Il Baretti - Anno II, n. 13/Rilke
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RILKE
La Germania si può dire possegga una vera e propria tradizione di lirica religiosa. La riforma avea dato nascimento alla innica di Lutero, come al corale protestante, alla poesia intima familiare, come a quella della comunità orante nel tempio. Il diciasettesimo secolo fulge della diade Federigo von Spec - Angelus Silesius. Il «Peregrino cherubico» di Silesius supera però le opere consimili dell’epoca per un più deciso partecipare dell’anima ai tormenti terrestri del Verbo fatto carne, per un più sentito tremore dinanzi alla rivelazione ineffabile.
In cospetto dell’oceano senza prode del Divino, della Quiete sovraceleste, l’anima, assorta, scopre la possibilità dell’amore nella similitudine d’essenze che attua una ascensione mistagògica verso il grembo d’ogni luce, il focolare d’ogni vampa.
«Il Signore è in me il fuoco: io sono il riverbero;
non siamo noi forse intimamente affini?
La rosa cui il tuo occhio esteriore s’affisa,
non ha forse fiorito in Dio, sin dal cominciamento?
Noi preghiamo sia fatta a Signore, la tua volontà:
ma, ecco, il Signore non è volontà:
ben esso è una quiete perenne...».
Cosi Angelus Silesius, che esprime forse la vetta più alta della lirica mistica, del viaggio e delle ambagi d’uno spirito alla ricerca del porto oltresiderale.
L’epoca moderna segna un rigoglio potente della poesia religiosa: esso corrisponde, del resto a un intimo bisogno dell’anima tedesca. Il popolo germanico traversa oggi una crisi tremenda; e necessità imprescindibile di vita è per esso, l’ideal cibo della speranza.
Se la maggior parte dei conterranei guarda a Rainer Maria Rilke come ad un segnacolo, è, più che per la portentosa perfezione dei suoi canti impeccabili, per quello che in essi manifesta di fiducia inconcussa un’anima che ha sopravvinto il dissidio interiore e conciliatolo in una realtà superna.
Ascoltate questo frammento encomiàstico che ha tutta la musicalità solenne d’una passacaglia per l’organo di Pachelbel, o di Buxtehude:
«Tu sei il futuro, l’aurora augusta
sulle piane dell’Eternità.
Tu sei il grido del gallo che segue la notte degli (anni,
la rugiada, il matutino idromele, l’ancella,
lo straniero, la madre, la Morte.
Tu sei l’imagine perpetuamente trasmutàntesi,
che, ognora solinga, emerge dal Destino,
che rimane pur sempre non celebrata, non deplorata,
non descrivibile, come un forteto selvaggio.
Tu sei il profondo compendio degli esseri
che tace tuttavia la parola postrema di sua essenza,
e in ogni ora si rivela diverso:
al naviglio, in parvenza di lido,
ed al lido in parvenza di naviglio.
Tu vieni e vai. I serrami si chiudono
dietro di te senza un soffio.
Tu sei il più leggero di tutti,
di tutti quelli che disfiorano le case leggere.
L’anime posson farsi sì assuete al tuo solco,
da non distoglier lo sguardo dal libro
allor che le sue figure s’illeggiadriscono,
inazzurrate dalla tua ombra;
poi che tutte le cose ti riecheggiano,
or sommesso ed or sonoro...».
Ed in tale securità tranquilla, tramontano la nostalgia ed i desideri, di cui il Poeta ha già cantato:
«Ecco la nostalgia: rimaner saldo tra il flutto,
e niuna patria possedere nel Tempo.
Ed ecco i desideri: bisbiglio
dell’ore cotidiane dialoganti con l’Eterno».
La vita dello spirito s’esalta, nimbata di splendore, le potenze individuali si moltiplicano e dilatano:
«Niuno può dirmi fin dove s’estendano i limiti
(della mia vita:
s’io non sia anche la forza dell’Uragano,
o l’onda d’un lagume,
o una delle pallide, delle scialbe
bètule che tremano nel vento gelido di primavera».
Rilke è senza dubbio il più grande melopèo del momento. Qualche cenno biografico non è disutile.
Nato in Boemia, a Praga, nel 1875, egli non tradisce il suo nascimento in quella che Wagner dice - la terra degli arpeggiatori e dei cantori nomadi».
Trascorre gli anni di fanciullezza a Monaco, a Vienna, a Berlino. Viaggia. Frequenta, per un certo tempo, a Parigi, i cenacoli del simbolismo. Diviene amico e segretario di Rodin. Visita la Russia, nelle cui vastità immense affina le sue doti percettive già così singolari, e l’Italia che gl’inspira le più luminose canzoni.
La produzione che Rilke ha al suo attivo è considerevole. Si tratta, in complesso, contando anche i «Sonetti ad Orfeo», apparsi recentemente, di una decina di volumi di lirica, oltre le novelle e i saggi di critica d’arte.
Se si vuole, Rilke è un crepuscolare. Ma non nel significato che il Borgese ha impresso al vocabolo. Crepuscolari, in Italia, sono, ognun sa, quei letterati del postdannunzianesimo, che idoleggiano una poesia del tutto morbosa, odorata di garze intrise e di sornacchi sanguinolenti. Crepuscolare, Rilke, poi che la sua sensibilità sembra essersi aguzzata per un diuturno spiar i minimi rumori, i più impercettibili strepiti delle cose nel tempo che comincia a stendersi sopra d’esse il mantello della tenebra. Allorquando esse cominciano a fiatare e a viver la lor vita verace.
«Quanto più il giorno s’approssima, con gestì
sempre più stanchi, al vespro,
tanto più tu ti disveli, o Signore.
su, in alto, da tutti gli émbrici».
Il Poeta è perennemente in ascolto: si potrebbe applicargli la parola di Euripide: «divina è l’ombra».
Esiste di Rilke un ritratto, opera di Oscar Zwintscher, a Dresda, che lo coglie dinanzi ad una finestra già opacata dalla sera, con grandi occhi aperti, in attitudine di origliare. E’ questo il gesto che informa di più la sua lirica. Recline profondamente sul polso delle cose, egli giunge ad unificarsi con esse, a prestar loro il proprio respiro, ad udirne le musiche più segrete:
«Se ti diporti fuori, lungo il chiuso,
s'è divietato scorgere le gèmmee
rose stellanti i viali del giardino:
ma, nella tua fede profonda,
puoi sentirle, si come
fanciulle che s’avvicinino.
Elle avanzano a coppie,
recingendosi ai fianchi:
e le vermiglie cantano sole;
poi prendono a melodiare le bianche,
lievi, sommesse, con i lor profumi».
Nell’intenso perscrutare il regno delle tenebra, nel frugarlo in ogni senso, permearlo in ogni flessura, per registrarne nell’anima ogni vibrazione più tenue. Rilke diviene uno strumento mirabile, una eolia arpa sospesa:
«Quando gli orologi
bruiscono prossimi, come
bruiscono nel mio proprio cuore,
e le cose, con tremule
voci, si domandano:
— Sei là? —
Allora io non son colui
che si ridesta col mattino,
e la Notte mi dona d’un nome
cui niuno di quelli
che ragionarono meco nel giorno
ascolterebbe senza terrore.
Ogni porta dell’anima s’apre.
La puerizia m’è dinnanzi.
Molti, che anzi me vissero,
e lottarono lungi,
s’ordirono in me.
Allora, converso
a te, dico piano:
— Soffersi:
m’odi? —
E qualcuno, che m’è ignoto,
fa eco e rimurmura...».
Non è forse nella breve lirica seguente il brivido come d’un mistero impenetrabile e desolato?
«Una strada abbagliante
che va a smarrirsi nella luce,
grevità del sole sui vigneti,
e d’un tratto, come in un sogno,
una porta,
scavata in pareti invisibili.
Il legno dell’usciale
è da gran tempo consunto:
tuttavia, pervicaci,
durano sulla cèntina
l’armi e il diadema principesco.
E se tu entri, sei ospite.
— Di chi?
E riguardi, rabbrividendo,
sul paese selvaggio...».
Anche quando il Rilke descrive un fatto svolgentesi, un reale in atto, come ne le «Clarisse»; osservate come tra il Poeta e lo spettacolo, o, nel caso tra il poema e l' antifona, interceda quasi un velame. Traverso questo velame, le linee i suoni i colori son più presagiti congetturati supposti, che riprodotti direttamente. La voce delle clarisse che cantano si trasforma in una moltitudine di volti proprio per il processo medesimo per cui ad un cieco, l’eloquio d’una persona si trasmuta nelle immaginate fattezze di questa:
«Fu il mio sangue
che sussurrò, d’un tratto, più sonoro!
O fùr le clarisse che entrarono
dietro la grata del coro?
Esse non han per anco incominciato.
Forse, non son per anco quivi, desse
che niuno mai vide,
se non le madonne dei tre altari
Ecco che, impreciso, lontanissimo,
giunge un suono:
e vanisce.
Poi, di nuovo, scalpiccio,
trepestìo, come
d’un recedere e d’un genuflettersi;
la porta cigola sui cardini,
sbarrandosi dietro qualcuno
che giunse o che s’allontanò;
un po’ d’albore trema
sulle làmpade, come un cenno.
Ora cantano.
Cantano come da tempo,
con le lor povere bocche
stanche, avvinte al lungo inno,
strascicate da pausa a pausa;
cantano come da lunghi anni,
anni che furono senza
fine: cantano come
con quello che fu soffocato,
cantano come
con le lor chiome ...
Le lor voci hanno lievi
volti indistinti, quali
esse, nel giorno novissimo,
solleveran dai sepolcri.
E d’improvviso, su tutte,
unica, emerge, chiara, in alto,
una pallida lieve esigua voce;
e si tien, come il cavo
d’una conchiglia,
poggiata all’orecchio di Dio...».
Temperamenti di così esasperata interiorità, perfezionati dalla consuetudine con le melodie più sottili, percepiscono senza difficoltà quel fangoso «suono dominante che timbra di sè tutte le musiche versicolari della terra» di cui parla Ludovico Tieck.
E cominciano in tal modo, per Rilke, le ansiose domande. Il «Libro d’oro» e il «Libro delle imagini» documentano la ricerca d’una risposta. «Saper ascoltare, dice il Poeta, è riscattarsi. Io ascolto, e le lontananze mi disvelan cose che non posso tollerare senza amico, ne amare senza sorella . Breve è quello che noi combattiamo, grande, ciò che si avversa».
«Rattieniti, o mia più profonda
vita,
dal palese ascoltare e stupirti:
tu sai quello che voglia il Vento, prima
che le pioppe si crollino.
E se, a volte, il silenzio ti parlasse,
lascia che ti trionfi.
Cedi a ogni soffio:
desso t'amerà cullandoti.
Tu, sii vasta più sempre, anima mia!
E distenditi, come un solenne
vestimento, sulle cose che pensano».
«E perciò lasciamoci sopravvincere da quello che è sempre più grande. Impariamo dalle cose che umilmente raccolgono e rispecchiano in sè ciò che è più grande; dalle cose del crepuscolo, dalle cose che la parola dell'uomo difforma ed abbassa, chiamandole magari «casa» ed «albero». I Poeti, come i bimbi come le fanciulle, odon soli le cose cantare».
Rilke, rendendosi sempre più affine alle cose, si accosta sempre più al Senza nome. Il suo amore scopre, meravigliato, presso e lungi, l’anima propria e l'anima di Dio commiste.
Sorgono così gli «Engellieder» i «Canti degli angeli», le poesie forse più stupende, nella loro disadorna semplicità, di cui la modernissima poesia tedesca possa vantarsi.
«Da poi che il mio angelo non ha più officio
(alcuno,
da poi che il mio rude giorno l'espluse,
spesso inclina il nostalgico volto,
e il ciel gli divien grave.
Ei vorrebbe tutt'ora, in giornate di duolo,
sulla distesa sfarfugliante dei boschi,
recar le mie pallide preci
al paese dei sèrafi.
Ivi egli addusse il mio futile pianto,
e i miei crucci di bimbo
crebber ivi ad imagine di boschetti
ch'ora sovra il suo capo
sussurrano...».
«Se un giorno, nel paese della Vita.
nel rombazzo
delle fiere
e delle piazze,
io m’oblii del fiorito
pallore di mia fanciullezza;
m’oblii del mio custode angelo,
della sua veste e della sua dolcezza,
delle sue mani che pregano
e benedicono;
nei sogni più segreti,
pur sempre,
serberò l'imagine
delle sue ali piegate
dietro l'òmero, simili
ad un cipresso bianco...».
Werfel.
Franz Werfel è anch’egli un mistico.
La sua concezione dei mezzi per «compiersi celestialmente», per arrivare cioè allo stato di grazia religioso in cui il nascimento della poesia si può dir si confonda con l'atto del respiro medesimo, è però sensibilmente in divario con quella di Rilke. Questi ha ricorso alla sola contemplazione, a quella estasi che è liminare alla comprensione perfetta in cui s'attua la beatitudine trascendente: Werfel invece inscrive in testa alla propria opera le parole che Kundry pronuncia, genuflessa a detergere i piedi di Parcival: «esser ligia, servire...». Rilke aspira a dissolversi in una inattività contemplativa: Werfel pensa che è necessario «bruttarsi le mani di fimo» per esser degni di stendere sul mondo che aggela la coltre tepida d’una pietà consapevole al operante.
Egli ci conduce nel cuore della riotta espressionistica. L'espressionismo, per dirla con uno dei suoi teorici, è «il balzo dalla fisica alla metafisica, l'urgere delle forze creative verso ogni forma del mondo esteriore: il lor tumulto e la lor dissoluzione, attraverso l’elemento dionisiaco, nell'elemento amorfo». Esso appare tuttavia come una specie di neo-romanticismo, a tinta però decisamente attivistica.
La poesia è concepita come un arcobalestro sempre teso: ciò che non s'avvalla dai vertici partecipe dell'incandescenza, non vien preso in considerazione veruna. Non vale se non ciò che ha potenza di suscitare il grido. Bisogna ben dire che alcuni artisti non germanici avean, già tempo prima della formulazione di principi consimili, disgombrato e percorso le vie della contrada espressionistica. L'arte dello Seriàbine delle sonate ultime non è forse indiscutibilmente un inconsapevole portato dell'espressionismo?
Comunque, non ci sembra che, in paese tedesco, esso abbia dato, per ciò che riguarda la lirica, i frutti più sàpidi. Le poesie di Giogio Heim, e di Giorgio Trakl sono forse quanto di meglio gli si possa attribuire.
La Helmathkunst.
I poemi di guerra sono copiosissimi: una vera e propria alluvione: assai poco, per altro, v’è, che possegga una importanza reale. Perciò noi ce ne passeremo leggermente; agevoli a noverarsi sarebbero d'altronde le ragioni di codesta scarsità qualitativa.
Una tendenza che appare in questi anni or è poco trascorsi, e che perdura tuttavia, è quella d’un allontanamento sempre maggiore del fulcro berlinese; e una seguace insurrezione dei vari fumacchi di poesia provinciale.
E' la così detta «Heimathkunst», la cui manifestazione peculiare è costituita dalla ballata popolareggiante; e che ha, di certo, un significato molto notevole per il momento in cui esplica la propria azione. Sembra che tutta una stirpe voglia ritemprarsi alle linfe più schiettamente nazionali, per attingere, come Sigfrido con l’immergersi nel portentoso sangue di Fafnir, la forza e la volontà bisognevoli a sormontare un disastro cui, dopo quello della guerra trentenne, gli annali alemanni non registrarono mai l'eguale.
Elio Gianturco.