Il Baretti - Anno II, n. 14/Joan Maragall

Poeti catalani: Joan Maragall

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Poeti catalani:

JOAN MARAGALL

1860-1912

Nato e morto a Barcellona. «Pochi uomini hanno ispirato una più generale simpatia» dice Joaquim Ruyra, che nel suo prologo alle opere complete del poeta ha fatto dello spirito e della figura di questi una inarrivabile descrizione. Del Ruyra sono anche queste parole rivelatrici: «Maragall era più anima che corpo. La sua faccia di una chiara adustezza, nell'impeto d'una emozione qualsiasi si coloriva d’un subito rossore quasi luminoso, simile a un’aurora che invade un pallido cielo, e ciò, unito allo splendore degli occhi e all’esalazione fulgida del sorriso, gli dava una specie di trasparenza che accusava una fiamma interna; si sarebbe detto che attraverso la fragile materia si dilatasse intorno il tempestoso spirito».

Joan Maragall portò allo poesia catalana respiro nuovo: d’un uomo che, vivendo nella città turbinosa, rimpianga la semplicità primitiva della campagna e — in un clima più alto — d’un essere appassionato delle cose terrene che si sente commosso in tutto lo spirito da una corrente di alto misticismo. Egli era un fervido adoratore della divinità e voleva trovarne il riflesso puro nella bellezza, la quale gli si offriva quasi sempre in forme viventi. Lo scrittore Ramon-Maria Tenreiro — che ha fatto un’ammirevole analisi del talento poetico del nostro artista — lo ha detto: «Maragall ama tanto più gli esseri vivi, quanto più spontanea è la loro attività, anche se diretta per vie errate», e ricorda a prova di ciò talune composizioni maggiori del poeta quali Fra Gari e il Conte Arnau. Da questa doppia natura del suo temperamento il poeta derivava le due vene gemelle del suo lirismo: la divagazione spirituale — che in lui aveva sempre la geniale imprecisione d’una illuminazione divina — e la descrizione poetica e calda della terra. Il poeta Diaz Canedo ha compreso e rivelato come nella poesia maragalliana le leggende non siano che una derivazione del paesaggio. Queste due correnti liriche, che nella produzione del poeta barcellonino si alternano, si ritrovano unite nella grande tela del Conte Arnau, nei versi fervidi di «Escolium» e un ultimo lampo di genio le fonde mirabilmente nel «Canto spirituale».

Il Maragall non riconosceva altri limiti estetici oltre quelli costituiti dalla sua emozione interna. Per lui l’emozione era tutta la poesia e la poesia il centro stesso della sua vita. Fu un avversario della rettorica, proclamando il potere parola viva contro la disciplina della metrica e che l’ideale della poesia è quello di «suggerire tutto un mondo con una sola parola». Teorizzava che in poesia il concetto nasce dal ritmo delle parole e che compito del poeta non è dire cose nuove, sibbene scoprire l’ignota meraviglia delle cose note; e ciò perchè egli considerava e sentiva il momento della creazione poetica come un momento di grazia.

Nata al calore d’una fervente visione delle idee e delle cose, la poesia maragalliana non poteva non rivelare la sua interiore inquietudine, e da ciò viene ad essa poesia quel che di commosso che prende il lettore come un’apparenza di vita intensissima sopravvivente nel nesso delle parole.

Maragall fu poeta aperto a tutte le correnti dello spirito, uno dei più grandi del nostro tempo, secondo Unamuno. Era in lui l’avidità delle forme belle, desiderata dissetarsi a tutte le acque per trovare in tutte la stessa freschezza e voleva raccogliere la scintilla che arde in ogni idea. Ma gli mancò l’istinto dell’analisi il che gli vietò di conferire forma di speculazione concreta ed ordinata al suo pensiero. Le sue teorie furono la giustificazione e l’esplicazione più giusta della sua natura. All’incapacità analitico-critica oppose la forza d’emozione. E quando il ritmo gli saliva alle labbra, sembrava che si trasfondesse nel suo canto una febbre sacra. Perciò Manuel de Montoliu ha potuto chiamarlo poeta dionisiaco e dire che la sua poesia è «la scuola delle grandi divinazioni e delle grandi incoerenze».

Ci immaginiamo il Maragall egualmente devoto a Novalis e a Goethe (di cui fu il traduttore): la sua immaginazione oscilla come una fiamma tra le due fornaci accese dai due grandi tedeschi. Tuttavia egli appartiene a quella specie di poeti che non possono essere giudicati con un definitivo e completo giudizio dai contemporanei i quali subiscono ancora il fascino della loro grandezza.

Cesarino Giardini.

Opera: dopo la morte di Joan Maragall fu pubblicata l’edizione completa delle sue opere in undici volumi. Cinque formano la serie catalana e sei quella castigliana.

Serie catalana: vol. I - Poesie, Visioni e canti, Le disperse, Al di là, Sequenze. - Vol, II - Nausica, Canti omerici, traduzione della Prima olimpica di Pindaro, Ton e Guida, Frammenti dell’Enrico d’Ofterdingen di Novalis, frammenti del Così parlò Zaratustra e altre traduzioni. Voll. III e IV - Scritti in prosa (Note autobiografiche, Prologhi, Elogi, Discorsi, Necrologi e Scritti diversi) - Vol. V - Traduzioni dal Goethe: Ifigenia in Tauride, Faust (parte I°), ecc, ecc.

LE NUVOLE DI NATALE


Non so quale secreto faccia dolci
le nubi di Natale che nel cielo
non portano tristezza. Nel purissimo,
azzurro stanno come un tenue velo
che s’accende alla luce del tramonto
e lascia a notte scorgere le stelle.

Veder brillare gli astri tra le nuvole
è la più bella delle cose belle.

Tenebre di Natal, non siete tenebre:
io vedo meglio in voi che nel più limpido
giorno. Oh! notte che passi silenziosa!
Nubi che sulle stelle trascorrete!
Luce che ovunque splendi e non hai luogo!
Oh! Stalla di Betlèmm che ovunque sei!


Quando vogliate rallegrarmi il cuore
parlate dei Natali nuvolosi
e mi vedrete simile al fanciullo
che sorride nel sogno a ciò die vede
meravigliosamente ad occhi chiusi.

CANTO SPIRITUALE


Se il mondo è tanto bello per chi sappia
guardarlo, gli occhi pieni della pace
vostra, Signore, che di più potreste
darmi in un’altra vita?

Perciò sono
geloso dei miei occhi, del mio volto,
Signor, del corpo che m’avete dato
e del cuor che vi palpila incessante-
mente... perciò temo così la morte!

Con che sensi diversi mi farete
valere questo cielo azzurro sopra
le montagne e l’immenso mare e il sole
che scintilla su tutto?

A questi sensi
date l’eterna pace e non vorrò
altro cielo che questo cielo azzurro.

Non comprendo colui che disse «fermati!»
solo al momento della morte, chè
ogni giorno io vorrei fermare tanti
istanti di bellezza e farli eterni
dentro il mio cuore.

Forse «fare eterno»
è già la morte? E allora che sarebbe
l’esistenza? Soltanto l’ombra, forse,
del tempo che trascorre, l’illusione
di ciò ch’è presso o pur di ciò ch’è lunge,
l’ingannatore compiuto del molto
e del poco e del troppo? ingannatore
perchè il tutto è già tutto.

Che m’importa?
Sia come sia, la terra su cui vivo,
così vasta e diversa e transitoria,
questa terra, con tutto che vi ha un nome,
Signore, è la mia patria. E non potrebbe
essere anche una patria celestiale?
Uomo sono ed è umana la natura
di quanto posso credere e sperare:
se qui, Signor, si ferma la mia fede
e la speranza mia, me ne farete
una colpa nel cielo?

Io vorrei essere
anche nel cielo, tra le stelle, uomo.
Se fatto avete agli occhi miei si belle
tutte le cose; se per esse avete
fatti i miei sensi e gli occhi miei, perchè.
Signor, volete chiuderli e obbligarli
a speculare un altro «come»?

Invano,
poiché nessuno avrà per me lo stesso
valor di questo che possiedo.

Io so.
Signor, che sono; ma ove sono chi
potrà dirmelo? Tutto quel ch’io vedo
a me d’intorno e in me si sintetizza
vi somiglia... Lasciate dunque ch’io
possa credere d’ esser qui... E allorché
giunga l’ora ch’io temo, in cui si serrino
questi occhi umani, apritemene due,
Signor, più grandi
per contemplar la vostra faccia immensa.
Siami la morte nascita più grande!


LA VACCA CIECA

Ora in un tronco ora nell’altro urtando,
guidata dall’istinto, verso l’acqua
sen va la vacca solitaria. E’ cieca.
Un garzone di stalla con un sasso
malamente lanciato le accecò
un occhio; un velo scese sopra l’altro:
la vacca è cieca. A bere ella si reca
come faceva un tempo alla sorgente,
ma non col passo fermo d’una volta
nè con le sue compagne. Ella va sola,
Le compagne per valli e per alture,
pel silenzio dei prati, presso il fiume,
fan tinnire i sonagli mentre pascolano
a caso l’erba fresca... Ella cadrebbe.
Urta il muso nell’abbeveratoio
e rincula spaurita; ma ritorna
e abbassa il capo verso l’acqua. Beve
tranquilla. Poco beve, senza sete.
Poi alza al cielo con gran gesto tragico
la testa gocciolante; un poco sulle
morte pupille battono le palpebre;
toma nel buio, sotto il sole che arde,
per la via sconosciuta, dondolando
languidamente la sua lunga coda.