Il Baretti - Anno II, n. 2/Il muro trasparente
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IL MURO TRASPARENTE
(Studio su J. J. Bernard e Paul Géraldy)
Una sera salutai l’amata per l’ultima volta, con quella gioiosa disperazione delle ore definitive, che rende i gesti con cui accompagniamo un addio, a noi stessi scultorei. Fuori nevicava. Ma benché mi convenisse andare «come un automa per le vie» m’accorsi, con un certo stupore, che imboccavo le strade con la sicurezza di chi vive tranquillamente. Quel silenzio e quel deserto, dentro cui ravvolgevo la mia sognante disillusione, mi opprimeva; sicché, per provare se l’esistenza del rumore fosse ancora possibile, mi misi a gridare a gran voce delle parole, a canticchiare delle frasi di musica, che, quando mi interrompevo, si perdevano nella neve senza risonanza, soffocate in un attimo nel silenzio bianco, come quando si mette la mano sopra un bicchiere tremante di musica.
Allorché, a un tratto, m’accorsi che alla disperazione veniva aggiungendosi un’inquietudine salita in me dal profondo delle abitudini, e provocala, con mio sdegno, dalle scarpe di vernice, che si riempivano di neve. E questa uggia assurda, che in una giornata comune avrei accolto naturalmente, mi indispettiva, per quella sua pretesa di non ammettere l’anormalità dell’ora.
Allora mi resi conto di un primo elemento del teatro di Jean Jaques Bernard e di Géraldy: la coesistenza di sentimenti e di mosse normali, disancorate dalla zona arcana della vita ordinaria, con la straordinaria fioritura della tragedia.
Intanto, ripensando alla scena che si era svolta in quel breve passato, dovetti considerare con malinconia che nella vita c’è povertà di grandi manifestazioni - giacché, quell’addio, glielo avevo detto proprio come se fosse stato un addio di un giorno per l’altro. E ora a studiarmi questo miserabile addio tutt’al più ebdomadario, e pensando alle impossibili sfumature che in verità sarebbero d’obbligo a chi vive con civiltà, mi rincresceva.
Allora ricordando le innumerevoli scene sciupate del mio passato, con la nostalgia dei rimedi tardivi, stabilii dentro di me che le nostre parole e il nostro gesto non sono mai proporzionati alla gravità del sentimento, e restano indifferenti come se, non sgarrando dai ritmo comune delle cose scorse e mostrando di disinteressarsi di noi, ci volessero persuadere che non c’è ragione di credere a un mutamento.
Di questo resi responsabile la malignità della vita, perchè questa mancanza di proporzione tra il nostro pensiero e le nostre parole ci fa soffrire — tanto è vero, che, quando siamo disperati, vorremmo scatenarci d’intorno una tempesta e declamare, senza temere la meraviglia degli uomini, come il re Lear.
Ma allora mi resi conto del secondo elemento del teatro di Jean Jaques Bernard e di Géraldy: la espressione dei sentimenti drammatici in parole povere — in parole, come quelle che veramente avevo detto alla mia amata, salutandola. E non era forse il mio buonasera molto più tragico che una scena d’addio? Più tragico, anche perchè gli era unito quel rincrescimento intimo che ci dà un’espressione inadeguata.
Ma qui dovetti concedere che questa rinuncia era permessa soltanto ai forti; perchè a ogni autore vien fatto piuttosto di sfogare sulla scena, dove trova il consentimento dell’abitudine, le sue proprie pene, compresse, nella vita, ila quello stesso pubblico che le ammette a teatro.
Così si spiega, del resto, come il pubblico dei grandi teatri non possa fare buona accoglienza a questo genere drammatico. Un pubblico un po’ grosso e assai mescolato, d’istinto esige che la scena cominciata si svolga come teatralmente è stabilito, e come egli, dotto in intrighi di vecchie commedie e ormai perspicace a indovinarne i finali, prevede; ma se trova sul palcoscenico una scena come quelle che gli capitano a lui, protesta, perchè gli pare che non sia vera. Difatti, nella sua vita, non l’ha saputa osservare! Nessuno dei borghesi che vanno a teatro ha mai detto, nelle scene d’amore di cui abbellisce le memorie, quelle battute venerande che si conquistano, a teatro, il suo applauso. S’è convinto, ciò nonostante, che esse saranno state l’invidiato privilegio di altri più coraggiosi, o tutt’al più, che non gli è ancora capitata in buona occasione di metterle fuori. Ma al borghese non viene in mente che quelle dichiarazioni non le ha mai dette nessuno.
Ero arrivato a questo punto del mio amaro ragionamento, quando mi domandai se. dopo tutto, anche questo borghese non avesse una volta tanto ragione, chiedendo che, almeno sulla scena, i momenti gravi venissero segnati con delle parole gravi, perchè non gli capitasse di lasciarli passare inavvertiti. O come può fare, disgraziato, a capire che questo mio buonasera definitivo, è tragico appunto perchè somiglia a un buonasera, di quelli all’ingrosso? Se i miei sentimenti mutano, quel buonasera gli presenterà sempre una stessa fisionomia famigliare e crassa.
Ma per mutamento di venti mi trovai tutt'a un tratto mescolato alla musica crescente di una scala armonica, edificata, distrutta e riedificata continuamente da mani invisibili sopra qualche pianoforte.
Ora che nevicava più fitto la scala armonica, che per quel salto di nota si vestiva di una innaturale e pensosa tristezza veniva a partecipare della nevicata come se ne fosse l’espressione musicale. Le note, che si succedevano regolari, distaccate e granulose, sembravano che volessero disciplinare, con l’esempio del loro buon ordine, la folle discesa dei fiocchi di neve; e, d’altra parte, per le immagini, che suscitavano, dei tasti bianchi, parevano anch’esse come dei fiocchi raggruppati e induriti, perchè sciogliendosi e ricoagulandosi rapidamente una dopo l’altra, componessero il canto profondo, che non riusciva a cantare la massa barbara della neve. E più che un pezzo vero e proprio, quel salire e scendere come di un’anima che imprigionata in quelle note da una volontà superiore, si divincolasse, acquistava nella notte un’andatura ieratica e un accento straziante. Io rimasi a lungo immobile, per aspettare, nel correr liscio delle note, il salto della settima, da cui veniva propriamente quel gemito umano.
Allora, mentre con ansia struggente contemplavo la facciata impassibile di quella casa, in cui qualcuno suonava, mi ricordai l’osservazione di uno scrittore francese, che potrebbe essere Victor Hugo; niente è cosi suggestivo come un muro, dietro il quale succede qualcosa.
E mi dissi: noi siamo un muro, dietro cui succede qualcosa. Questo è il principio degli intimisti francesi. Ma bisogna rendere questo muro trasparente, in modo che alla -soddisfazione di seguire un intreccio, si aggiunga la gradevolezza di entrare di straforo in un mondo nuovo, e di capire il gioco patetico dei sentimenti come per una miracolosa intuizione. Questa è un’illusione per metà cosciente, giacché il pubblico, pur sapendo che quei personaggi gli sono stati chiariti dall’arte dello scrittore, rimarrà stupefatto, quando, a casa, s’accorgerà che gli uomini e le donne non hanno più trasparenza. Si capisce quindi che il borghese, il quale non si dà la briga di fare della psicologia a domicilio, rimanga insensibile allo squisito piacere di una falsa e facile collaborazione. Ma si capisce anche come, se non ci sono grandi attori e grandi pittori, il dramma non riesca a uscire dal boccascena. Quale è dunque il segreto di questa tecnica? La composizione, studiata così, che i piccoli fatti oscuri diventino grandi e luminosi. Questi piccoli fatti, si noti, acquistano forza in quanto sono collocati al loro posto: la prova che questi drammi si reggono soltanto a una sapiente composizione, come le cattedrali gotiche si reggono sull’equilibrata contrapposizione degli archi, la possiamo avere, mutando l’ordine di quegli episodi e vedendoli, immediatamente, impallidire.
Lo scrittore talvolta presenta il dramma e il personaggio, con una sola battuta, fino in fondo; talvolta li lascia trasparire, conte se uscissero naturalmente dalla nebbia delle cose ignote.
Un procedimento di questo genere si trova nel primo capitolo dell’Education Sentimentale. Qui Arnoux è segnato con due o tre particolari quasi generici: fa passare davanti a sè Federico, sussurra delle gracieusetès all’orecchio della moglie, ottiene un ribasso sul conto del pranzo.
Questi due o tre movimenti che non possono ancora rivelare un carattere, acquisteranno un valore psicologico quando saranno visti retrospettivamente e negli altri inquadrati; ma concretano, per ora, quello sgomento che ci riempie a contemplare degli sconosciuti quando pensiamo a una vita sviluppata e costruita, con un passalo ricco di avvenimenti e di passioni invisibili, che in quei parchi gesti, luminosi per certuni, e per noi indecifrabili ancora, affiorano.
E non si taccia questa scuola di verismo — perchè il verismo io sono convinto che non esiste. Qualunque dramma, semplicemente perchè è composto non è più l'ero. Qui gli scrittori hanno saputo tessere un’armonia di convenzioni teatrali, più squisita e meno appariscente.
Tutt’a un tratto quell’essere che suonava, benché questo sembrasse inverosimile, smise.
Il silenzio, tornando dopo essere stato interrotto, mi si rivelò colmo di rumori — e una pena dolcissima, stanca e tiepida, che m’invase per l’annientamento improvviso di quella musica, sciolse adagio in me l’acerba e ghiaccia disperazione. Con quella scala armonica era entrata in me un poco di primavera. E pensando che il vento mi avrebbe sbarazzato di questo male come aveva infranta la musica, ora quasi mi rincrebbe, perchè avevo inconsciamente sposato il mio dolore a quella scala, e all’uno e all’altra mi stavo affezionando.
Leo Ferrero.