Il Baretti - Anno II, n. 15/Un servo padrone
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UN SERVO PADRONE
Di Jvàn Cankar, scrittore sloveno, morto a Lubiana nel 1918, a 42 anni, esce era tradotto in italiano un racconto: Il servo Bertolo e il suo diritto (Trieste, Casa editrice Parnaso) che merita anche da noi ogni fortuna per la purezza epica della linea onde la breve narrazione procede evitando così gli inconvenienti dell’arte di colore come quelli della comune letteratura a tesi. Lo Cankar, in realtà, affermano i traduttori I. Regent e G. Gusaek, fu scrittore «sociale» che si propose molto spesso fini di edificazione se non proprio religiosa, certo nell’ordine di una morale libertaria; qualche cosa, a giudicare da questo saggio, che ricorda in certo modo l’arte programmatica dell’ultimo Tolstoi. Ma il Servo Bertolo non cade nel genere edificante o «a chiave» appunto per l’altezza semplice e nuda a cui la narrazione si mantiene, o che non ci sembra di poter definire altrimenti che riferendoci ai caratteri dell’epica vera o propria.
Ai sempre risorgenti vagheggiatori del «contenuto » in arte noi vorremmo obbiettare che anche l’armonia punto traducibile in parole critiche dei valori fantastici, forma un altro contenuto ben altrimenti sottratto ad arbitri e presunzioni. Fuori di questo campo, in cui gli incompetenti vedono poco più che un giuoco di specchi o una fumata di tabacco oppiato nessuna distinzione è più possibile tra poeta e fabbricatore di sermoni.
Ivan Cankar si addimostra dunque artista prima che pensatore e’ propagandista. Con ciò non destituiamo certo l’arte sua d’ogni virtù di pensiero. E’ anzi una bella fortuna per un’idea, il potersi giovare di forme tanto pure; ed è forse una sanzione di una natura che ci sfugge questo fiorire, che talora si osserva, di parole necessarie dalla penna di un artista galantuomo; un compenso di cui si può valutare il pregio anche solo nell’ambito delle linee e delle forme e che gli eversori del buon gusto, gli screditati profeti dei nuovi mondi non conosceranno mai. E spendiamo due parole su questo racconto dello Cankar.
Bortolo è il vecchio servo del vecchio Sitar, un proprietario di Betaynovo. Da molti anni Bortolo ha dedicato l’opera sua ai terreni di Sitar: li ha arati, mietuti, falciati: vi ha edificato sopra, ha diretto lavori e lavoratori. La proprietà di Sitar, si può ora affermarlo con tutta giustizia, è opera sua, ed è sua cosa. Tale il sentimento di Bortolo, il quale tuttavia è fedele al suo padrone, pago dell’affettuoso riconoscimento che questi gli concede e del posto accanto al focolare, che divide con lui. La giustizia non è finora turbata, una legge silenziosa governa le ore del padrone e del servitore.
Muore Sitar e tutta la sua proprietà trapassa a Sitar il giovane che mai ha dedicato a queste terre un’ora della sua oziosa adolescenza. E’ giusto tutto ciò! Nell’ordine reale delle cose forse non lo è, pensa Bortolo e con lui l’autore; ma in quello ideale può bastare che il nuovo padrone riconosca questa ingiustizia e, pur assumendo la proprietà di tutti i beni, riconosca, anche con un sol gesto, una sfumatura di voce, il diritto del servo. Ristabilito questo superiore equilibrio, Sitar avrebbe di certo in Bortolo il più fedele dei dipendenti.
Avviene invece ben altro. A Bortolo, Sitar fa intendere subito con freddezza che il tempo della «confidenza» è passato, e che è necessario ormai ch’egli si ricordi di essere un servo. Ecco quello che accade dopo alcune aspre scene che precedono:
— «Levami gli stivali! — disse (Sitar) in tono di comando a Bortolo.
Questi non rispose, ma si sedette sulla panca, riaccendendosi la pipa, che gli si era spenta.
— Levami gli stivali!
— Sei ancora in vena di scherzare! — disse Bortolo flemmaticamente, mandando boccate di fumo. — Tutto ancora ricorda la morte in questa stanza: inginocchiati, piuttosto, e prega! E s’inginocchiò davanti al crocefisso. Il padrone lo guardava bilicosamente, fumando la pipa e sputacchiando; e stette cosi, senza dir parola, finchè Bortolo non ebbe finito di pregare.
Bortolo ai alzò e, guardando a terra, s’accinse ad uscire.
— Bortolo! — gli gridò Sitar.
Bortolo si fermò, tenendo con una mano la maniglia della porta.
— E’ troppo! — esclamò Sitar, e la pipa gli tremava nella mano. — E’ troppo! Ora basta: cercati un altro padrone!
Bortolo, per tutta risposta, rise di gusto, ammiccando con gli occhi!
Sitar pestò i piedi sulla panea.
— Come?
— Sei diventato sordo? Ho detto che ti devi cercare un altro padrone! La misura è colma: e ora che tu finisca di spadroneggiare in questa casa!
In quel momento un lampo balenò le nere nubi: da lontano si udì il rombo del tuono. Bortolo si scopri e si fece il segno della croce.
— Che Dio ci preservi da tutti i mali. Bada di non peccare giovanotto; raccomandati a Dio ed al tuo santo protettore!
Aprì la porta, uscì e salì nel fienile, dove si coricò sul fieno, ed essendo stanco subito si addormentò. Allora tutte le cupe imagini se ne andarono dal suo cuore.
I tristi ricordi se ne vanno dal suo cuore, perché la fede è ancora viva in lui. Forse il padrone è ubriaco; e l’ora triste passerà. Ma il risveglio non porta ore migliori con sè. Bortolo deve andarsene per sempre, l’ordine esiste ancora. Da questo momento ha inizio l’altro risveglio di Bortolo: il suo affacciarsi inesorabile e continuo all’ingiustizia del mondo.
Bisogna chiarire subito questo punto: non è la perdita del focolare e del tetto che accascia il servo; l’una e l’altra cosa egli potrebbe facilmente riavere. Sitar non è un uomo peggiore di tanti altri, e saprebbe perdonare. E’ la perdita del senso della giustizia, in lui vivo formidabilmente.
Al consiglio che più d’uno gli dà, di umiliarsi al padrone e chiedergli scusa, egli oppone il più deciso rifiuto. Cacciato lui, Bortolo? «Cacciato! Come può un servo cacciare il suo padrone? Chi gli ha fatto si grande e ricca quella casa? Egli o io? Chi ha diritto di dire: Mettiti il fagotto sulle spalle e vattene!» —
A questo punto comincia la via-crucis di Bortolo in cerca di giustizia. E in linee semplici stilizzate, di racconto sacro, procede la narrazione. Il ridicolo è sempre vicino, e non è toccato mai. Non c’è un dettaglio stonato, una caduta nel «bozzetto» o nel «pittoresco». Non ci voleva meno di questo per non turbare la coerenza di una composizione arrischiata che sforza fino al paradigma i limiti di una persona vivente senza venir meno al suo contatto con la realtà.
Ora la fede di Bortolo s’arricchisce, anzi che mancare, ad ogni negazione, ad ogni contrasto. Il dolore e la sconfitta non sono che il prezzo del riconoscimento futuro; la stoltezza e la nequizia devono esaurire la loro possibilità prima che il miracolo della giustizia trionfi. Respinto che sia, anche nella logica confusa d’un vecchio servo, questo prodigio dall’ordine dei fatti usuali, a quello degli imponderabili, ogni avversione dà forza s’anco il risveglio debba concludere in un crollo. Su codesto filo di rasoio Cankar ha condotto il suo racconto, con una sicurezza di piglio e di risultati che pongono questa operetta sua tra le più degne di riguardo fra quante ne sian venute a nostra conoscenza negli ultimi tempi.
Ora sono altri contadini, altri «servi», che contestano a Bortolo il suo diritto, e gli consigliano di prostrarsi al padrone; indi i fanciulli che passato un istante di curiosità, lo feriscono a sassate, tra dileggi; poscia il giudico del paese da cui riottiene l’usato consiglio, non senza risa e motteggi.
Più tardi, a Lubiana stanco, ferito, lacero, ma fermo nella sua fede che non vacilla s’anche i personaggi del «coro» (lo studente, la donna con la neonata cieca) cerchino di persuaderlo che giustizia non vi ha in terra nè in cielo, egli si presenta ad altri giudici, e riceve ancora il noto avviso:—
« — Ritornate dal vostro duro ed ingiusto padrone e ditegli: Sii giusto e misericordioso, dammi un posticino nella tua casa ed un pezzo di pane, ora che sono vecchio! Parlategli così, e vedrete che si commuoverà, riconoscerà il proprio torto ed esaudirà la vostra preghiera. —
E’ toccata qui l’ultima possa della giustizia umana: esiste in queste parole un qualche riconoscimento del diritto del servo. Cankar non ha forzate le tinte a beneficio della sua tesi pessimista. Non ne aveva alcun bisogno. Cotesta soluzione non può ristabilire in nessun modo l’equilibrio invocato. Ed è giusto che a tali parole rimanga il vecchio «come annichilito» e chieggia con degno:
— Ma siete voi proprio un giudice?
Ed ecco Bortolo afferrato e trascinato in una lurida cella insieme con un ladro. La fede intatta del servo desta l’ammirazione e le risa del furfante: — «Quando ti rilascieranno, Bortolo verrai con me! Ti esporrò a tutto il mondo come una curiosità; ti menerò per le fiere, per le sagre, dove ti metterò in mostra al popolino. Vedrai che affaroni faremo! —
E a lui Bortolo: — «Di te pure Iddio avrà compassione; anche tu ti genufletterai un giorno e piangerai! Il cuore è più tranquillo nel pianto, che nel riso: le lagrime purificano dal peccato e dall'ingiustizia?»
Rilasciato dopo parecchi giorni, ecco Bortolo, cui frattanto una effigie dell’Imperatore scorta casualmente ha persuaso a un estremo tentativo, salire su un carrozzone ferroviario, e giungere alla babele viennese. Vedilo vagabondare tra la moltitudine, camminare a fatica, oppresso dagli anni e dagli stenti. Non tarda molto che un uomo in uniforme si accorge di lui, o lo trae con sé; e di lì a poco il vecchio ripete la sua storia dinanzi a un uomo provveduto di barba e di occhiali. Ora si vedrà se è davvero vicina l’ora della giustizia, se può spegnersi veramente la luce del sole; se Bortolo ha davvero superato tutti in astuzia, e prestato ascolto soltanto alla voce divina.
La risposta par giungere, e consiste in parecchi altri giorni di cella; dopo dei quali il vecchio è prosciolto, e fatto accompagnare a Resye, suo paese natale. Al sindaco che si spaventa in vederlo, Bortolo nulla chiede se non un poco di paglia per riposare; e rimasto solo parla a Dio «come parla il creditore col debitore».
All’alba seguente l’incammina, e giunge sull’ora del tramonto a Betajnovo.
Al suo parroco, uomo misericordioso che gli ridice la parola del perdono, Bortolo non parla di pietà e di giustizia. E’ tempo di sapere se Iddio è con lui o coi birri. Finche in un vento di furore che s’abatte per lui, il dubbio investe di colpo la certezza: — Esiste o non esiste la giustizia! C' è un Dio? A queste parole il parroco tende la meno, discaccia il bestemmiatore; e Bortolo va, con passo ormai sicuro; e dal suo cuore scompare ogni sentimento di amarezza e di fede.
Poco dopo, nella notte, una fiamma s’alza dalla casa di Sitar, un vasto incendio alimentato dal vento tocca il cielo. Accorrono i villani e guardano, tremanti e sbigottiti, a capo scoperto, l’indomabile fuoco. Che fare ormai! D’un tratto un uomo appare in mezzo a loro: è Bortolo, lieto e sorridente; con le mani e i capelli abbruciachiati. Parla tranquillo: — «Sono andato a prendermi la pipa, miei cari! Non volevo che si bruciasse la mia pipa, che dimenticai di prender meco, quando mi misi in cammino...».
Una voce di sdegno corre tra i contadini: — «E’ Bortolo l’incendiario!» — Tutti gli si buttano contro: «Colpitelo!» Lo afferrano e lo percuotono con tizzoni ardenti e scarponi imbullettati.
«Lo rialzarono di peso, lo portarono, tutto pesto, insanguinato ed abbruciacchiato, e, dopo averlo dondolato come un sacco, per dargli slancio, lo gettarono nell’incendio: le faville guizzarono ancor più alte, dalle fiamme. Quando i carnefici di Bortolo uscirono dal fuoco, avevano le mani ed il viso anneriti. Quest’è successo a Betajnovo.
Iddio abbia pietà di Bortolo, dei suoi giudici e di tutti i peccatori».
Termina così questa cupa storia. Da un riassunto, quale il presente, tutto va perduto di quel ch'è continuità di linea, impostazione e risoluzione di temi: svanisce l’organismo musicale o restano in evidenza le parti più ambigue, gli sviluppi più pericolosi.
Si allude qui a parti e svolgimenti del dato ideologico. Che certo, si dovrà chiarir meglio questo punto, l’interesse della novella è reso assai meglio dai modi che non dal fondo. E’ l’intonazione, infine, che riscatta il pretesto. Qui non è perciò da ricordarsi qualche altro esempio di parabola dove trovi coerenza soltanto sotterraneamente, in certo disordine di linee. Ma stabilita questa distinzione null’altro pare a noi di dover domandare. Non ci era facile trovare uno scritto d’arte di un «genere» più lontano di questo dalla nostra capacità di simpatia; altrettanto difficile ci pare ora, nel concreto, ricordare molti racconti ch’escano meglio vittoriosi dalle angustie delle definizioni e degli schemi.
Eugenio Montale.