Il Baretti - Anno II, n. 11/Il Novecento

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Il Baretti - Anno II, n. 11 L'Espressionismo

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IL NOVECENTO

In nessun campo artistico forse lo spirito tedesco sperò, dopo la guerra disgraziata di cogliere una più rapida e clamorosa rivincita come in quello della drammatica. A scorrere le cronache teatrali degli ultimi anni di guerra e di quelli immediatamente seguenti c’è da stupire di tanta audacia di speranze. L’arte drammatica non solo intendeva rinnovare la propria casa, ma anche soccorrere la vita, rifacendo le coscienze, restaurando gl’ideali, arredando di nuovi pensieri e sentimenti gli uomini ringiovaniti. «La sventura è sempre stata la leva più possente dello spirito germanico», diceva uno dei teorici del nuovo dramma, e ricordava il fiore dell’arte in genere successo alla guerra dei trent’anni e del 1813 e il guaio successo alla fortuna del 1870. Mezzo di risollevamento fra tutti ottimo la scena, perchè solo essa poteva ridestare colla finzione tragica il senso religioso necessario alla ricostruzione. Quel medesimo teorico però, quando dall’alto del suo profetico monte indagava le vie per far risorgere il teatro, finiva per dichiarare che la salvezza doveva venire dallo spirito della... danza. E altrettali topolini uscivano dai parti di altre montagne. Una illimitata fiducia accreditava tutte le fantasie. Poiché la politica credeva d’aver nel teatro il più prezioso alleato, si sentirono annunziar dalla scena le più riuscite rivoluzioni. Nell’anno di grazia 1925, sei anni e mezzo dopo lo catastrofe, Hindenburg è eletto capo dello stato tedesco, e il teatro drammatico della Germania è un campo di stoppie. S’era abolita ogni differenziazione gerarchica scavando soltanto un’invalicabile fossa verso il passato; s’era rinunciato ad ogni critica come nefasta alla creazione (e i critici, per la paura di restare indietro s’eran trasformati in maniloquenti giustificatori d’ogni «tentativo»), si era sacrificato tutto al «movimento»; ed ora, fiaccate le orgogliose speranze, sgonfiata la vescica del «movimento», chi mantiene il campo e qui e là qualche talento che ha proceduto per una sua strada, e le strade, — a non lasciarsi ingannare dalle frascate — son dei sentierini or no or si d’alcuni passi appena avanzati oltre il fossatello divisorio del passato.

Senza irridere a quella fede che, pur nella sua precipitosa ingenuità, è degna di simpatia, non si può non avvertire subito ch’essa nasceva, o almeno giganteggiava così vigorosa da un curioso errore di valutazione: frutto di stanchezza e di disperazione, d’anime oppresse e di nervi esasperati, veniva creduta figlia di giovinezza e principio di nuova fortuna. E da un errore di presunzione: che, rimeritando Dio ogni fatica e ogni dolore, si avessero nuovi diritti sufficienti alla grazia d’esser gli eletti. Ma Dio rimerita nell’altra vita sempre, e in questa solo quando gli piace, e a volergli sforzare la mano c’è da esser puniti di sterilità. Forse anche a preparare la grande illusione han contribuito l’ipercoltura e lo storicismo, di cui la Germania soffre più d’ogni altro paese: notissimi ormai gli schemi e i processi d’una rivoluzione letteraria, notissimi i caratteri essenziali del proprio paese, quasi a dire quegli archetipi evolutivi a cui con periodica vicenda si ritorna. — è facile a degli spiriti smaniosi di novità, lavorando d’immaginazione, imbastire la macchina di nuovi rivolgimenti artistici. — L’osservatore pertanto deve essere attento non solo a scoprire i segni esteriori di novità, bensì ad avvertire anche la stanchezza che eventualmente li abbia generati, e l’artificio che li abbia ingranditi e complicati. Non voglio dire con questo che ragioni storiche, e importanti, nella fortuna dell’espressionismo non ci siano state. Non avrei preso la penna in mano altrimenti. Dico che corrono tempi, che lo storico, se non vuol lasciarsi trappolare dai lisci e dai gonfi, non può più lavorare senza una spugna e uno spillo.

Per quanto non gli manchino tratti comuni col resto del teatro europeo contemporaneo, si deve da bel principio stabilire, che il dramma tedesco degli ultimi anni ha uno spiccato carattere germanico. Chiamandolo senza differenziare col nome corrente di «espressionismo» (1), occorre dire infatti che esso rappresenta il riaffiorare di quell’onda romantica che è da secoli (e non soltanto dalla fine del 700) uno dei fermenti più caratteristici della letteratura tedesca. Al trionfante naturalismo della seconda metà dell‘800 anche la Germania si era piegata; e non è chi non sappia come Ibsen avesse trovato in Otto Brahm il suo più perfetto régisseur, e qual energico lavoro di ringiovanimento artistico significasse la Freie Bühne berlinese. Il più illustre campione di essa però Gerhart Hauptmann mostra già in alcuni de’ suoi primi drammi (nella «Campana sommersa» per es.) un’insoddisfazione della realtà, una tendenza al fantastico, che tradiscono il misticismo romantico. Assai presto dunque era cominciata la reazione. Natura e realtà, gl’ideali esaltati dalla nuova scuola, i quali avrebbero dovuto per sempre richiamare dal cielo alla terra gl’irrequieti Germani, venivan di nuovo ansiosamente interrogati per la brama insopprimibile dell’al di là.

Wedekind.

A due anni di distanza dal primo grande successo di Hauptmann, nel 1891 Frank Wedekind scriveva il «Risveglio di primavera». Un buon decennio nondimeno doveva aspettare Wedekind per incominciar a richiamare l’attenzione sopra di se ed esercitare un’influenza sul teatro. In quel decennio la Germania doveva avviare i suoi più memorabili progressi nella tecnica, nell’industria, nella conquista del mondo, e doveva, col parallelo impoverimento progressivo del suo patrimonio ideale, giustificar meglio la dissolvente ironia wedekindiana. Tesa nello sforzo del successo esteriore, splendida ma corrotta e pur legata ancora (per inerzia, calcolo ed egoismo) nell’armatura delle vecchie formule morali, la nazione vittoriosa andava creando una sempre più terribile contraddizione tra la propria vita e la propria anima. Quanto più energica quella, tanto più arida questa; mentre quella consentiva ai favoriti della sorte ogni capriccio, questa pesava ogni giorno più dolorosamente agli esclusi ed ai sensibili. Soprattutto ne soffrivano i giovanissimi. La radice profonda dell’arte espressionista sta appunto (ed è il suo titolo maggiore di merito l’averne preso coscienza) nel contrasto tra la sete di verità delle nuove generazioni e l’inaridimento del vecchio idealismo germanico sacrificato al Moloch del successo. Il Risveglio di primavera dà voce per la prima volta a tal dissidio. Per vero una singolare voce. Tragedia della pubertà, il suo intimo significato minaccia di restar soffocato dal turbamento sensuale, che la pervade. Un realismo tra ingenuo e cinico, un’ironia caricaturale, uno scioglimento artificiosamente romantico gettano ombre dubbie sul pathos tragico. Si è che Wedekind, divinato il problema cardine del dramma futuro lo imposta e lo risolve (e lo si capisce meglio nei suoi successivi lavori) in modo adatto essenzialmente al suo temperamento e alle sue teorie. Anche per lui la parola d’ordine era: natura, non però la natura riprodotta con fedeltà veristica, bensì l’istinto. Il suo teatro è celebrazione dell’istinto e polemica contro i nemici di esso. I quali nemici essendo, nell’ordine sociale, i tutori delle convenzioni e delle iprocrisie vantate come leggi morali, la sua lotta vale principalmente contro la moralità. L’appello all’istinto è l’elemento romantico di Wedekind, elemento che aveva avuto la sua ultima grande celebrazione nell’uomo dionisiaco di Nietzsche. Qual distanza tuttavia dall’uomo nietzschiano! Perduto il gusto delle forti virtù, isterilite le nobili sorgenti sentimentali, divenuto ogni bene materialità, ogni dovere schiavitù, ogni desiderio piacere violento o tormentosa privazione, il nuovo eroe è una donna che si chiama Lulù, un essere elementare che non conosce nè legge, nè pudore, nè amore e che vuole soltanto la soddisfazione sfrenata dei suoi appetiti. Lo sfacciato trionfo di Lulù deve mostrare come siano ridicoli gli uomini nelle varie maschere impostesi per occultare la loro natura e per negare che la radice dell’umanità è nell’istinto sessuale. Qui è il limite di Wedekind. Mosso per un’utile battaglia d’emancipazione, andò poi man mano imbozzolandosi in una serie di paradossi, i quali gl’impedirono di scorgere la cercata verità. Immoralista per odio della falsa morale, non seppe poi uscire dalla formula: «Anche la carne ha il suo spirito». Ma un rigoroso distruttore egli era, e la sua opera fece scuola.

Non importa qui indicare quali siano stati i suoi epigoni. Importa invece dire come tutto il seguente teatro tedesco ne abbia risentito influenza. Un atto d’accusa contro il mondo dei vecchi e dei padroni alzato dai giovanissimi offesi nei loro più sacri diritti era stato il Risveglio di primavera, — e un analogo atto d’accusa e un’analoga nostalgia d’anima sono tra i motivi fondamentali dell’arte futura. Già in Wedekind quell’atteggiamento iconoclasta corrispondeva, — per quanto riguarda la materia artistica, — ad una scomposizione della realtà. I netti limiti di questa vacillano, i suoi valori più solidi svaniscono; una luce fantastica, artificiale dà alle persone, ai conflitti, alle cose l’aspetto di fantasmi e visioni. Il dramma ha d’ordinario una linea rigida (vuol condurre all’assurdo una situazione immaginativa con dei personaggi che potrebbero definirsi delle marionette cariche d’istinti), e nondimeno trascorre labile, patetico a dispetto d’ogni violenza, come una ballata. Le scene sono permeate d’un fiato acre, che dà quasi ad ogni situazione il sapore del grottesco, e d’altra parte sono tenute insieme da un ardore, che sembra voler sconfessare la brutalità delle parole. Logica ed immaginazione, cinismo ed abbandono passionale fanno un miscuglio ibrido, dal quale si è attirati e respinti ad ogni momento. Quest’arte s’imparerà da Wedekind. La sua unilateralità sarà biasimata, i suoi sofismi presto smascherati, ma al fascino di quegli spettacoli del caos dell’anima ch’egli propone nessuno saprà sottrarsi. Spesso quel caos liberatore si riduceva a un semplice capovolgimento dei valori morali: gli onestuomini condannati come imbecilli, o ipocriti, o impotenti; degni d’interesse e di simpatia solo gli avventurieri, i violenti affermatori di sè. Inoltre stabiliva, — nei riguardi dell’arte — una deplorevole confusione tra cose etiche e cose estetiche, tra arte e non arte, tra giudizi di valore e mode sentimentali. Eredità pericolosa per l' avvenire. Significava però altresì quel capovolgimento una libertà e un’audacia, di cui cominciavasi davvero a sentire il bisogno, e un singolare incitamento della fantasia, — e si trattasse magari ora piuttosto di malsana immaginazione. All’ingrosso erano i bisogni e le droghe dell’avvenire.

Alla materia nuova corrispondeva una tecnica nuova. Disarmonia, violenza, rapidità dovevano essere le caratteristiche di simile tecnica; onde i critici incominciano a parlare di dinamismo. Lo stile però, pur aspirando alla massima oggettività, ha spesso un tono tra elegiaco e uptuoso. E’ la tendenza wedekindiana a confessarsi per bocca dei personaggi drammatici e a predicare delle teorie. Le quali essendo così povere di verità umana furono poi dimenticate. Anche perchè la contenuta angoscia, che le rendeva interessanti e dava loro, a tratti, efficacia lirica, aveva trovato un più possente interprete nell’altro grande dominatore del teatro tedesco negli anni di guerra. Augusto Strinberg.

Strindberg.

Sebbene lo svedese fosse quattordici anni più vecchio del tedesco, e i suoi lavori naturalistici fossero già prima ben noti in Germania, il suo influsso decisivo qui lo esercitò solamente dopo di Wedekind. Di questi in certo senso egli fu il continuatore, sviluppandone talune tendenze, con una energia però senza paragone. Così grande fu il suo influsso sulla generazione tedesca della guerra, da venir paragonato a quello di Rousseau sugli Stürmer und Dränger. Accenno al ravvicinamento, esageratissimo, per far capire all’ingrosso l’importanza di Strinberg, considerato da certuni padre dell’espressionismo. Il suo mondo poetico è, dopo l’abiura del naturalismo, non meno ristretto del wedekindiano. Anche in esso la donna al centro, anzi la moglie rivelatesi la nemica dell’uomo colla sua astuzia e cattiveria demoniache. La vita umana si riduce ad una lotta tra i due opposti principi, nella quale il soccombente è sempre il più capace di dolore, l’uomo: La rappresentazione di questo dolore è la sostanza del dramma; una voluttà di dolore spinta oltre ogni limite. Gli eroi dello svedese pare non si sentano vivere se non quando sono dilaniati dai tormenti, dai quali si lasciano scarnificare fino ad esser ridotti un gomitolo di nervi. La volontà s’inalbera invano; sempre proclama la lotta, è sempre è sconfitta. Gli ultimi vestigi della realtà ancora rispettata da Wedekind si struggono, l’universo si popola di larve. E l’universo è un deserto, il deserto dell’anima insaziata di martirio e schiava dell’allucinazione. Quando tutto è perduto s’invoca come salvatore l’estasi. La creatura non è più capace di vita e si rifugia in Dio. Il dramma, che aveva presentato la storia di un visionario si chiude con una visione. Impressionante storia convien dire, anche se monotamente ripetuta d’opera in opera, e suggestiva visione. Strindberg è un mago della scena, e soprattutto sa dare quell’indefinibile atmosfera che i tedeschi chiamano col nome di Stimmung. Parrebbe nondimeno che una siffatta materia sempre autobiografica sconsolata elegia d’un naufrago, fosse la meno adatta per eccitare all’imitazione dei giovani. Ma i giovani tedeschi, che presentivano già nell’afa l’avvicinarsi della grande tempesta o che la soffrivano furono attratti da quell’incolmabile dolore collo stesso impeto, col quale il destino trascinava alla rovina il loro paese. Quell’eloquente disperazione dava parola alla loro confusa disperazione; quell’amareza d’esilio sulla terra, quella fuga della realtà nell’estasi allargavano a fiume la riscoperta vena romantica; quella sconfitta dell’anima sotto la persecuzione d’un odio maligno o sotto il tirannico peso delle cose destava sentimenti quasi fatti dimenticare dalla miseria del tempo: pietà di sè stesso e amore. Che fosse fragile amore, quel che nasceva da tante macerie e tanta debolezza di spirito non si sapeva vedere. Qual’altra formula bandire, poiché l’impazienza giovanile stanca di negazioni voleva ricominciare a costruire? Le tendenze di ogni ramo dell’arte concordavano nel rigetto degli ultimi resti di naturalismo e in un cammino che, opposto all’Impressionistico, derivasse ogni sostanza dall’interno dell’anima creatrice. Il canone: «Tutto dall’anima», corrispondeva all’esigenza dell’amore, e invece della natura poneva sul trono Dio. Con una temerarietà non sai dire se più commovente o ridicola si dà principio alla Jünglingszeit, davvero analoga per certi rispetti a quella dello Sturm und Drang. Wedekind aveva fornito la tragedia della pubertà: gli espressionisti forniranno la tragedia d’una incantata gioventù.

Tecnica e drammatica

Un valoroso critico tedesco, Herbert Jhering, ebbe a scrivere qualche anno fa: «L’espressionismo è appena agli inizi, è ancora tecnica». Lasciamo andare la parte profetica del giudizio, e contentiamoci di notare quanto di acutamente vero è nel resto. Proprio, alla fortuna del nuovo indirizzo d’arte contribuì moltissimo il fatto, che con esso si affermava una nuova tecnica. E’ possibile tecnica e drammatica? Che sia comodo praticamente e lo si faccia tanto spesso e a cuor leggero vorrebbe ancor dir poco. Ma, come pur stia la questione generale, non infondata è la distinzione nel teatro moderno, dove il régisseur ha ormai acquistato sì grande potere da diventare un inevitabile collaboratore dell’autore; e giustificata è anche perchè essendo la presente un’epoca di trapasso assai più ricca d’intenzioni che capace di realizzazione, il poeta stesso, cercando di supplire cogli artifici di struttura, colle didascalie e lo stile e la lingua forzatamente originali alla povertà creatrice, si fa già da sè quasi in ogni opera il sollecito régisseur di se stesso.

Wedekind e Strindberg vennero studiati anche come maestri di tecnica. A chiarir la quale, e insieme a fissarla, ebbero parte massima quei direttori di teatro, che con e dopo Max Reinhardt si possono chiamare i veri padroni della scena tedesca. Porterebbe troppo lontano discorrere ora, nonché dei principali di costoro, ma delle evoluzioni del solo Reinhardt. Basti dunque il dire, che il geniale artista immediatamente adattandosi ai moti del tempo e interpretandone i bisogni, benché non riuscisse mai a far dimenticare del tutto i suoi principi naturalistici, aiutò col suo eclettismo il nuovo dramma ad affermarsi sulla scena dandogli perfino una tradizione. Il régisseur dell’espressionismo, si badi, non è lui, si chiamerà piuttosto Leopold Fessner o Karlheinz Martin. Molto prima però dei successi di costoro le commedie di Shakespeare inscenate da Reinhardt erano già un tentativo di cercare nel gran padre del teatro germanico quella libertà e quella fantasia a cui la giovine generazione anelava. Un altro grande passo fu, colla recita di autori russi, la riscoperta di Lenz, Büchner e Grabbe, considerati subito dagli espressionisti come loro precursori.

Sternheim

Mentre questi tentativi duravano richiamava sopra di sè l’attenzione un commediografo: Carlo Sternheim. Dopo un inizio lirico-sentimentale, rimasto non senza effetti anche in seguito, lo Sternheim si rivelò presto un ironista implacabile. Egli pure ce l’ha col filisteo tedesco. Dal 1908 al 1914 in una serie di commedie concatenate egli mette a nudo la «vita ironica» del borghese. Del piccolo borghese si tratta, depositario una volta delle migliori virtù familiari e sociali, ed ora in quelle [p. 46 modifica] istupidite o a quelle infedele per avidità d’arrivismo. Sale a grado a grado l’eroe pagando senza scrupoli ogni conquista coi resti delle antiche virtù. Sull’ultimo gradino sta lo Snob prossimo a conquistare come capitano d’industria il mondo perfettamente cinico.

Se a questo punto e giunta la migliore Germania, quale sarà l’avvenire? Sternheim si propone la domanda, e in una commedia «1913», scritta pochi mesi avanti lo scoppio della guerra europea, chiaramente predisse la rovina, verso cui si marciava. Una sollecitudine etica non manca quindi al teatro di Sternheim; e tuttavia non han torto coloro che lo accusano d’aridità. Osservatore acutissimo, critico tagliente, il suo sarcasmo è così corrosivo da creare della realtà più precisa un grottesco irreale. L’effetto e aumentato dallo stile, il più sacrilego stile mai usato da scrittore tedesco, perchè la meticolosa compassatezza della lingua teutonica è sconvolta da elisioni, inversioni, epilettismi d’ogni specie. Dinamismo dovrebb’esser naturalmente questo. In realtà mostra meglio il fondo dilettantesco di Sternheim e quel difetto d’amore, che impedisce alla sua satira grandezza. Anziché sdegnato della viltà dei contemporanei, lo sentì mezzo divertito e mezzo annoiato di scoprirli sotto gli orpelli così buffa, ridicola plebe. Dalla quale lo stacca, meglio che superiorità di carattere, certo freddo senso di decoro impostogli dalla lucida intelligenza, e lo schiva raffinatezza d’un uomo educato signorilmente. Le sue nostalgie vanno al dixhuitième. Poiché gli è toccato di vivere durante le ineleganti crisi d’un’età plebea, egli si vendica facendo degli uomini tanti pupazzi e dei loro affannosi sforzi una piccola, stupida commedia umana.

Nè la guerra, nè la rivoluzione hanno mutato il punto di vista di Sternheim. Senza lasciarci fuorviare da nessuna infatuazione, egli ha perseverato nel suo critico atteggimaento, sicuro che l’uomo non cambia tanto presto e che, piantandosi in margine alla società ad osservarla traverso un monocolo sarcastico, c’è da continuare a divertirsi un pezzo. Angustie e fondamentali difetti a parte convien notare essere Sternheim uno dei pochissimi commediografi tedeschi contemporanei, i quali sappiano il loro mestiere e si facciano ascoltare con gusto.

  1. Limitandomi a parlare del dramma espressionista trascuro di proposito quegli autori anche illustri ed operanti, che hanno proseguito in indirizzi d’arte già noti, naturalistici, neo-romantici o classicisti. Si tenga presente che in questo novero sono opere egregie come, per far due soli nomi, la deliziosa commedia di Hofmannsthall Il difficile e il nobile dramma lirico di Rud. Borchardt L’Annunciazione.