Il Baretti - Anno II, n. 3/Tagore (o dell'Occidente)

Umberto Morra di Lavriano

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Il Baretti - Anno II, n. 3 Lettera di provincia

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Tagore (o dell’Occidente)

Quelli che voglion parlare oggi del poeta indiano, bisogna che sian sicuri d’un interno candore e d’una volontà spoglia di pregiudizi. E’ difatti facile intenderlo come un maestro o come un esteta, cioè chiuso in una specie di tabernacolo, oggetto di adorazione o di noncuranza secondo le personali tendenze del passante. L’inutile offerta di incenso, l’estatica imitazione stanno per questo sullo stesso piano della beffa idiota o della saccenteria sbrigativa.

Non ci si può nemmeno contentare di dire che è un poeta che non c’interessa; oppure che il mondo, l’imaginazione, il «mito» indiano son cose vaghe e perdute che non ci riusciamo a figurare e non consentono la nostra critica. I confini di spazio (o di tempò) son di certo misura d’una difficoltà empirica, com’è difficile in sè qualsiasi comprensione poetica, che quanto più è immediata, tanto più - vuol dire - è incompleta e fallace. Ma l’ufficio della poesia è di superar le distanze. In quanto gli spiriti sanno avvicinarsi c’è la possibilità dell’espressione; soccorre a superar gli ostacoli esterni una memoria fantastica che è facoltà propriamente lirica. Non è raro anzi che l’esagerazione di tale fantasia crei nell’anima un abbaglio, una luce falsa: dove parrà poetico quello ch’essa può gettare da sè lontano: l’irreale, l’esotico, il remoto.

Rabindranath Tagore si tien puro da queste tacce. E’ opportuno ricordare in che modo s’è presentato all’Europa, e che significato gli s’è attribuito fin da allora. Oggi si parla un altro linguaggio, ci si sente tirati verso altri scopi; ma avviene che, per ingratitudine, invece di litigare col nostro spirito di prima e di purificarlo con le confessioni di dolori e pentimenti, si bastonano, come fanno i bambini, le seggiole in cui abbiamo intrampolato; si offendon cioè gli estranei con cui s’era avuto commercio di simpatie.

Il premio Nobel, in quegli anni, era a molti come un’attesa rivelazione; come un severo e sereno giudizio che sceglieva dalla caotica produzione mondiale e indicava una opera sola, il compendio quasi, il succo del miglior lavoro, alimentato dalla pazienza, dalla saggezza di tanti popoli, diversi ed uguali. Si era, in ritardo con le date, in pieno secolo decimonono, convinti ammiratori della fatica e credenti in un successo da ottenersi a gradi e per esami, e poi indiscutibile come una dignità che posasse più alto dell’altro, non su favori personali o popolari. Sebbene stanchi, si era tuttavia discepoli dei duri lavoratori naturalisti e della pedissequa, minuta eppure fervorosa critica storica. Il poeta, non si credeva che dovesse scomparire perchè sarebbe stato da pessimisti ritenere che il progresso dovesse uccidere, nel mondo, la sua voce. Ma lo si imaginava come una persona utile, preoccupata, servizievole co’ suoi simili, risonante i loro affetti e le loro gesta, schiudente a loro miraggi legittimi e comuni: non solitario insomma ma civile. Il riconoscimento unanime era perciò come un potenziamento de’ suoi versi.

Quando il fascio della luce scandinava fu rivolto ad oriente e mise a fuoco questo poeta inaudito, non si pensò, per intenderlo, d’inquadrarlo co’ suoi compaesani. Sarebbe stata un’ingrata impresa, e nessuno ne sarebbe venuto a capo con gusto. Tagore fu lanciato per tutto il mondo senza delucidazioni e senza commenti, e piacque. Gli stava bene l’apparato col quale si fece noto; la gente che lo applaudì era la sua compagnia prediletta. Aveva succhiato, nel suo tempo di Cambridge, più che un insegnamento, un’atmosfera precisa, assoluta, che conteneva anche i dubbi e i motivi critici dentro confini d’educato consenso e di rispetto e li appoggiava a fermi e rettilinei principii o stentati in ogni guisa; poiché proprio in quell’ostentazione le conclamate verità morali trovavano il segreto di obbligar gli animi e per essa vi facevano nascere la compunzione, quasi che fossero meglio attuabili da chi se le ripetesse a ogni passo e se ne facesse una specie di paradigma verbale. La forza che v’infondeva una società chiusa e vigile, un grande impero libero che bisognava affermasse in tutti i singoli una condotta praticamente austera quasi per legge d’economia, perchè fossero mobili e responsabili strumenti, della sua politica mondiale; quel segno dei tempi vittoriani che noi troppo distanti e disattenti, s’è cercato di ripetere solo ne’suoi toni declamatori e c’è parso comodo d’avvicinare alle nostre bravure di oratori ancora intinti di latinità, Tagore lo portava, con un suo tocco e un suo modo soave, come una benevola novità e un mite illanguidimento nella sua civiltà tanto rigogliosa eppur statica o quasi ornamentale. L’occidente trapiantato in India fruttò una lirica tutta suoni dolci e piani, in cui gl’ideali e le moralità poetiche onde gli esercizi europei e sopra tutto quelli inglesi erano gravi riapparvero svestiti, senza il sostegno, delle favole nè la connessione con quella storia che n’era poi la legittima ispiratrice; doppiamente lirici, se si vuole, o meglio, ridotti a un’ingenuità puerile. Tale immiserimento produsse un effetto come di grazia; parve un miracolo d’arte che la povertà facesse palesi quelle medesime precise intenzioni, che s’erano da prima apprese con una lunga pratica e per via d’immaginazioni complesse e pesanti o, chi era immune, ammesse come un precedente insormontabile, ma faticoso da dimostrare.

Si capisce che l‘attenzione non si volgeva a Tagore come individuo, ma al bardo indiano; alla consonanza che si levava da una estrema riva, già fiorente di saggezza, e tanto antica che la sua persistenza poteva fino insospettire la nostra avida modernità. La tesi allora imperanti, e i successi della rapidità, non erano nulla se gli animi non si adattavano, non si appianavano, nè l’istinto del possesso e dell’egemonia sapeva più farci scattare contro i barbari che restassero ottusi davanti alle prove esemplari della nostra volontà benefica. Era cominciato a spuntare il rispetto per la storia; per esser sicuri della nostra bontà, ci voleva che si raccogliesse il più gran numero di consensi: che le differenze personali, le suscettibili ritrosie, le particolari convinzioni i pensieri originali si perdessero tutti in un inno di soddisfazione. L’età che isolava Nietzsche e adorava Wagner magari come librettista si assopì beatamente nel paesaggio delle sue glorie quando udi un lusinghiero ritmo attenuato, dove, finalmente, come ruscelli dal mormorio appena distinti confluivano i mondi.

Ora, segnate le distanze e indicati sommariamente i punti d’approccio, ci si potrebbe provare ad apprezzar Tagore come una persona di conoscenza, molte volte frequentata. Non c’è dunque davanti a noi l’uomo religioso, panteista a trati: a tratti mistico, che attende nella polvere la chiamata del Re o l’inopinato cenno fra la tempesta notturna non il maestro d’amore che crede d’indicare usi termine assai più intimo d’ogni custodia carnale e confonde i sensi col prospettar la stanchezza prima dell’esperienza e del giuoco amaro. Il male è che la raccolta de’ suoi esercizi spirituali, cosi ravviati, guardinghi e bene equipaggiati, non riesce mai a darci il rilievo d’una persona spiccata.

E’ evidente, in quelle specie di catene floreali ch’egli compone, assiduo ed equanime, il giuoco, quasi l’arbitrio della volontà a scàpito della persuasione profonda e del motivo poetico. La provvista dei buoni propositi, il progetto d’edificare e d’elevare gli spiriti, posson servir certo d’armatura ai poeti, ma quando sian quasi una scusa della fantasia corriva, il pudore di cui l’esito si riveste. Qui invece sono beni importati, e pei quali non si paga dazio; son essi che muovono lo scrittore, che di fatti non scrive, ma parla e rivela, come chi aspetta un successo da ogni suo aforisma. C’è intorno a lui, non diremo la folla, ma la scuola; una schiera d’adepti, che devon acquistar insieme sapienza e bellezza, secondo i dettami dei fedeli ottimisti che han castigato ad uso delle scuole serali la sensuale ricchezza di Ruskin.

Ci si potrebbe lamentare di molte altre cose, nel leggere questi canti che non sono nè elementari nè raffinati, nè evidenti nè suggestivi. Si è quasi sempre sul confine di una poesia, o di due poesie diverse, senza che il poeta sappia decidere, senza che nemmeno riesca ambiguo o problematico. Al punto saliente, alla dimostrazione ci si avvia subito; anche la sua logica è una facoltà annacquata. Se la poesia è spesso, per questi sommi istruttori del genere umano, una esuberante prova di verità cosciente e uno sfondamento di porte spalancate, almeno la adorna il gusto delle variazioni musicali, un parossismo d’iterazioni che, se non altro, sono il segno d’una potenza selvaggia. Ma per Tagore tutto è liscio e mellifluo, tutto è semplice e monocordo e il mondo non ha dimensione fuor di quella della sua lode raziocinante.

Avviene allora che ci si stacchi quasi con rancore da quest' India scialba, da questi infatuati amanti o viandanti (son tutti uguali) che si consumano e spariscono con quattro parole delle più vane. Soltanto trattengono certe qualità native, ricordi d’altra poesia che qui si rinsanguano a contatto di un animo tanto più tenue e in fondo giocoso, abilità vecchie e forse sprezzate che rompono il bisbiglio incolore e il sordo paesaggio come un inatteso scorcio impressionistico. C’ è un famoso canto dei fanciulli che si riuniscono su la riva dei mondi infiniti; non serve rammentare quel che ad essi cantino le onde cariche di morte; ma piuttosto questo:

«la marea sale in un riso e il pallido splendore della spiaggia sorride».

Altrove la luce — che, si capisce, riempie il mondo, è bacio degli occhi e dolcezza del cuore — la luce: «danza nel centro della mia vita» ( e il seguito: «Mio più amato, il mio amore risuona sotto il colpo della luce. I cieli s’aprono, il vento galoppa; un riso ha corso la terra»). Altrove anche meno — son spesso le donne che parlano, una dolce umiltà le chiude e le aiuta: «Ero sola accanto alla sorgente dove l’albero china un’ombra obliqua». «Il cielo sorse col suono del gong dentro il tempio». «Il mondo è per te come il canto d’una vecchia che fili al guindolo: rime sconnesse piene di vaghe imagini». «L’ombra della pioggia imminente è su la sabbia e le nubi stanno basse su le linee azzurre degli alberi, come i tuoi pesanti capelli su le tue sopracciglia». E, semplice, appena segnato, tutto il canto XVIII del «Giardiniere».

Forse i lettori ingenui si fermano più volentieri su certi improvvisi scoppi, fortemente lirici, che il più delle volte sono frantumi e rappezzi d’una fantasia secolare (per es. nel canto LIII di «Gitanjali»: «per me più splendida è la tua spada con la sua curva di folgore simile allo spiegamento d’ali del divino uccello di Visnù in tranquillo equilibrio sul furioso infiammarsi del sol ponente»; dove c’è pure il disordine di due imagini che s’accavallano. Per sentire poi quanto questo modo è poco vivace, si metta a confronto con un’imagine fatta d’attri ingredienti per noi più usuali: «Il sole del tuo amore mi baci la vetta dei pensieri e s’indugi udita valle dèlia mia Vita dove biondeggia la messe». Il passo è breve, e in questa si sdrucciola nel comico pietoso. Si rammenti anche che non è, per Tagore, «del poeta il fin la maraviglia»). Si consigliano quei lettori di rifarsi ai testi indiani autentici. Si consigliano poi le gentili anime amanti, tenere d’un qualunque Bédier e delle sue riuscite psicologie, a adattarsi, se voglio» fare quel viaggio, a un clima orientale alquanto più bollente e sconcertante.

«Oggi ancora, se io me l' immagino, l’amata amica dal volto di luna, lieta della prima giovinezza, con le sode mammelle ed il corpo spasimante per le frecce d’amore, ecco che sento d’un tratto gelarmisi ancóra le membra.

Oggi ancóra io la ricordo, direttrice della danza d’amore, col volto splendente come luna piena, col gracile corpo squassato dal piacere, oppresso dal peso delle mammelle e delle grandi natiche, ornato dalla grande chioma ondeggiante».

E’ il canto del ladro d’amore, è il poeta Bilhana che gode la figlia del Re e sa che, premio della voluttà, gli tocca la condanna di morte. Più che ai tanti Verdinois e Tagliatatela il nostro animo si volge dunque al Senatore De Lorenzo e più che all’indiano onorato ed illustre al povero galeotto che mori infamato or son quasi mill’anni.

Umberto Morra di Lavriano.