrina letteraria, o a dedurre strettamente una regola critica dal suo insegnamento, farebbe opera caduca e anche insana; poichè essa sa che quanti hanno imparato a credere la sua fede e si son nutriti delle sue parole, non vanno a cercare un nuovo viatico e un’imperfetta scienza, nelle pagine dettate dall’ingegno umano. In esse non trovan nulla di divino, ma un segno vivo dei propri fratelli. Se non le accolgono con sensi di fraternità, se non cercano di giustificarle e d’elevarle, se son pronti a accendersi nello scandalo, e quasi con diletto, non vorremmo, a dir questo, cadere nella stessa colpa, ma ci par proprio che aliti in loro, non vinto, lo spirito dell’odio.

Non odia di certo chi, nella critica d’un libro, fa il suo mestiere, e cerca di sceverare il bello dal brutto; non odia se in tale lavoro riesce ingiusto, che non sarà nemmeno colpa sua, e neanche se, invece di bello e brutto, dice buono e cattivo; non è colpevole neppure, non è spietato se in un libro, in un autore riscontra i segni d’una decadenza, d’una miseria, d’un male, benchè allora abbia a pensare che se quei segni non sono palesi esteticamente e non giungono a una mancanza formale, s’è consolata la miseria, e la decadenza è, con l’ottenere un’espressione, sanata. Ma che cosa si dirà d’un critico che in uno scrittore a cui consacra ben centotrenta pagine riconosce, con astio non mai smesso, la potenza, la volontà, starci per dire la natura del male?


Il demoniaco Gide.

«... cest un livre qui brûle les mains pendant qu’on le lit et avec lequel je n’ai jamais voulu me trouver en tête-à-tête tant je crois qu'il est redoutable» — chi legge queste parole capirà che sono proferite da un povero spirito, da un’anima torbida e debole in preda forse ai fantasmi della sua solitudine o di qualche tara che la rode. Infatti chi la pronuncia è l’eroe d’una storia d' «inquiète puberté - cet état physiologique, cette crise où le masculin et le femminin se confondent où le instincts prennent le dessus, où le raisonnement lui même est tout affectif-cet état informe où le médecin encore plus que le psicologia aurait son mot a dire». Le prime parole riferite son portate sul frontispizio, le seconde scritte a pag. 114 dello stesso volume; le prime estratte da un romanzo di Roger Martin du Gard, les Thibault, annunciano i plurimi sempre uguali saggi su Gide e vi predispongono il lettore; nelle seconde senza reticenze Massis esprime il suo pensiero sugli eroi adolescenti che Martin du Gard è andato a scovare. Insomma, di quella stessa creazione ch’egli considera poi malvagia e anche irreale si serve al principio come d’un testo che provi fino all’evidenza il buon fondamento del suo giudizio su Gide e che obblighi il lettore a dargli ragione. Ma quando le palme ardono naturalmente, qualunque libro càpiti di toccare parrà di fuoco. A tale stregua, non dico i classici ch’egli pretende d’amare, ma tutti i lessici e i dizionari son libri da bandirsi. Conosce forse regole empiriche di condotta e divieti che salvino i ragazzi dagli acerbi perturbamenti? Massis potrebbe sostenere che altro è l’informazione diretta oggettiva e in qualche modo necessaria; i pericoli ch’egli vede e depreca dipendono invece dalla mancanza di brutalità e di precisione, dalla delicatezza, dall’ombre, dalle suggestioni sparse, dallo strano e immediato capovolgimento di valori che un arte esperta ottiene proprio nell’animo di quel fanciullo che più sarebbe oppresso e respinto da una rivelazione rapida, spensierata. Se è davvero opportuno seguitare a discutere di simili argomenti, gli opporremo che anche in questa materia non si vive di solo pane; e che, se un’esperienza dell' osceno è necessaria, è necessaria pure un’esperienza del torbido.

Però lo scandalo di Massis sarebbe confortato dalle confessioni del medesimo Gide; dal modo della raccolta dei suoi «Morceaux choisis» prima di tutto; da quella sua fiducia in un pubblico avvenire che è fatta apposta per inebriare gli adolescenti col gusto — e il premio — della scoperta fruttuosa; dalle confidenze in cui sembra indulgere non tanto come in uno sbocco lirico, per togliersi un peso di dosso, quanto per cattivarsi i cuori, per penetrare gli animi e adoperarli: «j’aime mieux faire agir que d’agir». E ancora: «J’écris pour qu’un adolescent, plus tard, pareil à celui que j’étais à seize ans mais plus libre, plus hardi, plus accompli, trouve lei réponse à son interrogation palpitante».

Nel tempo che Massis scrisse i suoi «jugements» non era divulgato un libro che sarebbe una più triste testimonianza della direzione, segreta o palese, della volontà gidiana. Se il critico avesse tentato di mostrare le brutture, o magari il fallimento dell’opera come un effetto di debolezza, di passività, d’incapacità di costruire: sarebbe rimasto su un terreno neutro, dove le opinioni prevalgono o si chetano secondo la forza persuasiva che comportano e le circostanze; e molte delle sue sarebbero potute parer buone. Qui invece egli s’è corazzato con argomenti di tutt’altro genere, ha mobilitato potenze celesti e infernali; l’inconsueta battaglia fa salire a una dignità non mai prevista il nemico ch’egli non riesce co’ mezzi suoi propri a dominare. Gli imagina dunque una forza cui non sembra egli potesse aspirare; peggio, riconoscendogli delle qualità sataniche, gliela crea, si ha da dire francamente che il temuto pericolo sta negli accenti di cui Massis si serve per meglio determinare e rivelare il testo gidiano; nel rifiuto che sottolinea, nello sdegno così consapevole che richiama e forse avvince; in quel continuo vezzo di rincarare la dose onde le pagine più deplorevoli, che son poi le più attente e le più chiuse, son qui, anche ingiustamente, denunciate; cosicché i lettori più ingenui troveranno l’incitamento a riscorrere i libri e, preoccupati, intristiti, sciuperanno la prima impressione, ch’era la più generosa.

Ecco, per essere più precisi, un episodio secondo Massis rivelatore. Delle «Caves du Vatican» Gide riporta nella sua scelta due brevi brani; il secondo è quello che prepara il delitto «immotivato» di cui si macchia il protagonista Lafcadio. Chi è Lafcadio? — è un prodotto libero, di diverse razze, di combinazioni impensate, d’incontri casuali, e uno che non conosce l’essere suo fino a diciannov’anni, e quando pateticamente lo viene a sapere, vi porta quasi un privilegio d’indipendenza, di candido abbandono e d’autonomia; è un figlio dell’autore. Nelle vagabonde sue esperienze, nella sua indisciplina non trova altro che una maniera di conoscersi — e forse, in certo modo, di «fondarsi»; non può e non sa trovar altro. Un giorno, in treno gli capita un compagno di viaggio ignoto, che gli è indifferente e perciò lo urta; noiato, in cerca d’un qualunque pensiero la sua mente che non piglia sonno si lascia attrarre da una macabra fantasia: «là, tout près de ma main, cette double fermeture que je peux faire jouer aisément; cette porte qui, cédant tout à coup, le laisserait couler en avant; une petite secousse suffirait... Ce n’est pas tant des évènements que j’ai curiosité que de moi - même (in tanto di là dal finestrino muta il paesaggio)... Là sous ma main, cette double fermeture — tandis qu’il est distrait et regarde au loin devant lui — joue, ma foi! plus aisément encore qu’on eût cru. Si je puis compter jusqu’à douze, sans me presser, avant de voir, dans la campagne quelque feu, le tapir est sauvé. Je commence: une; deux; trois; quatre; (lentement! lentement!) cinq; six; sept; huit; neuf... Dix, un feu!» Così il delitto si compie.

Non è possibile, si vede, pensare questo delitto senza Lafcadio; non può essere che si tratti di una propaganda, sia pure simbolica, a favore di un simile atto «gratuito»; il delitto starà o non starà bene alla persona di Lafcadio, la persona sua sarà criticabile sotto molti aspetti, oppure assurda e non viva; la sua assurdità, le sue mancanze si potranno identificare con deficienze personali di Gide che egli e condannato a scontare nella sua arte. Ma fargli imputazioni diverse, maggiori, come se un capitolo di romanzo fosse un articolo sedizioso, è un brutto e villano giuoco. Sarebbe come imputare a un disordine di Stendhal il delitto di Giuliano Sorel.

Ed ecco le parole di Massis: «Cette dangereuse curiosité, c’est pourtant le principe de l’éthique d’André Gide, comme ce goùt du pervers, celui de son esthetique. Et puisque Lafcadio est une créature de son àme, il est legitime que nous cherchions le secret de cette âme, la où il l’a voulu cacher, dans l'intimitè de son art».

Gide, poi, ha fatto di peggio, ha anche scritto: «Il n’y a pas d’oeuvre d’art sans collaboration du démon»; la volontà diabolica, il gusto, l’amore della perdizione è dunque al centro della sua opera; ogni qual volta ha cercato, tentato o raggiunto la libertà, egli è stato arnese del diavolo; ogni suo movimento, incertezza, o «virata» — e sono tante — ne è segno. Ossesso da tale virtù par quasi uscito dal novero dei mortali; poiché egli solo, nelle sue tentazioni intellettuali, avrebbe il male al suo comando. Ma queste frasi, dette e ripetute da uno che ci erede e non per finta, non danno senso; non si conosce virtù magica che si esplichi con un mezzo placido e lento come i libri. Gide, al solito, esperto di tòcco, sulle frasi demoniache non c’insiste; forse le ha incluse per un incauto gusto d’attrattiva e di sfida verso gli spiriti come quello di Massis volontariamente insensibili al suo.

Può menar vanto, se veramente si sazia d’una vittoria come questa. «Et nune» egli ha letto nel Vangelo. «C’est le secret de la félicité superieure que le Christ nous révèle. C’est dés à present et tout aussitòt que nous pouvons participer à la

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