Il Baretti - Anno II, n. 13/George
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GEORGE
Con George fa il suo ingresso ufficiale nella letteratura militante un fattore di somma importanza, se per non nuovo, per lo svolgimento ulteriore delle lettere germaniche: vogliam dire l’internazionalismo giudaico. Il popolo eletto è venuto, man mano che s’insignoriva meglio del poter plutocratico, e che avvolgeva più stretto di suoi molteplici tramagli culturali la vita dell’organismo statale, ad acquistar in esso sempre più marcato rilievo. Un pronunciamento vero e proprio e quello manifestato in un opuscolo èdito da Maurizio Goldstein nel «Kunstwart», il 1912. Costui scriveva: «Or son più di cent’anni, caddero le barriere che ci rinchiudevano in una specie di ghetto spirituale. Quelli che son restati sì a lungo nell’ombra, si precipitano, affamati, sul festino imbandito. Noi ebrei amministriamo oggi il dominio spirituale d’un popolo che ci nega il diritto e la capacità di agire».
Gli israeliti hanno avuto ognora parte non trascurabile, del resto, nella vita intellettuale della nazione germanica.
Già nel grembo della scuola dei minnesiingheri, affiorano elementi giudaici; e potrebbe, chi volesse cercar con diligenza, rintracciar tracce visibilissime d’ebraismo nella lirica secentesca. Circa il 1870, i semi-ebrei Spielhagen e Heyse si può dire timoneggiassero la vita letteraria. Da allora l’influsso s’è mutato in una vera e propria infiltrazione sistematica, che attenta i fittoni stessi del frassino nazionale, e tende a reciderne completamente le ceppaje ancora capaci di germinare.
Quasi tutti i movimenti che susseguono il naturalismo sono di origine semitica. Gli scrittori tedeschi d’oggi riversano gran parte della colpevolezza della guerra e della rivoltura sociale sul predominio ebraico.
Il carattere di questa primazia è corrispondente a quello delle singole personalità che la attuano: ed è costituito dal prevaler della sensazione, del sensazionalismo. Nell’àmbito di tale tendenza, possiamo discriminar diverse filiazioni minori: l’estetismo, inaugurato appunto da Stefano George, l’erotismo, il perversismo, l’esotismo. Peculiarità del giudaismo è la interpolazione, il rimpasto, la manifattura drogata. Gli ebrei, come popolo in contatto con le culture più diverse, fanno l’estremo di lor possa per assimilar, trasformando, il succo nutritizio delle dapi servite alla mensa altrui.
Non è tuttavia legittimo ricorrere a questa similitudine parassitica per individuar l’arte di Stefano George.
Il simbolismo nascente negli anni che seguono il 1890, dovea subir l’influsso di Mallarmé, più che quello di Maeterlinck o di Verhaeren. Diviso tra due civiltà, oriundo di Rüdesheim, in contrada renana, George è il primo a subirne gli echi. Dopo d’aver trasmutato in favella germanica Baudelaire e Rimbaud, Swinburne e Rossetti, George tenta l’approccio di Mallarmé, cavandosene con varia fortuna. La sua opera attesta una derivazione chiara dal sistema dell’artefice gallico: analogia e indicazione, precisione e allusione, musica e silenzio, son valorizzati nella sua lirica con processi tecnici similari. E se, come vuole un critico francese di indiscutibile competenza, durante la lettura d’una pagina di Nietzsche a Mallarmé cadde in pensiero il suo emblematico «colpo di dadi»; George fu mosso, come appare, alla propria battaglia d’arte da più di un punto sottile della sottile dottrina del riformatore d’oltre Reno.
Vien voglia, per adombrar tale atteggiamento di arrecator di tesori alla ignavia distratta dei conterranei, ricordando, come si esprime Keats, che le melodie udite sono bensì dolci, ma più dolci sono quelle non udite, applicargli il famoso periodo delle «Divagations»:
«Riassumer con lo sguardo la vergine assenza sparsa in codesta solitudine: e, come altri coglie, in memoria d’un lago, uno di quei magici nenùfari che vi emergono d’un tratto, avviluppando del lor cavo biancore un nonnulla, composto d’intatti sogni, della beatitudine che non sarà mai vera e del mio àlito qui rattenuto per tema d’una apparizione, partir insieme con esso; tacitamente, remigando a poco a poco, senza infrangere col remo l’illusione; senza che lo sciabordar del sonaglio visibile di spuma, avvolto al solco della scia, gitti ai piedi d’un essere sopravvenuto la rassomiglianza traslucida del mio fiore ideale».
George è il fondatore d’un cenacolo ormai celebre, che pubblicava una rivista, dal titolo «Fogli d’arte»; esso raccoglieva quanto di meglio la giovine Germania potesse allora offrire in materia. Giungevasi al gruppo un preraffaellista squisito, il Lechter, in cui la spiritualità dell’anglicismo pittorico sembrava aver ricevuto una consagrazione quintessenziata; dipintore cui le pure sagome, delineate in istillizzazioni volutamente esili, estratte da ogni valore espressivo di peso corporeo, assentivano una specie di voluttà metafisica.
Riccardo Meyer per primo, nel 1897, rivela al gran pubblico codesto gruppo cenacolare i cui inizii George avea tenuto a celar sotto il triplice velo d’Iside del dispregio verso il vulgo profano. Nello stesso torno di tempo. George dà fuori le proprie opere in verso.
I capisaldi della teoria, studiosamente elaborata oltre che da George, anche da Paolo Gerardy e da Lodovico Klages, sono i seguenti. Anzitutto: violenta reazione al naturalismo, specie quello sociale. Sbandita la tendenza al filosofismo, la volontà di prolungar il raggio della propria azione sopra campi distanti; il miglioramento del mondo, la felicità degli uomini sono ottime cose, ma non pertengono alla poesia. Non è necessario, alla creazione lirica, il posseder una sistematica concettuale circa i rapporti dell' Universo. Tutta la letteratura che precede è morale (anche quella interdetta processualmente), borghese, popolaresca, istruttiva, programmatica, tendenziosa. Sgombriamo i varchi! Altra è l’arte d’oggi, che vuol soltanto evocare, suggerire.
E’ agevole veder qui, chiaro, qual fontaniere esperto sia George nel dedurre al proprio orto i rivoli del vivo fonte simbolistico. Per altro, più che con le vaporose armonie dei poeti francesi, i componenti del gruppo dei «Fogli d’arte», riconoscono le loro ideali affinità con l’opera d’un artista, che suscita un portento verace dalla essenza della sua stirpe, ed in cui trepidano, come in uno strombo canoro, gli echi delle melòdi marine: Arnold Böcklin. Essi si sentono quasi minor fratelli del grande pittore; e si propongono, come lui, uno scopo altero: esprimere, traverso un ritmo sempre perspicuo e quadrato, impalpabili sogni. I sogni delle rupi degli alberi d’ogni cosa vivente nel Tutto. Siamo quasi per toccare le dottrine dell’espressionismo: un millimetrico avvicinamento ed avremmo il combacio. George vuol mettersi in grado di percepir il radioso segreto degli esseri, viver ivi entro per ribalbettarlo, tremando d’emozione indicibile. Anche una propensione verso Novalis è irrefragabilmente palese. Il Poeta celebra la Notte con parole assai simili, nell'intimo senso, a quelle di von Hardenberg.
«O sacra Notte, o Tenebra santa, poi che tu ci riconduci a noi stessi, noi sentiamo, rabbrividendo, porporeggiare nell’anima nostra le corolle d’ogni vita. Ciò che noi suscitiamo di più ricco e di più profondo, il taciturno segreto delle gravi parole e delle lontane armonie, questo ci disvela, ignuda, ogni vita estranea. Soltanto quando ci è dato comprender noi stessi, ci è possibile abbracciar l’Universo».
Quale è tuttavia, l’origine della falsa concezione dell’arte vigente sino ad ora? L’aver posto mente più all’argilla che al figulo, l’aver posto in pregio più quella che questo. Scopo dell’Arte nuova è crear una vita che sollevi onde più alte che l’effettiva, e le cui necessità l’arbitrio dell’uomo sembri signoreggiare. Or ecco entrar in gioco l’antica dottrina dell’ironia in auge all’epoca dell’idealismo assoluto. «In questo cerchio di sensazioni suscitate dal sogno, l’artista è insieme il lottatore, il trionfatore, lo spettatore. Nella creazione, permane tuttavia la coscienza che le creature evocate devon la loro anima solo all’artefice, che esse obbediscon soltanto al suo scettro magico; e, dietro la commozione, sussiste, sommesso, ma osservabile, il vigile intelletto che stilizza». Mezzo d’espressione: un linguaggio puro, melodioso, severo, d’una bellezza potente, d’un grazia senza lenii. Le forme della tradizione tecnica son serbate scrupolosamente. Ma è richiesta un’austerità maggiore per quel che concerne i rapporti della rima e della assonanza. «La rima è un giocattolo pagato a troppo caro prezzo. Se il lirico vi ha ricorso una volta, non ripeta il gioco che di rado».
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Ed ora disaminiamo resultati ed applicazioni in George. Un egocentrismo assoluto spira dalle pagine dei suoi poemi. «Le vostre ombre, ritagliate in fretta, per adornarne le sale della mia memoria», suona la frase liminare d’una dedica. Una stilizzazione rigida, àlgida le più volte; arte di bolino, non di pennello flèssibile. Siamo nel bel mezzo del tepidario simbolista. La Natura è concepita come una nemica:
«Il mio giardino non sospira nè luce nè caldo;
il giardino che da me medesimo, un giorno, costrussi;
e gli stormi senza vita dei suoi allgeri
non han per anche conosciuto primavera nessuna».
Si pensa ai morbosi narcissi cantati da Felix Dörman, con le piccole bocche rosse di sangue, al giglio maeterlinekiano delle «Serres chaudes», che innalza verso le vetrate impassibili la sua «mistica prece bianca». La poesia di George non conosce i boschi, ma, come quella di Rilke, vive in parchi cedui moderati da cesoie sapienti, ove il busso alterna con le mortelle tagliate a siepali piani, e il cipresso, simile a una scolta incappucciata, sembra portar il broncio alla leggerezza d’un cirro vagabondo pei cieli.
Il sentimento, in George, non è il fine dell’arte: il raporto è qui invertito. «Sol quando il sentimento s’è lasciato dietro ogni impulso, ogni èmpito, ogni irrequietudine della sua nascita terrestre, sol quando ha rivestito quella forma vasta, traslucente, super individuale, i cui particolari innùmeri portano il segno della trasmutazione operata dall’arte, solo allora può essere espresso in parole».
E tuttavia codesto esteta puro, codesto asceta che macera il proprio intelletto nel cilizio spietato d’una disciplina selettiva implacabile, tanto che si può affigurarlo, per più d’un tratto, agli aristòcratici slesiani del settecento; codesto Poeta, che non sa altra passione fuor quella del Verbo, ha, non di rado, freschezze incomparabili, momenti di ingenuità tali che bastano a dissipar la caligine ch’occupi le ciglia del lettore più dissidente.
«Noi ci diportiamo, calcando la doviziosa canutiglia d’oro
del viale dei faggi, quasi per sino al cancello,
e riguardiamo sul campo, traverso le sbarre,
il mandorlo che rinfiora.
E ricerchiamo i sedili riposti, liberi d’ombre,
là dove stranie voci non ci intimidirono pur mai;
intessiamo le braccia come in un sogno,
e ci ristoriamo al lungo lume sereno.
E sentiamo, riconoscenti, gocciar sovra noi,
dalle vette degli alberi, con un brusìo lieve,
tracce di raggi: e riguardando, ascoltiamo,
nelle pause, percotere i frutti mèzzi per terra».
Oppure:
«Il balzo ove noi vaghiamo è già nell’ombra,
mentre il colle più alto stormisce ancora nella luce:
e la luna, appena ora, si libra, come un nuvoletto
(bianco,
sovra una delicata coltrice glauca.
Le rèdole, protese lontano, sciàlbano —
e il viatore s’arresta ad mi subitaneo sussurro:
quello d’un’acqua invisibile che sgorga dal monte!
O d’un uccello che ciangotta una sua ninna-nanna!
Due fanciulli si rincorrono, per gioco,
fra gli steli; il cigliare d’un campo
sembra apprestar in silenzio, con ciuffi dì titi(màlo,
il giaciglio ad un cuore cui il rombo del mondo
giunge di già più fioco».
Ed ecco il George perverso:
«Vedi, son più fragile d’un fiore di melo,
e più godo della pace che un agnelletto innocente;
e tutta via il ferro la pietra i semi del fuoco
giacciono, perigliosi, entro il mio petto esagitato.
Io discendo una scalèa marmorea
ove, nel mezzo, posa un corpo senza testa;
ivi s’accaglia il sangue del mio fratello diletto,
mentr’io strascico dietro il frùscio leggero
della mia clàmide di porpora».
(Algàbalo)
E ancora:
«La voluttà ci trae lungi del settentrione scialbo;
ove le lue labbra vampeggiano, ivi fioriscono
innumerevoli corolle,
e il tuo corpo sembra, fra mezzo, fluirvi
come una neve floreale;
fin che ogni arbusto ruscella d’accordi,
e si trasmuta in un alloro un gàlbano un àloè...».
Alla scuola di George si riconnettono due personalità emergenti: Max Dauthendei e Ugo von Hofmannsthal. Benché il primo, in un certo senso, costituisca una opposizione ai principi di George per la sua repugnanza ad ogni lirismo non elementare.
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Max Dauthendel.
Rade volte l’essenza d’una poesia corrispose si poco alla imagine del suo creatore, come nel caso di Max Dauthendel.
Raffiguratevi un corpo pingue, addobbato sommariamente di stoffe d’ambiguo gusto, ingemmato d’un cravattone che s’instaura mal a centro su d’un ampio colletto a risvolti; il tutto coronato da un viso largo e badiale. Se il baleno subitaneo che avviva di tratto in tratto le profondità degli occhi non parlasse d’un palpito segreto di cose inespresse, ci sarebbe da credersi, in buona fede, di fronte ad un uomo da negozi, la cui sagoma vedremmo, mentalmente, dipanarsi appena dall’intrico tumultuoso d’una sagra rustica.
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Nella storia dell’arte nulla è fortuito.
Le dottrine dell’arte nuova simbolistica sono logica reazione a quelle romantiche, se pur questo voler porle a fronte non significhi accentuarne più ancora la derivazione.
Alla grande dispersione romantica, dovuta soprattutto all’ansia di annettersi nuovi domini, seguita la distillazione diligentissima, per elementi supremi, dell’«arte per arte».
Fu un bene ed un male. Ma certo un bene, se si voglia considerar le cose dal lato del «verace linguaggio dell’anima», dello stile cioè, che venne acquistando significati e magnificenze sino allora ignoti. Il romanticismo, nell’affanno verso forme nuove, e nel travaglio d’infrazione delle vecchie, aveva, tranne pochissime individualità, mal riflettuto al problema formale. Il suo era un problema di contenuto, anzi ogni cosa.
Col chiuder invece l’Arte entro le muraglie dei suoi propri reami, il problema della forma veniva ad assumer senso dissueto ed importante. Non più l’oggetto d’espressione, ma il mezzo d’espressione venne ad essere il fulcro dell’indagine sulle fondamenta creative.
Le correnti romantiche sboccate, sul declino del secolo scorso, attraverso molteplici trasfigurazioni, nell’alveo simbolista, alimentarmi ivi una stupenda primavera ripense.
Artefici d’ogni sorte unico scopo alla loro arte posero il raffinamento fabrile d’ogni instrumento di essa. L’isvivatojo degli òrafi sembrò divenuto si esile, da gareggiare con un pistillo, sperto a penetrare quasi nei pori dell’argento o dell’oro. La parola sembrò divenuta più flessibile d’uno stelo, più leggera d’una nube, più impalpabile d’un profumo. Si giunse al punto sommo, al vertice d’un edilizio che, per troppa eleganza, bellezza e snellezza, sarebbe stato, avversando le leggi della solidità, inevitabilmente destinato a crollare.
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Apriamo ora «Ultravioletto». E’ segnato, nel catalogo del Poeta, come l’opus n. I. Fu composto in un villaggio svedese nel 1893, in solitudine.
«E, tacendo gli uomini, i fiori e le cose tutte cominciarono per me a discioglìer le lor voci. Le tinte cominciarono a cantare, il silenzio dei negri boschi divenne come una sonora voluttà estatica; poiché nulla turbava queste rivelazioni ineffabili». Cosi Dauthendel è dapprima l’aèdo degli effluvi e dei colori, delle sensazioni ebbre, del «vicariato dei sensi»'.
L’espressione non paia maldestra. Sarebbe disagevole trovarne, se si pensi, una più esatta per il fenomeno, notissimo in letteratura, che incide di se il primo Dauthendei. Nell’«Ultravioletto»,
ed anche nelle opere seguenti, colpisce l’applicazione sistematica d’un processo di amalgama delle sensazioni visive auditive tattili.
Le alghe brune rantolano, le voci candide dei narcissi melodiano e ridono, tra il marame vizzo. Il color lionato geme, il verde aureo e l’oro azzurrino balbettano. La luce è rigida e levigata, la quiete è cilestre come l’acciaio.
E ancora, per grazia d’esempio:
«Rifoli di tempesta
ardono, vermigli come vino;
il margine del mare è d’un purpureo
azzurro.
Profonda come giacinti
è la riva remota.
Un’iride, greve come
violette,
langue traverso nuvole
cilestre come incenso.
Nella tenebra
rorida, gorgheggia
un violento rusignolo».
Il procedimento è vecchio; non si dubita. Già nella «Sensitiva» di Shelley si parla di «Un pròfumo sì acuto, che giungeva nel senso come una musica». Ma ivi è questione d’un tratto sporadico: qui, invece, d’una applicazione costante.
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Con «Reliquie» entriamo in un solco assai remoto dai passatempi cromatici. L’amore fa per la prima volta il suo ingresso nel sacrario spirituale. Ne nasce, sotto lo stimolo delicatissimo, una lirica piena di castità melanconica, di timorosità sognante:
«Lunghesso il dolce campo lilla di trifogli,
per sino ai due fusti d’abeto
che inquadrano una panca,
si stende, come un vocalizzo di flauto
la rada, incisa nel verde dei butomi.
Dammi la mano.
Ti dirò ciò che questa quiete
vuol indarno nasconderli.
Dammi la mano...
e, nella mano, il cuore...».
Nella poesia di Dauthendel è, di frequente, l’allarme contro una potenza oscura ed ostile, a respinger la quale l’anima balza d’un tratto:
«Chi mi chiamò?
Io sussulto, terrorizzato.
La lampada,
fioca e tranquilla,
vigila.
Il mio giaciglio bianco:
e, d’ogni intorno, profonda
come un baratro,
la Notte.
Il mio cuore, che riposava
assopito con la terra,
sovrasalta.
Chi mi chiamo?
Chi mi chiamò dunque?
Appunto in questo terrore dell’ignoto ci sembra giacere la sua originalità più decisa.
Hofmannsthal.
L’arte di Hofmannsthal somiglia un’onda, che, prima di giungere al lido per viver ivi il suo attimo di plenaria impetuosa bellezza, si rintoppi in un subdolo; banco di sabbia affiorante sull’acqua.
«Fu precoce, delicato, triste»: tali parole che al Poeta suggerisce l’«Anatolio» di Schnitzler, potrebbero benissimo esser valide per lui stesso.
Precocità presuppone un’epoca di concentramento, di secessione completa da tutto ciò che è capace di turbare i tranquilli laghi dello spirito. Ed infatti Hofmannsthal, il cui primo libro, «La morte di Tiziano», risale al 1882, quando cioè egli aveva diciotto anni, visse lo spazio anteriore in erma solitudine intima.
Vi sono alcune indoli poetiche che possiamo, senza difformazioni, affigurar a quei saltatori che si attrappiscono e si raccolgono in sé stessi prima di lanciarsi, per conseguir un balzo più lungo. Altre, por contro, cui questo sforzo preliminare sgagliarda ed intormentisce per sempre il vigore dei muscoli.
Hofmannsthal è delle ultime.
In lui la poesia è rimasta in bocci, non s’é espansa in corolle, come un roaio strinato da una brina improvvisa. Non ostante che, forse, alcuni, sottilizzando, potrebbero inferire la primazia della promessa sullo sviluppo integro, e della gemma sul fiore.
Ognuno rammenta una pagina di Gauthier che è nella prefazione ai «Fleurs du mal». Il lirico francese esplora sin le stirpi più remote del meraviglioso albero della Poesia. Egli ne segue grado grado il consurgere, dalla sementa da prima gittata nella gleba creatrice, sino al terminale ghirlandarsi fruttuoso.
«Il Poeta può da allora (da quando cioè imprende a batter la propria strada) considerarsi come avulso dal resto degli uomini. In lui, l’azione s’arresta; egli non vive più, ma diviene lo spettatore della vita. Ogni sensazione gli diventa pretesto d’analisi. Involontariamente, egli si sdoppia, e, in assenza d’altro soggetto, si fa il delatore di sé stesso. Se gli manca un cadavere da sezionare, si prostende egli stesso sulla lastra di marmo nero, e, per un prodigio frequente in letteratura, affonda il bìsturi nel suo cuore medesimo».
L’arte di Hofmannsthal s’è fermata a questa fase. Per lui il mondo esiste — e come! — Ma totalmente a scapito dell’altro, di cui l'esteriore non è che il simbolo impreciso. Hofmannsthal è un caratteristico esempio di quei temperamenti refrattari alla vita, che, per quanto s'argomentino di rimontarne il corso verso le sorgenti native, son tuttavia respinti dalla correntia la cui violenza non riescono a sopravvincere. Ed è notevole a prezzo di quali tremende lacerazioni il Poeta cerchi squarciare il velo greve che gli si è avvolto alle palpebre.
Di questo affanno verso le libere potenze della vita in atto è corrosiva testimonianza «Lo stolto e la morte», una specie di dramma lirico ove nello stolto (Claudio) è adombrato l’autore stesso.
Se ne sprigiona una «Weltanschaming» desolata ed acre, come un sentore di crisantemi putri.
«La convalle crepuscolare era ricolma
d’un profumo grigio-argenteo,
come quando la luna traluce tra nubi.
Ma non era tuttavia notte.
Col grigio-argenteo profumo della convalle oscura.
fluttuavano, dubi, i miei pensieri,
mentre io più sempre sommergevami
nel murmurante mare stralucido,
lungi dalla vita.
Eran ivi meravigliosi fiori,
i cui calici brillavano indistintamente,
intrichi d’alberi tra cui
una luce fùlvida come di topazi
sgorgava in caldi fiotti, coruscando.
Tutto era pieno d’un profondo gùrgite
dì musica profondamente melanconica,
E questa — sentivo io - benché non potessi com-
(prendere appieno -
è la Morte
E’ la Morte che è divenuta musica, acuta e no-
(stalgica
dolce e oscuramente luminosa,
affine alla più desolata mestizia.
Ma, stranamente,
una brama della vita pianse, indicibile, nell’anima
(mia;
pianse come piange uno
che sovra un grande naviglio
dalle gigantesche vele gialle
trapassa, verso sera, sulle acque
cupe i cilestri, presso
una città: la sua città natia.
Egli allora riguarda le strade,
ode favellar le fontane, aspira
il profumo dei cespi di sambuco,
rivede se stesso, bimbo, a seder presso la ripa,
con occhi meravigliati, pieni d’angoscia,
pronti alle lacrime; vede, traverso la finestra a-
(perta
il lume acceso della propria stanza;
ma il grande naviglio lo trasporta con sé più lontano,
scivolando sulle acque cupe e cilestri senza strepito,
con le sue vele gialle, gigantesche e difformi».
Per altro, l’ipocrita lettore, ai cui occhi i crucci del Poeta non han valore se non trasfigurati in più pure essenze, ha da riferir grazie al tormento di Claudio; poiché esso gli dischiude, nel campo del mero sensualismo visivo, orizzonti di magnifico splendore.
Alla antica teoria romantica della identificazione ideale tra spirito e natura, espressa dal famoso aforisma: «la natura è lo spirito visibile, lo spirito la natura invisibile», succede la concezione d’un netto distacco, d’una chiara contrapposizione di termini. Lo spirito si pone di riscontro gli spettacoli della natura non per rimpiangere, come Faust, che sian solo spettacoli; ma per sentirsi, in opposizione con le forze e le leggiadrie dell’universo, più altero, più solo e più ricco.
Il Poeta di cui parliamo, adora lo sfarzo sino alla sofferenza.
«M’era imagine che un misterioso appello
traversasse l’azzurra notte respirante.
La Natura non era occupata dal sonno.
Con un fiato profondo ed umide labbra,
ella giaceva nella grande tenebra,
ascoltando il bruire delle cose segrete.
E il bagliore degli astri fluiva, trapelando,
sui prati molli e vividi...
E tutti i frutti dal fiore pesante si gonfiavano
nel pieno lume della luna,
e tutte le fonti fulgevano al suo transito,
e gravi armonie si risvegliavano.
E dove l’ombre delle nubi trapasàvano rapide,
surse un battito come di leni passi ignudi.
Io mi alzai pianamente:
allora allò nella notte un suono dolce,
come se s’udisse sommessamente modular il flauto
che il fauno pensivo si stringe nalla mano,
erto presso l’oscuro laureto,
presso l’aiola delle violette notturne.
Io lo vidi, immobile, luccicare marmoreo;
e a luì d’attorno, nell’umido azzurro argenteo,
in cui si cullavan i pomograni aperti,
vidi svolar chiaramente moltitudini d’api,
e suggere, chine sul vermìglio,
gli effluvi della notte e le linfe mature.
E, come il sommesso àlito della tenebra
mi feriva la fronte coi profumi del giardino,
mi parve di sentire come il fruscio d’una morbida
e quasi il tòcco d’una mano calda. (veste,
Nelle striscie dì chiaro di luna
le libellule danzavano,
e sullo stagno si distendeva un molle bagliore,
mentre esso sciabordava brillando.
E non so se fossero cigni,
ovvero membra candide di najadi bagnàntisi;
e quasi un soave odore di chiome feminee
si mischiava agli incensi dell’àloè...».
Hofmnnsthal ha tentato ultimamente anche la commedia borghese: ha provato ad interessarsi anche alle passioni d’uomini dell’esistenza cotidiana. Ma, come ognuno imagina di leggeri, ha fallito del tutto. Egli s’accusa un superba poeta lirico; troppo poeta, anzi, per non evocar la figura del favoloso re frigio, che, tutto trasformando in oro ciò che toccava, fu ridotto ad implorare dal Dio la revoca di questa condanna deliziosamente crudele.