Il Baretti - Anno II, n. 16/Taccuino critico/Sensibilità riflessa
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sensibilità riflessa
Una delle questioni più controverse fiorite per così dire, al margine dell’estetica crociana, è stata quella di definire la posizione filosoficamente più esatta del critico di fronte all’opera d’arte. Che significa critica? Se vien da crino, significa giudicare. Ma quali sono gli strumenti del giudizio? Qui la questione s’ingarbugliava più spesso che non si chiarisse
E’ sufficiente la mera sensibilità, cioè la capacità puramente sensitiva di accogliere in sè l’opera d’arte, dando così forma a un giudizio che sia il risultato del solo gusto? Si hanno risposto e rispondono quelli che escludono ogni ingerenza della filosofia nel campo dell’arte. La critica per essi consiste in un semplice apprendimento dell’opera d’arte, e la formulazione dei loro giudizi non si discosta dal comune «mi piace o non mi piace». Ma nel seno stesso di questa posizione non tarda a nascere la contraddizione che vi si nasconde; la quale consiste nell’esigenza di conferire al proprio giudizio di mero gusto una validità non soltanto momentanea e casuale, a dare cioè ad esso una base certa, universale. Allora ci si accorge che occorre un ubi consistam, sul quale il gusto resista, trovi la sua legittimità. Il gusto, per sè preso, è nella stessa situazione di un regime che cerca fuori di sè la propria legittimità, dopo aver posto in dubbio o distrutta la legittimità precedente. Esso quindi è costretto a ricorrere alle idèes gènèrales (adopero l’espressione francese perchè è tipica di uno mentalità); e difatti col Lemaître, la critica deve venir a patti con esse idee generali (cioè con la filosofia) non potendo basarsi sulla casuale, relativistica rassomiglianza dei gusti. Insomma, la critica impressionistica, che in Lemaître appunto ha avuto il rappresentante più autorevole, e reca nel suo seno stesso la contraddizione; e per usarne, per non abbandonarsi alla rapina turbinosa e variopinta del semplice gusto costretto nei imiti, muti d’ogni concetto, del «mi piace o non mi piace», si deve aggrappare alla «generalità».
Ma una volta entrati nel dominio della «generalità», una volta che la critica cioè ha riconosciuto che deve fare appello a un’autorità che il mero gusto non è in grado di fornirle, le cose non cessano di andar male, tutte le volte che questo appello a fatto impropriamente: allorché si ricorra a una filosofia sbagliata, o alle scienze naturali, o alla réthorique, o ai generi letterari.
Così mentre la vecchia critica alla La Harpe, che da noi fu la critica delle accademie, considerava l’opere d’arte, giusta la frase del Flaubert, «comme des aérolithes», la critica del Taine, nell’intento di considerare le opere storicamente, secondo l’esigenza della filosofia idealistica, le immergeva nella razza o nell’ambiente, dandone quindi un giudizio deterministico. La posizione era capovolta: alla critica astrattistica. accademica, aerolitica era subentrata la critica storicistica (non storica), naturalistica, deterministica.
Due cose, e importanti, sono venute in chiaro: 1ª che la critica impressionistica postula un’esigenza filosofica; 2ª che questa esigenza filosofica s’appunta in una filosofia che del fatto estetico abbia un concetto esatto.
Tornando ora al nostro critico, quale diremo che sarà la sua posizione più giusta di fronte all’opera d’arte?
Non gli basta l’essere puramente sensibile, e gli occorre un esatto concetto filosofico dell’arte. Questa duplice esigenza egli la realizzerà sinteticamente; cioè in lui vigore di concetti e fresca sensibilità dovranno operare come una forza unitaria. Questa sintesi, questa unità si possono chiamare sensibilità riflessa.