Il Baretti - Anno II, n. 2/La pittura futurista

Raffaello Franchi

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Lettera d'occasione I nostri maestri
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LA PITTURA FUTURISTA

Non bisogna credere che chi voglia spiegare l’origine e le qualità — non dico le opere — del movimento pittorico futurista italiano debba trasportarsi in un clima di intesa eccezionale e discorrere in versi o addirittura in parole in libertà anzichè nella più bonaria e accettabile delle prose.


Impressionismo e futurismo.

Abbastanza facilmente potremmo far derivare il Futurismo dagli ultimi movimenti francesi dell’Ottocento definendolo, in un modo approssimativo, un misto di impressionismo e di cubismo, eppoi, a grado a grado inoltrandoci nella sua trattazione, vedere in quali punti e l’uno e l’altro dei movimenti rammentati si allontanino da quello nuovo, lasciando il campo a tal moltitudine di nuove possibili ricerche da trovarci sbalestrati, dal dominio della competenza pittorica, a un dilettevole paese di calcoli e di giuochi. Abbiam visto l’Impressionismo inspirarsi al bisogno di disaccademizzare la maniera di riprodurre la luce, di distruggere la convenzionalità delle forme solite, e lavorando a questo scopo scernere gli oggetti e le figure cambiate di aspetto, esigenti anch’esse una tecnica nuova, sino a quando, in Monet, le più massiccie costruzioni diventano una sorta di realtà mobile e molecolare dentro la luce. L’impressionismo, squassando con violenza giovanile l’aria accademica delle regole fisse nelle quali s’inaridiva ogni possibilità di emozione, discendeva tuttavia da quella che era stata la pittura viva di tutti i tempi.

In ogni modo è certo che dopo la ventata dell’Impressionismo, la smania delle ricerche nuove penetrò a fondo ogni artista, e come l’uno voleva la luminosità l’altro si avventurava incontro ad una forma più assoluta della solita e preponderante sugli altri elementi del quadro.

Ora è facile dedurre che tanto l’Impressionismo quanto il Futurismo furono, in un certo senso, unilaterali, in quanto che pur lasciando all’artista il privilegio geniale di mettere sulla tela il canto delle sue sensazioni umane, non pretese mai di allestire tecniche pittoriche diverse, allo scopo di esprimere diversamente differenti sensazioni come accadde nel periodo del Futurismo italiano in cui si immaginò addirittura, una pittura degli odori e dei rumori. Il futurismo italiano aggiungeva, agli elementi cubistici ed impressionistici che già conoscevamo una specie bizzarra di simbolismo tendente a risolversi per mezzo di formule. Anzi, a questo proposito, dirò che se i maggiori esponenti della pittura futurista restavano più vicini ai modelli francesi, preoccupandosi dell’impasto coloristico e di altri simili fatti puramente plastici, per la ragione che avendo fatte le prime armi alle dipendenze dell’impressionismo avevano una piccola tradizione personale da conservare, alle giovani reclute erano assegnati dei compiti che rasentavano addirittura il classico rompicapo. Ne sortivano dei disegni cui si poteva sempre aggiungere e sempre si aggiungeva qualcosa nelle chiassose riunioni dei caffè divenuti la palestra dei nuovi conati artistici e arricchiti dalla speciale tinta di importanza che si conviene alle stanze della sapienza, sia pure assunta in luoghi così straordinari da una banda di giovani in generale ritenuti per degli scapestrati.


Esperienze di cultura.

Ora, a intendere umanamente il futurismo e la ragione per la quale tante diverse personalità quante furono quelle che ne inaugurarono la scuola abbiano potuto finire, o nel vicolo senza uscita di un qualsiasi arcaismo come nel caso di Carrà, o in un genere di pittura che chiameremo campagnola, come nel caso di Soffici, riconoscendo la peculiare italianità dì questo attributo, bisogna pensare a quella che era la fisionomia della media cultura italiana al principio del nostro secolo. La media cultura italiana era meno di una media cultura, non solo nel senso assoluto, ma anche in quello relativo della parola. Per via di un’inquietudine diffusa per tutto e che sembrava presentire oscuratamente le zone di libertà creative spalancatesi in altri terreni, intere generazioni che non osavano affrontare il paziente studio classico che parte dalle radici di ogni scolastica, vivevano aspettando una parola che desse loro l’idea di aver potuto penetrare, quasi di sotterfugio, in qualche vivo e avanzato problema di coltura.

Questa coltura aveva figura di mito e diventava l’ossessione, l’idea fissa della gente che vi aspirava perdendo a ogni piè sospinto l’occasione di formarsene una.

Principiò allora, sordamente, il gusto del difficile. A mano a mano che uno lasciava dietro di sè l’età in cui sarebbe stato appropriato lo studio della grammatica, principiava a non sopportare nessuna allusione che non riguardasse almeno la sintassi. Principiò anche il tempo delle sottilizzazioni basate su scarse conoscenze che venivano ad accentrare su loro stesse l’importanza che avrebbe dovuto distribuirsi per tutte le altre, e qualcuno, partendo appunto da un’interpretazione speciosa della parola cultura, pretese di farsene una sulle riviste e sui giornali; una cultura, insomma, che trascurando il passato e fidando sullo spirito critico dei suoi bizzarri studiosi, intendeva derivarsi soltanto dalla vita, dall’osservazione degli uomini e dall’ascoltazione dei loro giudizi e d’ogni genere di loro espressione, a lume di pura sensibilità e di buon senso, e come a dire il mondo dello spirito veduto d’insieme e all’improvviso con l’occhio del pittore.


Soffici reduce da Parigi.

I più forti temperamenti di questo periodo studiarono indefessamente e disordinatamente affrontando ogni giorno un nuovo grande filosofo, un nuovo grande musicista o un nuovo grande scrittore. Era come tuffar la mano nell’urna da cui si debbano estrarre i numeri di una lotteria: a meno di un caso eccezionale vien fuori un numero che non è il primo nè il secondo della serie; così, questi uomini, avevano la sensazione di spender bene la loro vita, e avendo evitato i noiosi primi passi, di trovarsi in mezzo all’oceano del grande sapere. Di lì a poco, quasi tutti i giovani, attraverso la Voce e i Quaderni della Voce, furono ammessi agli straordinari simposi dell’intelligenza che caratterizzano i primi anni del ’900, e i vecchi metodi dell’istruzione furono sostituiti da metodi diretti combinabili con la più modesta bibliografia. Bastava avere un po’ d’amore al libro per accostarsi, con pochi soldi, alle più stravaganti anticipazioni, e non è facile, oggi, dare ad intendere quale sapore di razzente novità potessero avere da noi, tanto per non esorbitare dal campo dell’arte figurativa, le prime pubblicazioni su Henry Rousseau, il pittore doganiere, con le sue faune e le sue flore tropicali, stilizzate infantilmente, o quelle su Edgar Degas. Il merito di tali pubblicazioni va riconosciuto a Soffici, reduce da Parigi, rispettoso e quasi timorato di Parigi sino a parlarne in Italia con l’aria riservata che si conviene, in chi li conosca e ne voglia diffondere il rispetto insieme alla conoscenza, per i grandi fenomeni del passato.

In quella libera Università che fu la Voce, l’Impressionismo e i postimpressionisti ebbero l’onore della severità scolastica in mezzo alla quale furono annunciati, propagandosi frammezzo a un silenzio attonito di commossa meraviglia, e quando Marinetti lanciò dal Figaro il manifesto del Futurismo, quelli della Voce lo accolsero con la diffidenza usata verso i ciarlatani. La Voce, con la sua grossa carta giallina, i cataloghi esempi di preziosità tipografica spesso e volentieri arieggiante l’antico, i fregi leonardeschi, le nostalgie romantico culturali di un Papini che cercavano lo sbocco drammatico e romanzesco nell’Uomo finito, il gruppo dei musicisti, dei politici e dei filosofi, alla Bastianelli, all’Amendola, alla Calderoni o alla Vailati, che prendendo gran parte del movimento vociano, inteso come una massa quasi cromaticamente riconoscibile finivano col proiettare una fonda ombra della loro personalità filosofica anche su quella pittura che più delle altre forme di lavoro spirituale anela un po’ di sole campestre e di umana libertà, aveva ridotto la nuova pittura all’applicazione, in un artista solo, di pochi principi accuratamente disseccati. Il solo artista di quel tempo — solo, dico, dal punto di vista ufficiale della Voce — era Soffici, sorta di segretario di un ipotetico gruppo di competenza che, pur non esistendo, gli avrebbe votato l’interim dei poteri. Soffici dunque, nella pace della sua campagna, nell’affettuoso ritrovamento di questa terra toscana che istilla nei figlioli una sicurezza tanto ferma e cordiale, mentre a ricordo derivava da Cézanne un paesaggio che di fronte al vero diventava senza confronto più bonario di quanto non fossero i paesi del Maestro provenzale, talora appena accennati eppur magici di affetto e gonfi dal senso di una costruzione che riaffiora da ogni angolo e da ogni punto, per le figure imitava piuttosto la maniera di Degas. Fiduciosamente e dogmaticamente preparato alla stranezza, Soffici non sentiva la necessità di copiar le lunghe figure bagnanti cézanniane quando il suo buon senso poteva acquetarsi nella originale normalità di Degas, e si limitava a disegnare col colore, o meglio ad accennare con vaghe pennellate i limiti delle figure perchè i suoi nudi sprecisi potessero tendere all’ornata larghezza delle ballerine degassiane. Insomma, mentre Degas, Cézanne, Monet, Manet e quant’altri Impressionisti si possono rammentare, erano degli artisti misti di sensualità e di spirito, Soffici si annunciava come un sensuale e, da lontano, percepiva attraverso il ricordo proiezioni di quadri in cui resisteva soltanto l’immagine di alcune zone di colore, avviandosi incontro a una etica della pittura pura. Uomo d’ordine e a fondo idealistico, Soffici, non avendo potuto ben riconoscere il complesso travaglio degli Impressionisti, vuol catechizzarne la parte assimilata, ossia la pittorica purezza, intendendo questa parola nella duplice accezione materialistica e morale, cosicchè, in seguito, lo vedremo predicare la pittura pura con l’ardore del mistico e del neofita. D’altra parte i futuristi, e soprattutti Umberto Boccioni, recavano nelle loro teorie il soffio di ben altra irruenza.

Non il gusto antologico del colore e quello di una deformazione accennata quanto bastava a immergere l’oggetto rappresentato in una sorta di nuova atmosfera in cui la pittura trovasse lotta la propria originalità, ma un desiderio barbarico e quasi antiartistico di esasperare a un tempo il volume e la luce, di esprimere la velocità di render plastiche, com’era stato possibile rendere letterarie, le più stravaganti percezioni dello spirito, e qui mescolanze di persone e d’ambienti, e qui riproduzioni di stati d’animo attraverso forme astratte suggestivamente accozzate e combinate.


Boccioni.

Se Ardengo Soffici era un pittore, smarrito nel gusto di un fregio di matita o in quello di un po’ di colore, costituzionalmente lontano da un prepotente bisogno di costruzione e di composizione tantochè, venuto il periodo neoclassico, lo vedremo perdersi quasi infantilmente a ritrovare l’armatura geometrica di uno dei quadri meno composti di Guido Reni, Umberto Boccioni si annunciava come un costruttore.

Già nel suo libro Pittura e Scultura futurista, quando si prescinda dall’accaldato tono oratorio che ne pervade le pagine, dalle sintesi storiche troppo ardite che talvolta, abbracciando il futuro e l’ancora inespresso con una superba certezza profetica rivelano la loro consistenza meramente lirica, si fa notare la quantità dei problemi di cui Boccioni tien conto, e insieme, fra tanta guerriera baldanza, la sensibilità nel riconoscere i valori anche opposti alla sua condotta ideale: per rammentare i più recenti, il Ranzoni, Tranquillo Cremona, Previati e Pellizza da Volpedo son ricordati da lui con ogni rispetto.

Naturalmente portato a insolentire le grandi ombre di David e di Ingres, Boccioni oppone loro il nome di Delacroix, non già con l’approssimazione di un purista, magari disposto, dopo aver oggi negato i primi, a riprenderli in considerazione domani se alcuno gli farà notare in essi uno spazio quale che sia di buona pittura e ad accomunarli così, anche in piccola parte al secondo, ma con la devozione di un vero fratello spirituale. Il pensiero dominante di Boccioni è che la pittura debba costruire, epperciò dichiara, e per sua voce fa dichiarare ai compagni, che il Futurismo si allontana tanto dall’Impressionismo quanto dal Cubismo, movimenti volti a una soffocante parzialità di ricerche che infirmano la possibilità di giungere all’espressione di un vero dramma. E qui, se consideriamo che il Cubismo, con i suoi accozzi di pure forme tendenti alla creazione di un’espressione non umana, ma umanamente percettibile, avverava assai prima del nostro De Chirico una pittura metafisica nel vero senso della parola, si può intendere come Boccioni, se fosse vissuto, avrebbe avversato quella letterarizzazione che Giorgio De Chirico ha fatto della pittura metafisica, servendosi, a scopo di suggestione, di simboli e figure popolarescamente paurose, e tenendosi, quanto alla pittura, in un antagonismo da rifacitore che, se gli permette di comporre qualche pezzo dì pittura interessante, toglie però interesse a quella che dovrebb’essere la viva personalità dell’artista.

D’altro canto Boccioni, considerando la storia dell’arte come una serie di trajettorie, alla fine di ognuna delle quali, un ideale plastico covato per centinaia di anni, trova la sua spontanea, e facile, e irrefrenabile espressione, come sembra accadere in Michelangelo, questo genio in azione attuante quel che a un cervello umano dovrebb’essere impossibile di concepire, non solamente si lancia contro la possibilità di un neoclassicismo volontario, ma osserva la ripetizione, ossia la morte dell’arte, in ogni opera che oggi non si ponga al principio di una di queste trajettorie.


Accordo tra Soffici e futuristi.

L’accordo tra Soffici e i futuristi fu raggiunto per mezzo di un compromesso, dopo un urto assai vivace e una bastonatura rimasta famosa e di cui potranno rendervi ancora conto i camerieri delle Giubbe rosse.

Soffici si decise al gran passo, un poco per la naturale accoglievolezza del suo carattere non privo di un certo spirito goliardico, e perchè, alla fin dei conti, di fronte alla deprecata, incommensurabile ignoranza della gente, la combutta coi futuristi poteva assumere il valore di un bel gesto, un poco perchè anche le teorie futuriste si ispiravano ad alcuni di quei principi di cui la Voce si proponeva l’insegnamento.

Soffici era, sin d’allora, il machiavellico ingenuo, il pragmatista a buon prezzo e il favoreggiatore paterno e benevolo del colpo di stato. Quanto a Boccioni, non eran certamente quelli tempi da sottilizzare. Il suo accordo con Gino Severini, pittore di raffinatezza decorativa, sia che dipingesse un fantasmagorico paesaggio invernale o una sala da ballo, fittissima di minuscoli danzatori assembrati con l’effetto di una caleidoscopica carta da parati, o quello con Luigi Russolo, mediocre accozzatore di masse senza significato, non erano certo profondamente ispirati, ma sarebbe far torto alla sua memoria credere che non fossero sinceri. Era un tempo in cui l’uno non aveva il tempo di vedere e di controllare quel che l’altro faceva, e tutto accadeva per il meglio, e le personalità si conservavano, sotto l’esteriore comunanza della battaglia, nel migliore dei modi.

Boccioni era un cerebrale in grande stile e Soffici un gustoso fantastico fiorentino; Soffici almanaccava, sul modo più acconcio di stabilire un insegnamento artistico dimostrando che si dovrebbe principiare col far vedere come, sopra una tavoletta perfettamente bianca un segno qualsiasi di carbone costituisca il principio del fatto artistico, e Boccioni pensava al ritorno del soggetto come all’unica fonte della grande arte. Ora è bene osservare come il temperamento romantico di Boccioni che raggiungeva le sue più tipiche espressioni in quei quadri che si chiamano gli addii e dove per mezzo di linee fortemente inclinate e sfuggenti o staticamente perpendicolari il pittore vuol suggerire graficamente a volta a volta lo stato d’animo di coloro che vanno e di quelli che restano, è bene osservare, dicevo, come il temperamento romantico di Boccioni finisse con l’avere un’influenza notevole su tutti i compagni.

Vediamo infatti che lo studio di una sorta di grande ingranaggio mosso a grande velocità con la ricerca di violenti sbattimenti luminosi in toni gialli e viola dovuto a Giacomo Balla, aspira più di quanto non sembri al soggetto cercando di dare la forza astratta, formidabile, capace di commuovere lo spirito umano, con motivi ben altrimenti complessi che non siano quelli di un puro godimento visivo. Lo stesso Soffici fu condotto a comporre dei grandi quadri come la Danza dei pederasti e la Sintesi della città di Prato che furono delle riuscite rassegne dei mezzi di espressione futuristi. Il futurismo ebbe dunque il suo punto di fuoco perfetto in una vera, ardente fiammata resa possibile da un momento di ottimismo, di schietta camerateria.


Il fenomeno Carrà.

La fiammata non durò: dopo un breve periodo di prova venne l’ora dei conti e dei bilanci. Soffici si ricordò di venire dalla Voce e di essersi avventurato nel futurismo come per una pattuglia; tornò quindi sui propri passi, non senza l’illusione di aver fatto un grosso bottino, e proclamò vero futurismo il proprio decretando all’altrui il titolo meno onorifico di marinettismo. Fu per tutti la crisi della serietà, cosi per chi restò quanto per chi se ne venne via; crisi teoricamente benefica per Boccioni che rimanendo solo o contornato di mediocrissimi elementi come furon quelli che alimentarono il futurismo ufficiale dopo la diserzione del gruppo vociano e lacerbiano potè constatare di non aver tradito il proprio ideale, non già indirizzato ai reami della pittura pura, ma verso un’arte, sia pur lontanissima dalla sua massima espressione, nuovamente umana, narrativa e drammatica; praticamente benefica per Soffici che uscendo dalle pastoie di una composizione alla quale il suo temperamento non lo portava ritrovò a poco a poco nei tranquilli paesi e in quella larga figurazione di pretto sapore campagnolo e toscano la via giusta per rivelarsi nelle sue definitive possibilità, men buona, invece, per Carrà, dato che a quest’ultimo, l’abbracciare il primitivismo e la cosidetta pittura metafisica non servì a rivelarne viemmeglio le qualità pittoriche ma piuttosto a farle arenare in un marasma di teorie e di strani affioramenti sensuali.

Il caso di questo pittore merita qualche parola. Carrà, come futurista, era uno degli artisti più interessanti. Se il movimento rivoluzionario al quale partecipò poteva dar modo di spiegare un carattere, una sensibilità attraverso forme e colori non precisamente legati all’obbligo di rappresentare «qualcosa» egli riuscì più di altri a offrirci l’impressione di una personalità geniale. Voglio dire il lombardo Carrà, e dico lombardo sottintendendogli un genere di serietà e di quadratezza, quasi di limitazione, che in uno spirito toscano non sarebbe affatto sottintesa, il Carrà brontolone e cupo e nondimeno buonissimo figliolo, trovava nella esatta cultura delle sue opere e nelle tonalità della sua tavolozza abbondanti di grigi e di grigi perla un’espressione e un rendimento così persuasivi da imporre la sensazione dello stile. Forse Carrà era, materialmente, il miglior pittore del gruppo: immune dallo spirito tuttavia letterario di Balla che cercava nel movimento la divinità del tempo moderno, dal romanticismo di Boccioni cui ho già fatto cenno e dal pariginismo mondano di Severini di cui si è vista la predilizione per i balli e per le ballerine, Carrà rivelava sè stesso attraverso forme e puri colori, attraverso un’astrazione insomma, che se riusciva a illuminare un carattere, doveva necessariamente contenere i germi di uno stile.

Ed ora osserviamo l’arenarsi di questo puro plastico.

Interrotto il periodo della creazione futurista che costringeva Carrà e il suo temperamento esuberante a costruzioni laboriose o a strepitose ricerche come quelle della pittura degli odori alla quale s’arrischiava con ardenti scoppi di verdi, di rossi o di rosa accesi, un poco simile a Mancini in queste manifestazioni di sensualità pittorica, il Carrà si ritrovò di fronte al problema di comporre, di costruire, di architettare un quadro, nelle stesse condizioni in cui, di fronte allo stesso problema, si sarebbe trovato un bambino.

Colorista e cubista, colorista per temperamento e cubista per abitudine, Carrà non avrebbe potuto abituarsi a soddisfare il proprio temperamento in un modo disordinato o impressionistico e cosi fu che dopo un lungo periodo d’ozio e di meditazione egli approdò al primitivismo dapprima — con la Carrozzella, con i Romantici, col Gentiluomo ubbriaco — e in seguito a quella pittura metafisica che sebbene togliesse a prestito i manichini, i biscotti, le lavagne e le muse del guardaroba mitologico di De Chirico non era in fondo che una naturalissima figliolanza della sua pittura primitiveggiante.

In sostanza il primitivismo di Carrà consisteva in una specie di giottismo risentito attraverso la pittura popolaresca delle osterie di campagna, o magari in un immaginismo sacro, divenuto drammatico e caricaturale a un tempo per l’inesperienza del contadino o dell’uomo religioso e rustico che gli avesse dato vita, oggi risentito dal nostro pittore sospeso tra una voglia di pace conventuale e il rumore sordo di mille teoriche. Come i colori dell’iride fatti girare vorticosamente si ripresentano, in una superficie bianca, cosi il patema teorico dì Carrà, arrestato dalla sua patetica e grossolana nostalgia di rinnovamento, produce alla nuova giornata di lavoro tavole biancodipinte, dove il bianco cerca la propria intensità e una granosità solida che lo apparenti alla pittura su muro in una continua e graduale sovrapposizione di colore calcinoso, sino a quando la comparsa di un fantoccio rosato o di una trombettina d’oro non intenda disfarci completamente in una plastica gioia trascendentale.

Pittura, come si vede, che tende alla copia di un sogno, di un’immagine ferma e sospesa in un punto veramente indeterminato del passato, e quasi nel passato di una vita anteriore; ideale pittorico statico e dolcemente maniaco.

Al di là o al di qua, ci sarebbe il nulla, per dirla con un rigo lirico di Soffici e rimanere tra conoscenti.

E infatti Carrà, diventa spesso, nel campo della critica d’arte, il più eclettico dei recensori.


Conclusione.

E’ certo che sarebbe stato curioso assistere al tardo svolgimento di Umberto Boccioni strappatoci da un disgraziato incidente, e dico curioso, non alludendo alla possibilità che l’arte italiana trovasse, attraverso le ricerche futuriste di quel pittore, lo sbocco in una universalità impreveduta, possibilità, ammettiamolo, cui nessuno, oggi, potrebbe più credere, ma per il piacere di assistere al ritorno a casa di questo simpatico e coraggioso campione di una ragionata e [p. 12 modifica] ingegnosa stranezza. All’epoca in cui il povero Boccioni morì era giorno di pioggia battente nel mondo dell’arte. I prudenti eran tutti tornati, e, scuotendosi allegri, seguitavano a contemplare il temporale fuor dalle finestre, mentre nella stanza il fuoco incendiava giocondamente nel caminetto riflettendo sui visi bagliori rossi e saporosi come l’annuncio sicuro di una buona pittura.

E tra chi rincasò presto ci fu chi presto lavorò e con buoni frutti, come lo può dimostrare, nel caso di Soffici, l’armonioso quadro della Pulizia del bambino.

Ma s’intende che l’amore maggiore, l’aspettazione maggiore, era dedicata all’assente, al folle assente che non tornò e schiantò per via la sua giovinezza al cozzo di un ostacolo meschino come spesso è meschino il viso della fatalità. Boccioni mori, soldato, e in tempo di guerra, per una caduta da cavallo.

Il Futurismo — si dice — sembra perduto nella notte dei tempi, e vi è sommerso da quella infinita teoria di pittori contemporanei che pur senza distinzioni di gusti, di scuole e di tendenze, vanno dai macchiatoli a Sartorio, da Ghiglia a Tito, da Spadini a Carena.

Questo è vero ma d’altronde il Futurismo, cosi lontano e cosi invecchiato, è tuttavia ancor degno di amore, perchè, specie a considerarlo in rapporto ai più recenti movimenti francesi e tedeschi, possiamo dire che grazie al suo largo soffio romantico e goliardico, esso ha egregiamente assolto il compito di riassumere e di chiudere il cerchio d’ogni nostra possibile stravaganza moderna, rimettendo duramente gli artisti di fronte al problema di un’arte umana, poetica e narrativa, cosi com’è voluta dalla nostra più antica tradizione. Ora, se riflettiamo che la generazione dei primi del ’900 istradata alla pittura correva con certezza incontro al più mediocre illustrazionismo giacché i migliori macchiatati erano ancora sconosciuti e l’Accademia, fornita si di modelli, ma lontana da una viva tradizione di bellezza era quasi decaduta dalla possibilità di trasmettere un qualsiasi insegnamento, dobbiamo riconoscere al Futurismo un’influenza non proprio deleteria. Infatti l’idea della pittura pura, non espressa attraverso una piccola legittima opera come quella dei macchiaioli, ma inserita nel nostro tempo alla guisa di un dogma o di un verbo divino, creò una popolazione di artisti embrionali, che non sarebbero giunti all’opera d’arte, ma intanto contribuivano a dare il senso di una possibile civiltà artistica: essi erano, nè più nè meno, un’oscura fermentazione.

Raffaello Franchi.