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66 il baretti

Taccuino critico

sensibilità riflessa

Una delle questioni più controverse fiorite per così dire, al margine dell’estetica crociana, è stata quella di definire la posizione filosoficamente più esatta del critico di fronte all’opera d’arte. Che significa critica? Se vien da crino, significa giudicare. Ma quali sono gli strumenti del giudizio? Qui la questione s’ingarbugliava più spesso che non si chiarisse

E’ sufficiente la mera sensibilità, cioè la capacità puramente sensitiva di accogliere in sè l’opera d’arte, dando così forma a un giudizio che sia il risultato del solo gusto? Si hanno risposto e rispondono quelli che escludono ogni ingerenza della filosofia nel campo dell’arte. La critica per essi consiste in un semplice apprendimento dell’opera d’arte, e la formulazione dei loro giudizi non si discosta dal comune «mi piace o non mi piace». Ma nel seno stesso di questa posizione non tarda a nascere la contraddizione che vi si nasconde; la quale consiste nell’esigenza di conferire al proprio giudizio di mero gusto una validità non soltanto momentanea e casuale, a dare cioè ad esso una base certa, universale. Allora ci si accorge che occorre un ubi consistam, sul quale il gusto resista, trovi la sua legittimità. Il gusto, per sè preso, è nella stessa situazione di un regime che cerca fuori di sè la propria legittimità, dopo aver posto in dubbio o distrutta la legittimità precedente. Esso quindi è costretto a ricorrere alle idèes gènèrales (adopero l’espressione francese perchè è tipica di uno mentalità); e difatti col Lemaître, la critica deve venir a patti con esse idee generali (cioè con la filosofia) non potendo basarsi sulla casuale, relativistica rassomiglianza dei gusti. Insomma, la critica impressionistica, che in Lemaître appunto ha avuto il rappresentante più autorevole, e reca nel suo seno stesso la contraddizione; e per usarne, per non abbandonarsi alla rapina turbinosa e variopinta del semplice gusto costretto nei imiti, muti d’ogni concetto, del «mi piace o non mi piace», si deve aggrappare alla «generalità».

Ma una volta entrati nel dominio della «generalità», una volta che la critica cioè ha riconosciuto che deve fare appello a un’autorità che il mero gusto non è in grado di fornirle, le cose non cessano di andar male, tutte le volte che questo appello a fatto impropriamente: allorché si ricorra a una filosofia sbagliata, o alle scienze naturali, o alla réthorique, o ai generi letterari.

Così mentre la vecchia critica alla La Harpe, che da noi fu la critica delle accademie, considerava l’opere d’arte, giusta la frase del Flaubert, «comme des aérolithes», la critica del Taine, nell’intento di considerare le opere storicamente, secondo l’esigenza della filosofia idealistica, le immergeva nella razza o nell’ambiente, dandone quindi un giudizio deterministico. La posizione era capovolta: alla critica astrattistica. accademica, aerolitica era subentrata la critica storicistica (non storica), naturalistica, deterministica.

Due cose, e importanti, sono venute in chiaro: 1ª che la critica impressionistica postula un’esigenza filosofica; 2ª che questa esigenza filosofica s’appunta in una filosofia che del fatto estetico abbia un concetto esatto.

Tornando ora al nostro critico, quale diremo che sarà la sua posizione più giusta di fronte all’opera d’arte?

Non gli basta l’essere puramente sensibile, e gli occorre un esatto concetto filosofico dell’arte. Questa duplice esigenza egli la realizzerà sinteticamente; cioè in lui vigore di concetti e fresca sensibilità dovranno operare come una forza unitaria. Questa sintesi, questa unità si possono chiamare sensibilità riflessa.

stile e fantasia

Quando si parla di stile solitamente s’intende in due modi egualmente errati. Nel primo modo, stile significa lingua; un’opera di stile dovrà essere scritta perciò in una bella lingua, con parole una per una splendenti, scelte secondo criteri astratti di purità verbale, e intasate secondo certi canoni d’eleganza sintattica. Nel secondo modo, stile si vuol richiamare a un criterio esteriormente formale. Esiste cioè, in tale maniera di concepir lo stile, un’idea pura, che diremo platonica dello stile. Riferire, anzi modulare la propria intuizione alla forma di questa idea, ciò significa fare opera di stile. In entrambi i modi, sia nel caso dello stile-lingua che in quello dello stile-idea, il concetto di stile è posto al di fuori della realtà dell’intuizione, in una specie di sopramondo vuoi verbale e vocabolaristico, vuoi ideale e accademico. In entrambi i casi lo stile è un’astrazione dell’intelletto.

Stile si ha, al contrario, allorché materia e forma (per usare i vecchi termini del linguaggio scolastico) sono intuite, per così dire, dal loro intimo, nel loro sintetico generarsi dentro la fantasia dell’artista. Non c’è quindi uno stile esterno alla materia (sentimenti, volizioni, pensieri) dell’opera. Molte opere cosidette di stile sono abili esercitazioni stilistiche: prodotti d’accademia. Stile si ha quindi per il pieno coincidere di materia e forma nell’alta fantasia artistica.

un pensiero di flaubert

Quando Taine pubblicò l’Histoire de la littérature anglaise fondata per almeno tre quarti sul pilastro del climat (Un pareil climat preserit l’action, interdit l’oisiveté, développe l’énergie, enscigne la patience), Flaubert non si fece ingannare dalle molte belle pagine sul paesaggio inglese «au style rapide, vif, imaginatif» ma colse, direi quasi d’istinto se non si sapesse quali doti di profonda meditazione egli possedesse, il fondamentale punto debole di quella storia, e della mentalità tainiana. Nella Correspondance si leggono queste esattissime parole, che toccano nell’intimo il nodo della questione: «lo deploro il punto di partenza. Nell’arte c’è altra cosa che il mi-luogo e gli antecedenti fisiologici dell’artista. Con cotesto sistema si spiegano la serie, il gruppo, giammai l’individualità, il fatto speciale...». Cotesto metodo conduce forzatamente a non dare alcuna importanza all’ingegno. Il capolavoro non ha altro significato che quello di documento storico. E’ radicalmente l’opposto della vecchia critica di La Harpe. Una volta si credeva che la letteratura fosse una cosa tutta personale e che le opere cadessero dal cielo come aeroliti. Ora si nega ogni volontà, ogni assoluto. Credo che la verità sia nel mezzo. Questo mezzo, per chi conosce il problema, è tra la critica accademica o impressionistica (qualcuno ricorderà il tentativo di alcuni giovani vociani. De Robertis, Onofri e, per alcuni lati, Serra venuti dalla cosidetta scuola carducciana di rinnovare la vecchia critica accademica con il talismano della sensibilità) e la critica metafisica, filosofica, cioè pseudo-filosofica e naturalistica. Il contrasto è fra Salute Leuve-Lemaître da un lato e Brunetière-Taine dall’altro, per limitarci ai termini francesi del problema.

Nella critica francese, nonostante la Correspondance e le chiarificazioni crociare, la questione non ha fatto gran passi neanche oggi. Albert Thibaudet che per gl’impressionisti è troppo filosofo e per i filosofi troppo impressionista, .. sforza di collocarsi, in una delle sue, spesso sottili, Reflexions sur la littéralure che va pubblicando sulla N. R.F. in cotesta posizione mediana allorché disegna alla stregua di due saggi su Balzac (uno di Bellessort, Balzac et son oeuvre, e l’altro di Curtius) un tipo di critica tedesca di fronte al tipo di critica francese. «Si j’écrivais à mon tour un Balzar — afferma poi il Thibaudet — je lui verrais le même foyer que Curtius, une énergétique, mais je donnerais pour suite à celle énergetique une technique du roman balzatien, liée à une technique, générale et à une histoire du roman, et je terminerais sur le terrain des moeurs et du goùt, où je me rencontrerais avec M. Bollatori».

Un pasticcio, insomma, malgrado questo tentativo di coordinazione dei due termini del problema; e un pasticcio, anzi, appunto perchè questa coordinazione è fatta dall’esterno, astrattisticamente. Così il vecchio cartesianismo risbuca da tutte le parti.

C’è una terza critica, per così dire, tra Bellessort e Curtius; ed è quella proprio che intendeva Flaubert criticando l’Histoire di Taine.

G. Titta Rosa.

Evghènij Abràmovich Baratynskij

(1800-1844)

«Il primo dei nostri poeti elegiaci» lo disse Pùskin: primo, intendosi, in ordine di tempo. Non che avanti di lui la nota elegiaca non avesse risuonato nella poesia russa: note elegiache delicate e commosse già avevan fatto vibrare la lirica di Zukòvskij e di Batjuskov, e altre, squisite di sentimento, perfette di suono e d’armonia, s’erano sprigionate da quella, precocissima, dello stesso Puskin. Ma in questi poeti il motivo elegiaco era stato occasionale o momentaneo o variamente commisto ad altri non pochi, e soprattutto mai si era elevato dalla sfera del sentimento a quella del pensiero meditato. Baratynskij o (Boratynskij), per la prima volta in Russia, la malattia del secolo, la mirovàja toska o miroyàja skorb, si affina e sublima: mentre si libera da ogni scoria sentimentale e romantica, cessa di essere l’espressione fugace di un fugace stato d’animo, assurge ad un tutto continuo e coerente di pensiero, ad un’austera sintetica visione della vita e del mondo.

Il curriculum vitae di Baratynskij ha larghe analogie con quello di più altri grandi poeti del tempo.

Un’infanzia dolorosa, un’adolescenza ricca di amare vicissitudini (si sa che egli dovette, per punizione, lasciare il corpo dei paggi e prestar servizio militare come semplice soldato, il che non gl’impedi, ma solo molti anni più tardi, nel 1826, dì raggiungere il grado di ufficiale ), un lunghissimo periodo di guarnigione nella desolata e cupa Finlandia, e le disperate condizioni della vita spirituale in Russia, sotto la cappa di piombo, del regime poliziesco e militaresco di Arakcèjev, che accompagnò fino all’ultimo il fosco tramonto di Alessandro I e di cui tanto sentirono il peso anche Pùskin o Bàtjuskov: ecco le principali influenze che detterminarono per tutta la vita il corso dello sviluppo poetico di Baratynskij.

Non pessimista di natura — ce ne persuadono i sia pur brevi sorrisi della sua Musa — egli divenne, così, il più tipico rappresentante dei poeti skòrbnkinò, come noi diremmo, pessimisti, al cui novero egli stesso si ascrisse con questa professione di fede:

«Della tristezza c’invaghimmo. I novissimi poeti non sorridono nelle creazioni loro... ...A tutti di mestizia si velò la fronte, l’anima appassì e il cuore sfiorì...»

Dileguato, pertanto, «dei vividi entusiasmi il tenue paradiso» e posatori sul petto del poeta come «tumulo un pensiero fatale», il luminoso mondo gli appare «malinconico e vuoto» e la vita «un freddo, greve sogno» ed egli ti sente, ancor vivo, come in un sepolcro.

La morte diventa, così, il tema dominante della sua lirica, che la invoca e «soluzione d’ogni enigma e scioglimento d’ogni catena» e la catena come foce ultima dei sogni, delle passioni, dei travagli dell’uomo, come destino comune dell’individuo e del genere umano e d’ogni vivente sopra la terra. Di questa sua squallida filosofia Baratynskij tocca il vertice in alcune sconsolate visioni, tragicamente grandiose, del successivo spegnersi della vita nel mondo, da cui spirano insieme un senso di gelo e un soffio di potente, quasi biblica poesia.

A chi era giunto al definitivo pessimismo di tali conclusioni, come «L’ultima morte» non poteva a meno di rivelarsi l’infinita vanità del tutto e, particolarmente, d’ogni sforzo umano, nel campo delle scienze e delle industrie, per la conquista di un’arida felicità terrena, grossolanamente riposta nei beni e nei diletti materiali, come quella a cui il nuovo secolo, «d’ora in ora dal cotidiano e dall’utile più visibilmente, più sfrontamente occupato», tendeva, sotto gli occhi del poeta, «pel cammin suo ferreo» Vede egli, pertanto, sotto, il «gelido fatto» di un tal mondo, «dove nei cuori è il lucro e tetro pallido è l’uomo», trasparire d’esanime scheletro», invano coperto d’argento e d’oro, mentre «l’ultimo poeta», che cantava ignaro la «divina grazia delle passioni», l’amore e la bellezza», contrapponendoli alla «vanità e vacuità della scienza», accolto da aspri cachinni, ammutolisce e fugge, cercando nella morte di Saffo libertà e solitudine!

Ma il pessimismo di Baratynskij, per quanto radicale e profondo, è tranquillo e sereno: nessuna enfasi in lui, non esagitazione di romantici gesti, non pose drammatiche. Il pensiero consolatore della morte, alla quale scioglie un inno, della morte che reca in mano «l’ulivo della pace e non la falce distruggitrice », ha virtù di rasserenarlo e di sorreggerlo, compie un miracolo di riconciliarlo persino con la vita.

E però Baratynskij non impreca, non si ribella al destino nè a Dio, non odia gli uomini, ma si rassegna al male e al dolore, cercando rifugio «nei canti delle Muse e in un’alta indifferenza». Egli chiama sè stesso il «cantore dell’impassibilità», della pace e del silenzio, «io non spero nè temo... Filosofo son io... Io solo cantavo le mie pene, i freddi versi respiravano dell’anima la fredda angoscia». Corazzato di questa indifferenza, che non è insensibilità, ma piuttosto pacato dominio del proprio cuore, Baratynskij sa in tutte le cose, anche nelle più amare e dolenti, trovare un significato e una giustificazione, ed in sè medesimo la forza di tutto comprendere e tutto perdonare. Anche «la sofferenza ci è necessaria: — egli canta — chi provata non l’ha, non può intendere la felicità!... Vita cafanno sono una cosa... A noi fan d’uopo e le passioni e i sogni, in essi è del vivere la condizione e l’alimento...»

Illuminato da quest’alta facoltà di comprendere, il pessimismo di Baratynskij finisce per l’amore della bellezza e del bene, la cui sede egli pone fuori di questo mondo, nell’infinito a cui tutti gli uomini aspirano. Gli uomini, infatti, non sono per lui che «della necessità inflessibile i ciechi schiavi, gli schiavi del dispotico destino», ed essi tutti si tormentano e si struggono su questa terra perchè, avendo conservato la memoria del «patrio cielo», e cioè della patria celeste, si tendono in una confusa brama, assetati di felicità, verso il mondo da cui furono temporaneamente sbalzati quaggiù.

Questa compiuta filosofia pessimistica di Baratynskij trovò espressione in alcuni volumi di liriche, due ne apparvero a Mosca nel 1835 e un terzo, dal titolo presago: «Il crepuscolo», nel 1842, ma le sue opere maggiori sono sei fra poemi e poemetti, dei quali assai notevoli, più che per pregi d’insieme, per singole bellezze, «Eda», «Il ballo», «La zingara», e «I conviti».

Il primo, di soggetto finnico, risale ancora al soggiorno militare fatto dal Poeta in quell’estremo lembo della Russia nel 1825. La favola ne è semplicissima: una fanciulla finlandese, una gentile creatura tutta mitezza e amore, sedotta e poi abbandonata da un giovane ufficiale russo, tanto se ne accora che muore: «Il ballo» e «La zingara» (nella prima edizione del 1831: «La concubina») furono scritti a Mosca, dove Baratynskij si era ritirato fin dal 1827, dopo essersi sposato e aver lasciato il servizio. «I conviti», felicissime descrizioni di scene dell’antica vita moscovita, che valsero all’autore il nome di «cantor dei conviti» e, da parte di Bjelinskij, quello di «cantore di Mosca», sono, più che un poema, un componimento per metà scherzoso e per metà elegiaco.

Di tutte le poesie di Baratynskij quella di cui Pùskin faceva il maggior conto era «Il ballo». Nonostante la sua trama più che tenue e assai simile a quella di «Eda» : un tipo ardente demoniaco di fanciulla che, abbandonata per un malinteso dall’uomo che l’ama si dà la morte col veleno, Pùskin lo giudicava frutto di un talento maturo e produzione eccellente, piena di originale bellezza e dì non comune leggiadria, in cui il Poeta aveva saputo fondere il tono faceto col passionale, la metafisica con la punta, arricchendo tutta la grazia e tenerezza elegiaca di questa con tutte le sfumature di quella.

In generale, Pùskin apprezzava altamente nel suo amico e coetaneo Baratynskij (che era noto un anno dopo soltanto), oltre all’armonia del verso, alla freschezza dello stile, all’espressione vivida e precisa, l’originalità del pensiero, e lo trovava originale innanzitutto perché pensava, perchè non era solo un poeta, ma altresì un pensatore: caso, in Russia, abbastanza nuovo e che anche successivamente non si ripeterà troppo spesso.

E «poeta del pensiero» lo definisce pure Bjellnskhij, il quali crede, però, di scoprire in lui un fondamentale dissidio fra pensiero e sentimento, che avrebbe, a parer suo gravemente indebolito la creazione di Baratynskij, vietandole di salire alle vette supreme dell’arte.

Senonchè occorre qui in primis osservare come l’insigne critico, che a più riprese si occupò dell’autore dell’«Utima morte» dopo averne dato nel 1834 e nel 1835, ai primi passi della propria carriera letteraria, nelle riviste « Molvà» (La Fama) e «Teleskòp» dei giudizi piuttosto severi e alquanto sprezzanti, sentisse onestamente il dovere nel 1842, giunto alla sua piena maturità, di tornare su quei giovanili apprezzamenti per sottoporli a profonda revisione. Della qual revisione, compiuta in un vasto saggio consacrato a Baratynskij su gli «Otèceatvonnyja Zapìski» (Annali Pàtrii), fu risultato ultimo l’esplicito riconoscimento, non solo dell’artistica finitezza e perfezione di non poche liriche del Poeta, fra le altre quella «In morte di Goethe», salvo solo qualche appunto d’imprecisione e d’indeterminatezza nei concetti, ma anche del «primo posto che incontestabilmente spetta a Baratynskij fra tutti i poeti apparsi insieme con Pùskin.

In quanto, poi, al preteso dissidio baratynkijano, di cui Bjelinskij precisamente in questo ultimo e più approfondito studio sviluppa l’analisi, ci sarebbe facile mostrare, se ce lo consentisse lo spazio, come le censure del critico le quali s’appuntano essenzialmente contro quello che oggidì si direbbe l’anti-intellettualismo di Baratynskij (contro la sua esaltazione della vergine e ignara natura in contrapposto alla fallacia della scienza e del progresso contro la sua interpretazione della «vita come preda della morte», della «ragione come nemica del sentimento» e della «verità come distruggitrice della felicità» per valerci delle espressioni stesse di Bjelinskìj), come quelle censure abbiano, in fondo, radice in preoccupazioni d’ordine pratico-sociale, sopra le quali la crìtica russa, come fu già da altri notato, di rado seppe elevarsi e che assegnano all’arte, come sua finalità giustificatrice, una qualche speciale e sia pure elevatissima missione civile, una che ben poco han da fare con la critica estetica, quale oggi noi l’intendiamo.

Alfredo Polledro.


G. B. PARAVIA & C.

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diretta da C. CAVIGLIONE

ROSMINI A. - Introduzione alla Filosofia.


Parte I - Discorso sugli studi L. 7,—

II - Dell’Idea della sapienza 7,50

III - Sistema Filosofico 7,—

IV - Lettere filosofiche 8,—

Di quest’epoca di A. Rosmini, la quale è dai Programmi scolastici proposta per i Licei Classici (Estratti), «per gli Istituti Magistrali (Parte III, Sistema filosofico), dopo la prima edizione del 1850, diventata rarissima (non si trova che in biblioteche pubbliche o private), questa è l’UNICA EDIZIONE INTEGRALE. Essa è curata da CARLO CAVIGLIONE che aggiunse utili Prefazione, Sommarii, Indici e, alla Parte III, opportune note dichiarative non che riferimenti alle altre opere rosminiane.

E’ pubblicazione utilissima agli insegnanti i quali dovendone commentare gli Estratti s’avvantaggeranno assai del possesso dell’opera integrale,