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il baretti 10


l’avventura di Radiguet nei termini di quella di Thomas. Radiguet era un ragazzo che voleva scrivere dei romanzi: spesso i ragazzi sognano di scrivere dei romanzi, ma di rado vi riescono. Allora Radiguet finge che sia perfettamente normale che un ragazzo dotato sappia scrivere dei romanzi bellissimi. Questa finzione diventa la verità di Radiguet: egli si mette, dodicenne, a leggere Rimbaud e Mallarmé, e li capisce e li sviscera; con occhio intelligente osserva la guerra, Dada, il cubismo. E scrive Le Diable au corps, scrive Le bal du Comte d’Orgel. Poi dice: «questo ragazzo mi dà noia: minaccia la credibilità dei romanzi di cui pure ha trovata in se medesimo la materia. Fingiamo che il ragazzo non esista, come ragazzo». Ma la finzione era divenuta la sua realtà; Radiguet era morto.

Giacomo Debenedetti.


RITRATTI


L’ineffabile.

Questo l'han battezzato l’ineffabile: che gli sta bene. E poichè definirlo è impossibile, dirò dei suoi effetti. Non capisci se è un delinquente o un uomo bennato; se è un sensuale o un frigido: affettuoso o cerebrale. Natura s’è scordata d’immettergli le entelechie caratteristiche ed egli va per il mondo come le ore in cui non succede nulla. Perciò predilige la compagnia dei megalomani, degli irregolari, degli artisti. Quando si è in molti nessuno s’accorge di lui, allorché si rimane in due manca ogni ponte per conversargli assieme. Qualunque argomento è buono e ad un tempo inutile: ragionamenti profondi, facezie, superficialità, tutto annega una gran voglia maltrattenuta di sbadigliare. Ecco, ci si dice, vediamo di cavarne un costrutto, di dargli uno stile, di plasmargli una figura in qualche modo considerabile. Non c’è caso: sfugge di tra le mani come la creta troppo molle. Il problema che ci si pone allora e questo: è egli un’anima cancellata o un essere che ancora deve nascere? Tempo perso. Dalla sabbia non spunta erba. Inferiore alla conchiglia che è bella fuori ma vuota eppure se te l’accosti all’orecchia t’illudono voci marine, se ascolti lui non odi nulla di nulla: e pagheresti chissachè perchè una cicala, un grillo, un tarlo qualunque si mettesse a stridere. Non è nemmeno tra color che son sospesi. Non dubita e non crede: non è. Non è ma t’invade, t’imbarazza col suo aspetto certo e indefinibile che ammettere non puoi ma nemmeno abolire. Piace alle donne fratellevolmente. Lo adoperano senza curarsi d’umiliarlo ed egli s’acconcia a loro con pace come al proprio carattere. In qualunque luogo trova un angolo dove riporsi senza parere. Ma i più prudenti si lasciano spesso sfuggire alla sua presenza segreti gelosissimi: nessuno pensa con lui a difendersi: torna ognuno quel che il caso lo fece. Perciò vorrei talvolta somigliargli; che nessuno si mettesse davanti a me la maschera. E sospetto che un giorno costui ci sorprenderà. Scopriremo ch’era un’incarnazione del Demonio: o un genio che all’improvviso sbalordirà la terra. Certo, sarà il padrone di quanti lo han conosciuto.

Il gaudente.

A stargli insieme, dapprincipio, è un bambino paffutello che, sotto un cielo molto azzurro, corre incespica cade. Si rialza e sta per piangere ma poi ride, ricorre agitando i braccini. Natura lo tratta come madre indulgente: come il sole guarda i cavoli e le rose thee. Dopo un poco l’aria d’intorno a lui s’ingrassa. Se è giorno ti viene in mente l’osteria col pergolato dove i minatori cantano la testa fra i gomiti e una serva col grembiule rosso appare, sparisce sull’uscio di cucina. Se è notte, per il viale, par di vedere abbozzarsi dietro gli alberi rotondità carnose; dai lampioni pendere grossi frutti maturi a punto. Ogni suo ragionamento sai già come finirà: nostalgia di vivande sugose, di vini forti aromatici, di spiagge su cui l’estate si sta bene a crogiolarsi pancia all’aria. Qualunque infelicità perde a stargli vicino l’equilibrio. Ma se dura nel bere allora ti si prodiga in consigli e pareri: e i giudizi che ti dà non chiedono scusa. Ma più grosse le dice più lo abbracceresti perchè senti che litiga con sè stesso per questa sua natura di gaudente che in fondo gli secca. Spesso lo prende una mania oratoria: tira su le parole da una cesta, le appiccica contro uno specchio come vengono vengono: è un bellissimo vedere. Nella sala tutti in breve ridono e gli vogliono bene. Allora il mento gli casca sulla pancia e finge di dormire: tosto si rileva di scatto, vuol fare a cazzotti. Infine moralizza e capisci che è giunto il momento in cui abbraccerebbe tutte le donne che sono lì e ci patisce d’andarsene solo. Quando l’incontri a un angolo di strada pensi che dietro sbucherà un’orchestra di pifferi e di fagotti, si metterà in circolo a suonare lui dirigendo, finchè da terra sorgerà l’albero della cuccagna tutto carico di cibarie. Se gli toccherà di salirci lo vedrai arrivare, che non t’aspettavi, in vetta in un momento, di lassù tirare polli arrosto, scatole di conserve, sulla testa dei passanti col cappello duro.

Adriano Grande.


PIERO GOBETTI — Editore

TORINO - Via XX Settembre, 50


Letteratura:

F. M. Bongioanni: Venti poesie 1 - 8 —

V. Cento: lo e me. Alla ricerca di Cristo » 6 —

T. Fiore: Eroe svegliato asceta perfetto » 4 —

T. Fiore: Uccidi » 10,50

G. Prezzolini: G. Papini » 6 —

G. Sciortino: L’epoca della critica » 3 —

M. Vinciguerra: Un quarto di secolo (1900-1925) » 5 —

Si spediranno tutti, franchi di porto, agli abbonati del Baretti,

contro vaglia di L. 37.


IL MURO TRASPARENTE

(Studio su J. J. Bernard e Paul Géraldy)

Una sera salutai l’amata per l’ultima volta, con quella gioiosa disperazione delle ore definitive, che rende i gesti con cui accompagniamo un addio, a noi stessi scultorei. Fuori nevicava. Ma benché mi convenisse andare «come un automa per le vie» m’accorsi, con un certo stupore, che imboccavo le strade con la sicurezza di chi vive tranquillamente. Quel silenzio e quel deserto, dentro cui ravvolgevo la mia sognante disillusione, mi opprimeva; sicché, per provare se l’esistenza del rumore fosse ancora possibile, mi misi a gridare a gran voce delle parole, a canticchiare delle frasi di musica, che, quando mi interrompevo, si perdevano nella neve senza risonanza, soffocate in un attimo nel silenzio bianco, come quando si mette la mano sopra un bicchiere tremante di musica.

Allorché, a un tratto, m’accorsi che alla disperazione veniva aggiungendosi un’inquietudine salita in me dal profondo delle abitudini, e provocala, con mio sdegno, dalle scarpe di vernice, che si riempivano di neve. E questa uggia assurda, che in una giornata comune avrei accolto naturalmente, mi indispettiva, per quella sua pretesa di non ammettere l’anormalità dell’ora.

Allora mi resi conto di un primo elemento del teatro di Jean Jaques Bernard e di Géraldy: la coesistenza di sentimenti e di mosse normali, disancorate dalla zona arcana della vita ordinaria, con la straordinaria fioritura della tragedia.

Intanto, ripensando alla scena che si era svolta in quel breve passato, dovetti considerare con malinconia che nella vita c’è povertà di grandi manifestazioni - giacché, quell’addio, glielo avevo detto proprio come se fosse stato un addio di un giorno per l’altro. E ora a studiarmi questo miserabile addio tutt’al più ebdomadario, e pensando alle impossibili sfumature che in verità sarebbero d’obbligo a chi vive con civiltà, mi rincresceva.

Allora ricordando le innumerevoli scene sciupate del mio passato, con la nostalgia dei rimedi tardivi, stabilii dentro di me che le nostre parole e il nostro gesto non sono mai proporzionati alla gravità del sentimento, e restano indifferenti come se, non sgarrando dai ritmo comune delle cose scorse e mostrando di disinteressarsi di noi, ci volessero persuadere che non c’è ragione di credere a un mutamento.

Di questo resi responsabile la malignità della vita, perchè questa mancanza di proporzione tra il nostro pensiero e le nostre parole ci fa soffrire — tanto è vero, che, quando siamo disperati, vorremmo scatenarci d’intorno una tempesta e declamare, senza temere la meraviglia degli uomini, come il re Lear.

Ma allora mi resi conto del secondo elemento del teatro di Jean Jaques Bernard e di Géraldy: la espressione dei sentimenti drammatici in parole povere — in parole, come quelle che veramente avevo detto alla mia amata, salutandola. E non era forse il mio buonasera molto più tragico che una scena d’addio? Più tragico, anche perchè gli era unito quel rincrescimento intimo che ci dà un’espressione inadeguata.

Ma qui dovetti concedere che questa rinuncia era permessa soltanto ai forti; perchè a ogni autore vien fatto piuttosto di sfogare sulla scena, dove trova il consentimento dell’abitudine, le sue proprie pene, compresse, nella vita, ila quello stesso pubblico che le ammette a teatro.

Così si spiega, del resto, come il pubblico dei grandi teatri non possa fare buona accoglienza a questo genere drammatico. Un pubblico un po’ grosso e assai mescolato, d’istinto esige che la scena cominciata si svolga come teatralmente è stabilito, e come egli, dotto in intrighi di vecchie commedie e ormai perspicace a indovinarne i finali, prevede; ma se trova sul palcoscenico una scena come quelle che gli capitano a lui, protesta, perchè gli pare che non sia vera. Difatti, nella sua vita, non l’ha saputa osservare! Nessuno dei borghesi che vanno a teatro ha mai detto, nelle scene d’amore di cui abbellisce le memorie, quelle battute venerande che si conquistano, a teatro, il suo applauso. S’è convinto, ciò nonostante, che esse saranno state l’invidiato privilegio di altri più coraggiosi, o tutt’al più, che non gli è ancora capitata in buona occasione di metterle fuori. Ma al borghese non viene in mente che quelle dichiarazioni non le ha mai dette nessuno.

Ero arrivato a questo punto del mio amaro ragionamento, quando mi domandai se. dopo tutto, anche questo borghese non avesse una volta tanto ragione, chiedendo che, almeno sulla scena, i momenti gravi venissero segnati con delle parole gravi, perchè non gli capitasse di lasciarli passare inavvertiti. O come può fare, disgraziato, a capire che questo mio buonasera definitivo, è tragico appunto perchè somiglia a un buonasera, di quelli all’ingrosso? Se i miei sentimenti mutano, quel buonasera gli presenterà sempre una stessa fisionomia famigliare e crassa.

Ma per mutamento di venti mi trovai tutt'a un tratto mescolato alla musica crescente di una scala armonica, edificata, distrutta e riedificata continuamente da mani invisibili sopra qualche pianoforte.

Ora che nevicava più fitto la scala armonica, che per quel salto di nota si vestiva di una innaturale e pensosa tristezza veniva a partecipare della nevicata come se ne fosse l’espressione musicale. Le note, che si succedevano regolari, distaccate e granulose, sembravano che volessero disciplinare, con l’esempio del loro buon ordine, la folle discesa dei fiocchi di neve; e, d’altra parte, per le immagini, che suscitavano, dei tasti bianchi, parevano anch’esse come dei fiocchi raggruppati e induriti, perchè sciogliendosi e ricoagulandosi rapidamente una dopo l’altra, componessero il canto profondo, che non riusciva a cantare la massa barbara della neve. E più che un pezzo vero e proprio, quel salire e scendere come di un’anima che imprigionata in quelle note da una volontà superiore, si divincolasse, acquistava nella notte un’andatura ieratica e un accento straziante. Io rimasi a lungo immobile, per aspettare, nel correr liscio delle note, il salto della settima, da cui veniva propriamente quel gemito umano.

Allora, mentre con ansia struggente contemplavo la facciata impassibile di quella casa, in cui qualcuno suonava, mi ricordai l’osservazione di uno scrittore francese, che potrebbe essere Victor Hugo; niente è cosi suggestivo come un muro, dietro il quale succede qualcosa.

E mi dissi: noi siamo un muro, dietro cui succede qualcosa. Questo è il principio degli intimisti francesi. Ma bisogna rendere questo muro trasparente, in modo che alla -soddisfazione di seguire un intreccio, si aggiunga la gradevolezza di entrare di straforo in un mondo nuovo, e di capire il gioco patetico dei sentimenti come per una miracolosa intuizione. Questa è un’illusione per metà cosciente, giacché il pubblico, pur sapendo che quei personaggi gli sono stati chiariti dall’arte dello scrittore, rimarrà stupefatto, quando, a casa, s’accorgerà che gli uomini e le donne non hanno più trasparenza. Si capisce quindi che il borghese, il quale non si dà la briga di fare della psicologia a domicilio, rimanga insensibile allo squisito piacere di una falsa e facile collaborazione. Ma si capisce anche come, se non ci sono grandi attori e grandi pittori, il dramma non riesca a uscire dal boccascena. Quale è dunque il segreto di questa tecnica? La composizione, studiata così, che i piccoli fatti oscuri diventino grandi e luminosi. Questi piccoli fatti, si noti, acquistano forza in quanto sono collocati al loro posto: la prova che questi drammi si reggono soltanto a una sapiente composizione, come le cattedrali gotiche si reggono sull’equilibrata contrapposizione degli archi, la possiamo avere, mutando l’ordine di quegli episodi e vedendoli, immediatamente, impallidire.

Lo scrittore talvolta presenta il dramma e il personaggio, con una sola battuta, fino in fondo; talvolta li lascia trasparire, conte se uscissero naturalmente dalla nebbia delle cose ignote.

Un procedimento di questo genere si trova nel primo capitolo dell’Education Sentimentale. Qui Arnoux è segnato con due o tre particolari quasi generici: fa passare davanti a sè Federico, sussurra delle gracieusetès all’orecchio della moglie, ottiene un ribasso sul conto del pranzo.

Questi due o tre movimenti che non possono ancora rivelare un carattere, acquisteranno un valore psicologico quando saranno visti retrospettivamente e negli altri inquadrati; ma concretano, per ora, quello sgomento che ci riempie a contemplare degli sconosciuti quando pensiamo a una vita sviluppata e costruita, con un passalo ricco di avvenimenti e di passioni invisibili, che in quei parchi gesti, luminosi per certuni, e per noi indecifrabili ancora, affiorano.

E non si taccia questa scuola di verismo — perchè il verismo io sono convinto che non esiste. Qualunque dramma, semplicemente perchè è composto non è più l'ero. Qui gli scrittori hanno saputo tessere un’armonia di convenzioni teatrali, più squisita e meno appariscente.

Tutt’a un tratto quell’essere che suonava, benché questo sembrasse inverosimile, smise.

Il silenzio, tornando dopo essere stato interrotto, mi si rivelò colmo di rumori — e una pena dolcissima, stanca e tiepida, che m’invase per l’annientamento improvviso di quella musica, sciolse adagio in me l’acerba e ghiaccia disperazione. Con quella scala armonica era entrata in me un poco di primavera. E pensando che il vento mi avrebbe sbarazzato di questo male come aveva infranta la musica, ora quasi mi rincrebbe, perchè avevo inconsciamente sposato il mio dolore a quella scala, e all’uno e all’altra mi stavo affezionando.

Leo Ferrero.


LIBRI

Filippo Addis: Giagn Iscriccia - Novelle • Torino Chiantore 1925 L. 8,50, (Un giovane scrittore sardo che si cerca: due anni or sono pubblicò un altro volume di novelle:Il Divorzio. Tentativi di dominare in un aspro stile paesano il temperamento esuberante e sensuale. Il mondo che vi si descrive non è la solita Sardegna di G. Deledda ed epigoni).

G. A. Borgese: La città sconosciuta - Milano Mondadori 1923 L. 9.

(Raccoglie le novelle del Corriere in edizione riveduta con aggiunte), D. Bulferetti: Scrittori italiani - Torino Paravia.

(In luogo delle antologie scolastiche e dei manuali D. Bulferetti raccoglie in un’ottantina di volumi, uno per ogni autore, il meglio della letteratura italiana. Di ogni autore sono dati scritti tipici e talvolta anche scelti tra gli inediti, accompagnati da notizie storiche, analisi estetiche, bibliografia. Ogni volume è quindi non solo una antologia ma una monografia sull’autore trattato, e sta a se. Sono usciti: Abba, Cuoco, De Sanctis, Il Foscolo minore, Nievo. Ogni volume L. 5).

G, K. Chesterton: L’innocenza di Padre Brown Trad. da G. Dauli - Milano Modernissima 1924 L. 8.

G. K. Chesterton: L’uomo che fu Giovedì Trad. da D. Pi.rroRM.i) - Torino Paravia 1924 L. 12.

(Dopo le prime presentazioni e traduzioni di Emilio Cecchi, Chesterton va diventando in Italia quasi popolare).


Lettera d’occasione.

Caro Pilade,

È tacita condizione fra di noi, anzi è un legame, che proprio del tuo silenzio io mi soddisfi. Questa lettera se in alcun modo lo immaginassi suscitatrice di una tua risposta, non che ponzarla con fatica, son certo che non mi riuscirebbe di pensarla affatto. Perchè conosco la tua precisa persona, e di essa m’importa — peggio e più ancora: di me di fronte ad essa. Onde anche ne viene che il far pubblicare queste righe non mi preoccupa. Tu ridotto a un’ombra muta, ma in ascolto, attento, intelligente — il pubblico essendo la consueta moltitudine anonima: cade, così anzi nemanco nasce velleità alcuna di polemica. Il discorso può svolgersi filato, urgente paranco, ma disinteressato, sembra; e col disinteresse chissà che non si giunga talora a ritrovare un filo di sincerità.

Dico anonimo il pubblico: a trarli dalla massa Tizio. Caio, Sempronio, sai già che oltre il previsto non ne cavi. Professioni di fede, nobili sdegni, machiavellismo da strapazzo, colati nel conio spicciolo del luogo comune — ecco la moneta valevole per i loro negozi.

Ed è pacifico ormai che a nulla menano le predicazioni.

In altri tempi il rogo delle vanità menava ad altro rogo; senza tuttavia che nemanco fra i santi extra-canonici il martire potesse essere meritamente assunto. Ma anzi, attraverso i tempi, il suo esempio ad altro non è valso, se non a far vieppiù convinti di come radicata e ricca di succhi, in questa sua dolce terra, sia la vita del popolo d’Italia, che nella sua quotidiana placidità trionfa inerte di ogni riforma che non sia meramente esteriore e cui non lo costringa il bastone o la fondata tema di un danno materiale.

Discorso, questo, risaputo. Onde, nello squallore dei tempi, bilanci di sconfitte, atti d’umiltà e consimili disincantate constatazioni potranno oggi esser anche di moda, come di moda per un pezzo sono stati manifesti e programmi. Tutto sta, non solo a serenamente indagare le cause di ciò, ma distinte che le si abbia, badare a che l’umor dei tempi, suadente al raccoglimento, non ne conduca poi rinunzie più apparenti che schiette, od abdicazioni per disamore, stanchezza, sfiducia in noi stessi, negli altri, negli Dei.

Quella di ritrovarci legittimi ascendenti, di ricomporci su questa scompaginata terra un albero genealogico sul quale proficuamente poterci innestare, è una romantica prova che, ciascuno a suo modo, ma tutti s’è fatta. Pilade, rammenti! La nostalgia di una tradizione di classica civiltà ci ha lungamente travagliato. Oggi — non so di te; quanto a me, son libero da ogni rimpianto.

Ci si dorrebbe anzitutto intendere su quel che da una tradizione pretendiamo, quel che una tradizione può significare, e quello che è in effetto. Pilade, rammenterai che, terra ideale allevatrice e conservatrice della Tradizione, era per noi la Francia. La continuità ininterrotta della sua letteratura, fluente pari pari colla sua storia civile, un tono di vita trasparente sempre, uguale serbato e tramandato, e tale da permettere ed agevolare lo scambio delle idee, distinzione e chiarezza di quello società — di quanta ammirazione ci penetravano, ma come ci disperavano...

La tradizione che possiamo dir nostra è invece segreta, tanto segreta che a volersi rifar di proposito a dei modelli, par davvero che sia fatica non che inutile, perniciosa così da far puntualmente cadere nell’esercizio retorico la tradizione nostra è in un tono che mi piace dire di moralità nativa, straniato sì che la comunità italiana difficilmente ci si può riconoscere, ma pur rampollante dalle più profonde e pure scaturigini della nostra terra — tono che t'è dato scoprire attraverso o meglio sotto le differenze individuali, quando, accomunandoli appunto per la loro storica solitudine, familiarmente raduni nel tuo spirito la rada ma ricca schiero dei sommi italiani. Risparmiami di enumerarli.

Ma ecco vedi la solitudine e il distacco come, lungi dall’impoverirti, ti si vadan mutando, se una fede temperata d’ironia ti animi, in una maggiore virtuale ricchezza offerta dalla possibilità delle più varie integrazioni. E non fraintendermi: mi rifaccio a una parola d’altri su queste stesse colonne: raccoglimento. Non predico, vedi pure, sradicamenti. Un accento italiano, dico uno stile, stimo che risonerà più schietto dalle nostre labbra quanto meno ci saremo adoperati a farlo tale.

Libero così dagli obblighi che comporta l’eredità di un bene ordinato patrimonio tradizionale, con vivo tuttavia il senso di una carnale ma pur trepida adesione alla mia terra (più ancora che immediatamente alla mia gente), non distinguo più frontiere, ma soltanto una varietà di più fruttuose esperienze onde arricchirci di quanto dobbiamo pur riconoscere farci difetto. E dove leggi esperienze intendi tutte quelle che il moralista può assommare in un ideale Traitè de l’homme e che son l’intimo tessuto dell’opera del romanziere.

E chiudo un discorso troppo lungo per il mio fiato, troppo corto, monco anzi, se badi a che ho preteso di trattarvi. Per scaricarmi d’ogni responsabilità tirerò in ballo l’umore dei tempi.

Addio. Ti lascio; con, a guisa di benedizione, queste parole del religioso Baudelaire: «Et ainsi se forme une compagnie de fantômes déja nombreuse, qui nous hante familièrement, et dont chaque membre vient nous vanter son repos actuel et nous verser ses persuasions».

Oreste.


Nei prossimi numeri:

g. debenedetti: I romanzi di Radiguet.

s. caramella: Inchiesta sulla cultura accademica

      • Il giornalismo in Italia.