Il Baretti - Anno II, n. 3/Foglietti letterari/Pensieri di Baudelaire vicino a morte

Giuseppe Raimondi

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Foglietti letterari - Pagina bianca Vera natura dei romanzi di Radiguet

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Pensieri di Baudelaire vicino a morte.

Io mi riferisco a quelle carte private di Baudelaire, fragili foglietti, che raccolti sotto il nome di «Mon coeur mis à nu» costituiscono la traccia più sconfortata, ma anche la più sensibile degli ultimi suoi quattro anni di vita terrena. Dopo la fredda invocazione di quel suo verso: « Ah! Ne jamais sortir du Nombre et des Etres!», si direbbe che sian qui tentate le vie per questa favolosa evasione morale. E son le vie più impensate, quelle che denunciano l’estrema sincerità, e la rinuncia dell’orgoglio umano. La religione cattolica, chiama questo sentimento carità. Avvicinandosi la fine, i suoi pensieri, se pure soggetto ad una consuetudine ironica e sofistica, sono rivolti alla persona di Dio. Ora, egli accetta questo nuovo ascoltatore, questo serio testimone della sua opera. Ne segue che l’opera stessa, quella compiuta, attinge a fini diversi dai perseguiti; e quella da compiere, domanda un tempo che non è mortale. Difatti non la compì.

Quello che è stato il suo metodo, sappiamo quanto raro, nel comporre la poesia delle «Fleurs du mal», minaccia di non poter esistere se non a costo di rimuovere intorno a sè abissi di incertezze, di dubbi. Pare che la soluzione poteva essere un’altra. Perfino la sua idea della fuga del tempo, che gli fu un caro tema poetico, mostra sviluppi e conforti imprevedibili, e fino allora imprevisti. Egli crede nel lavoro, domanda la sua buona salute e si rimette in Dio. Par di sentire Rimbaud, quando scrive risorgendo nella Saison en enfer: «La raison m’est née. La monde est bon. Je bénirai la vie. J’aimerai mes frères. Ce ne sont plus des promesse d’enfance». Anch’egli mette a nudo il suo cuore, e non teme, rivestendo di nostalgia «l’action, ce cher point du monde», di accompagnare le speranze di J. J. Rousseau!

I lunghi e dibattuti problemi d’arte e la morale del mondo, le gouffre de l’action, le ragioni prime del vivere e del creare si presentano alla mente di Baudelaire, e domandano d’esser chiarito. Egli vede con una grande verità. C'è nel suo occhio un velo di calma, come accade che sopra un gorgo d’acqua, improvvisamente chiuso, si stabilisce una superficie ferma e tranquilla, che mai s'è vista eguale, in quello specchio d’acqua. Le sue riflessioni somigliano per qualità a quelle di Pascal sulla naturale miseria dell’uomo, sull’incertezza delle cognizioni umane, sulla necessità di attenersi a certe opinioni del popolo, nate da una ispirazione cosmica e tradizionale. La nudezza delle parole, la rinuncia ad ogni bellezza letteraria, l’urgenza della confessione e la triste calma del giudicarsi, la schiettezza dello specchio, queste son le qualità veramente degne di Pascal; che da questi affluiscono a Baudelaire, nel suo sangue, per una particolare inclinazione della razza e della mente francese. Fra le norme d’igiene e di condotta nella vita quotidiana, tornano a volta a volta le preoccupate ricette medicinali, le pillole e i bagni freddi, misti ai pensieri metafisici. Oh lichene d’Islanda! Salute del corpo, sognata, vagheggiata, necessaria premessa del «genio successivo e progressivo». Basterebbe osservare lo stile di questa ricetta, pensare a questo sciroppo di lichene grammi 125, e zucchero grammi 250, per confrontarlo con le ricette estetiche dell’epoca eroica, con i suoi filtri orientali di preziosità stilistiche; e farsi un’idea della suprema verità di quest’ora. Forse, egli ha scoperto l’aspetto che non muta più. Perciò scrive queste ultime 91 paginette, che possono chiamarsi il suo testamento letterario, e sono un drammatico e deciso addio al mondo. Egli sente che il suo luogo è ormai fra la vecchia Marietta e Poe. Questo Baudelaire precocemente invecchiato, sofferente per la continua insonnia, pieno di malanni, rattristito dalla prospettiva della fine non molto lontana, diviene un personaggio supremamente tragico, ma di un tragico che chiamerei molieresco, cioè involontario, inaspettato e quotidiano. Non di una donna, ma della vita, par dire: «Vous l’avez voulu, George Dandin»! — Questi suoi pensieri sparsi e frantumati, fatti di riflessioni immortali e di angustie fisiche, come quando manca il fiato al corpo, sembrano le battute di uno dei classici monologhi detti da Molière per bocca di qualche suo disgraziato eroe. Se Baudelaire si sapesse paragonato all’uomo tipicamente gaulois. XVII-me siècle del signor Poquélin! Direi che c’è, nell’uno e nell’altro, un senso del deperimento del corpo, un respiro quasi della carne che si anima sfinitamente in vista della morte, una vitalità illusoria. Qui interviene quella natura che io chiamo derivata da Pascal. Del resto, non fu una sorta di giansenismo letterario, l’arte di Baudelaire? All’idea del sepolcro la lingua, in lui come in tutti, si fa loquace, parla insistente, sottile e spietata. Pare che per una trasmissione di materia in materia, acquisti un poco del freddo della terra, e il gelo del marmo. Marmo, che non è più quello su cui s’incidon versi perfetti. Sulla sua bocca si confondono i termini cattolici della preghiera con le parole grigie della giornata, i lampi quieti della verità e l’inquieta speranza di non esser pròssimo a perire. Se la vita potesse tornare, gli anni ripetersi!

L’arte sarebbe tutta da riscoprire. Gli intervalli tra pensiero e pensiero, questi naturali spazi bianchi, sono le pause che la voce fa, nell’ora delle conclusioni sempre troppo tarde o troppo affrettate. E’ una voce di calma giustizia, verso lè e verso il mondo.

Giuseppe Raimondi.