Il Baretti - Anno II, n. 11/Fritz von Unruh
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FRITZ VON UNRUH
Da tutti costoro si stacca con vigoroso risalto Fritz von Unruh. E' stato detto ch’egli ha riportato nel teatro tedesco contemporaneo ethos. Il suo vero merito però non è quello d’aver aggiunta un’altra pietra di più alle tante che già ingombrano la fabbrica del povero teatro dell’avvenire, (non aveva predicato anche Toller dover la rivoluzione etica precedere la politica?), sibbene di aver dato esempio di virtù poetica originale. Un breve esempio, pur troppo. Dal 1910 al 1920 egli in 4 drammi afferma la propria personalità, dibatte i problemi che sono del tempo e insieme intimamente suoi, ne sfiora la soluzione in sede d’arte con un magnifico spiegamento di forze, e da esse sopraffatto cade. Se la caduta sia definitiva non può ancoro dirsi; il poeta è giovine ed operante. Ad ogni modo un ciclo è compiuto.
Il punto di partenza è la ribellione all’ordine morale tradizionale. Esso non aveva per Unruh il medesimo significato che per uno qualunque dei giovani della sua generazione. Discendente di vecchia famiglia prussiana, ufficiale, anche lui aveva accettata la legge ereditata col sangue: che la vita dev’essere ordine, che l’anima dell’ordine è il dovere e che il dovere si mantiene coll’obbedienza. Ma quella legge gli pesava. Un altro poeta prussiano cent’anni avanti aveva sentito il terribile peso dello stesso imperativo e nella lotta per mantenergli fede era perito. Come il Kleist, in Unruh si accende presto il dissidio tra dovere e titanismo. La risposta più naturale gli è suggerita dai secoli; ma come il tempo s’avventa e tra guerre e rivoluzioni sembra scatenar sulla terra il caos, il poeta sa sempre meno fermamente resistere all’ebbrezza titanica e vede farsi sempre più disperata e confusa la sua religione del dovere.
In «Ufficiali» (1910) il conflitto aveva ancora un valore piuttosto formale. La consegna che obbliga il tenente comandante nella colonia africana un posto avanzato all’immobilità, mentre sarebbe necessaria l’azione, rappresenta il comando non il dovere. Quando l’ufficiale si deciderà ad agire soddisferà, se non alla lettera, allo spirito del suo dovere; l’iniziativa in guerra è necessità, ed è questione di criterio, non d’ubbidienza. Che Unruh abbia fatto di tal caso un dramma ed abbia fatto pagare al protagonista la felice disobbedienza colla morte, prova solo che il conflitto è più voluto che vero, o che Unruh vedeva allora il dovere solo attraverso la disciplina proinde ac cadaver. Ma Ufficiali è notevole per la natura de’ suoi personaggi (gente estrema, sensibilissima sotto la rudezza militare, fatalmente tragica), per il luogo dell’azione (anche d’estremo anche qui: deserto africano, sole ardentissimo, sete, guerra atroce) e per lo stile nervoso e violento.
Ben altro è il dovere che lega Luigi Ferdinando Principe di Prussia (1913). Tutte le doti si riuniscono in lui e tutte le speranze. Artista, soldato, idolo del popolo, sospiro delle donne, voce del grande Federico presso il re irresoluto nei giorni dell’estrema umiliazione prussiana sotto il giogo napoleonico, potendo avere moltissimo di quanto vuole, aspira a sempre maggior altezza: «Aut Caesar aut nihil». Ma la regina ch’egli ama gl’impone «sulle tempie ardenti il cerchio ferreo del dovere »; ed il titano, quando i giorni della riscossa paion giunti, quando la storia sembra debba cedere al suo impeto, guarda dentro di se. Generali ribelli gli offrono la corona reale, perchè guidi il paese a libertà. Il principe, vissuto sempre nel sogno della corona, si copre il viso. La motivazione del rifiuto suona: non nasce dal tradimento la Prussia. La ragione profonda è un’altra. Il poeta non ha saputo rappresentare colla dovuta evidenza la crisi decisiva, ed è facile fraintenderlo. Qualcosa di terribile aveva visto il principe con subita illuminazione: «me stesso», confessa all’amico Wiesel. E alle domande di lui che non comprende soggiunge: «Per salire fino alla mèta suprema, bisogna sapersi staccare sempre da noi stessi». La libertà vera cioè, il vero trionfo, quando tutte le forze son deste, lo dà soltanto la morte. Luigi Ferdinando vuole dunque la morte per ottenere non la corona di Prussia, ma la veramente sua corona d’eroe dionisiaco. Nella morte l’ebbrezza suprema. La sua fede mistica lo conforta a credere esser questo il miglior modo di giovare alla patria: «ti giuro, quel che arde di fiato in me io lo restituisco all’etere, e così agirà in voi come liberissima forza». E si fa uccidere a Saalfeld, alba di Jena. Già fin dal 1913 quindi Fritz von Unruh senza smarrirsi nelle stazioni intermedie andava al centro del dramma espressionista indovinandone il problema ultimo: dell’anima umana governata dalla legge morale di fronte al turbine delle forze vitali scatenate.
Nel Principe Luigi Ferdinando il dovere salva l’ordine, almeno colla morte, nella tragedia «Una stirpe» il caos trabocca irresistibilmente
sommergendo ogni limite. Era intanto scoppiata la guerra europea. Avrebbe dovuto Una stirpe (estate 1915 - autunno 1916, pubblicata nel 1918) esser prima parte d’una monumentale trilogia ideata per riassumere, quasi mistero religioso, il travaglio storico della nostra età. Comparve invece successivamente (1920) sol più la seconda parte «Piazza». Una stirpe è d’una semplicità lineare, che rammenta, anzi volutamente richiama, la tragedia greca. L’azione è tutta interna; come la scena non muta mai, così i personaggi appena si muovono. Anonimi essi sono, perchè il loro non è dramma particolare: la madre, il figlio maggiore, il figlio vile, il figlio minore, la figlia, due ufficiali, soldati. E nessun vincolo di tempo o di costume. Scena un camposanto sulla cima d’una montagna, a notte. La madre vi ha seppellito un figlio caduto combattendo da eroe. Dalla valle, dove la battaglia continua, le portan davanti due altri figli, i quali, l’uno per delitti di lussuria, l’altro per colpa di codardia, dovranno esser l’indomani giustiziati. La vera azione incomincia quando i soldati si ritirano dopo aver legato al cancello del cimitero i due rei, e si riduce a un duello disperato tra la madre ed il figlio maggiore. Non l’ha spinto al delitto malvagità, bensì il soverchio ardore vitale. La colpa è della vita, di coloro che danno la vita, e di coloro che sfrenano nel cuore umano tutte le tempestose passioni della vita. «Prima ci portano su vette prossime al sole, e poi quando il nostro petto s’è disabituato dell’aria della valle, quando non sappiamo più tollerare il giogo quotidiano, ci trafiggono il cuore colle leggi». Due quindi i nemici mortali dell’uomo: la società e la madre. La società è un mostro inafferrabile e lontano; presente, persona è la madre; contro di essa con cieco furore si slancia il figlio. Lo spalleggia la sorella. Le concupiscenze per anni mortificate si destano in lei, e poichè il fratello anelante a vendetta la respinge, è lei a lanciare il sacrilego grido: «Se la strozzassimo questa donna!»
La madre infatti è la resistenza, rappresenta il limite, la legge inibisce. E nel suo impeto il figlio è deciso a spezzare ogni ostacolo. Che cosa vuole Vuole l’assoluto, vuole il caos, dove nel ribollir d’ogni elemento non c’è distinzione tra male e bene, tra essere ed essere, perchè tutto è forza pura, verità reale. Si dice pronto ad uccider la madre, la quale per distorlo dalla sua strada gli si erge davanti con ingannevoli promesse e anche in questa suprema resa di conti gli parla d’un alito che è in lei, atto a guarirlo. «Quale alito? Dammi questo prodigio!... Frugherò col mio pugno le viscere materne, per cogliervi finalmente la lusinga nascosta dietro ogni promessa».
Dal matricidio lo trattiene nondimeno un timore segreto. Lasciando la sua vittima, sale sull’alto muro del cimitero, e lanciata un’ultima maledizione, annunciando di cercare migliore libertà («... il latteo splendore di soli remoti s’incurva già su di me come un vergine seno, dal quale potrò avere miglior nutrimento che non quello datomi dalla madre per farmi schiavo»), si precipita nella morte. Dal dolore per il figlio sepolto, dalla disperazione per la folle ingratitudine dei figli vivi la madre è trasfigurata in un gigantesco fantasma tragico. Schernendo tutte le ragioni colle quali tentava di difendersi, accusando il padre di viltà, lei di libidine, il figlio l’ha staccata dal suo passato e da sè stessa; respingendola, quand’ella pazza di angoscia voleva ammettere le non ammesse colpe pur di restar con lui, ha negato a lei ogni amore, ha maledetto in lei la maternità; ed ella, perdendo ad uno ad uno i suoi attributi di donna e di madre umana, è impietrata in un simbolo della gran madre del mondo, Gea, inesausta genitrice del male e del bene, terribile strumento della Vita che deve fino a chi sa qual arcana mèta continuare.
Non il figlio impedito dalla contraddizione de’ suoi impulsi e delle sue colpe, ma lei, il simbolo della vita generante, potrà scatenare la lotta rinnovatrice del mondo. Il suicida aveva detto: «E voi anche accuso, che mi comandaste di uccidere». Ripassando dal mito alla storia la madre nel nome di tutte le madri ripete l’accusa contro i rappresentanti della società contemporanea, gli ufficiali, strappa loro di mano il bastone di comando e lo lancia verso l’avvenire: «O corpo materno, corpo così selvaggiamente maledetto e profonda origine d’ogni immanità, devi tu diventare il cuore del cosmo». E’ trafitta dagli ufficiali, ma l’ultimo suo figlio per realizzarne, il vaticinio scatena la rivozione.
Della rivoluzione Piazza mostra il rapido successo e il misero fallimento. Chi porta a rovina Dietrich, il trionfatore d’un giorno, sono gl’idoli della piazza, cioè gli antichi padroni del mondo, che si son messi volontariamente al suo servizio per profittare della nuova ventura. La colpa però della sconfitta spetta anzitutto all’incapacità di Dietrich di dominare sè stesso. Egli, che s’era proposto di dar l’esempio dell’uomo nuovo, si lascia vincere nel più antico dei modi, dalla donna. Le due figlie del vecchio tiranno col loro carattere sensuale l’una, spirituale l’altra lo inducono nel pensiero della redenzione dell’umanità per mezzo del vero amore, che libera il senso risolvendolo nell’anima. Alla conquista teorica non corrisponde la pratica. Il caos si riapre per inghiottire nuovamente l’audace, che aveva tentato di dominarlo.
Non si capisce bene qual terza parte avrebbe dovuto seguire a chiudere la trilogia. Il nucleo dell’opera non è infatti lo sviluppo, l’attuazione d’un’idea (la nascita del cosmo dal caos), è una constatazione e un desiderio. Già la seconda parte è superflua. Per non esserlo. Dietrich avrebbe dovuto aver l’anima di una madre, la volontà della vita creatrice di sempre nuove forme. Invece il suo dramma è il dramma della velleità, cioè della debolezza contemporanea. E non poteva essere altrimenti; Dietrich non poteva vincere, perchè il tempo ha fallito. Il suo rifugio nell’estasi è una barocca corona sopita un pasticcio artistico (1). In fondo Unruh aveva una cosà sola da comunicare: l’angoscia egli l’ha efficacemente concentrata nel mostruoso atto d’accusa del figlio e nel martirio della madre (forse l’idea più originale quest’ultima del dramma espressionista). Che da tanta tortura nascesse il desiderio e magari l’annunzio d’una nuova umanità si comprende. Ma dei contradditori tentativi quotidiani della storia per trovar la sua strada non si fa il dramma. L’arte paga allora caramente la sua presunzione. Unruh si accorse, che lo sforzo immaginativo non basta a creare la tragedia e seppe tacere. Più accorti di lui altri credettero d’aver trovato un filone d’oro e si diedero a scavare gallerie nell’acqua.
La caterva.
Misero in carta quasi unicamente la loro enfasi. Si applicarono con perfetta consapevolezza i principii ormai codificati, si tracciò l’orizzonte espressionista, si svilupparono lo stile e la lingua espressionisti; si parlò di Germania all’avanguardia delle nazioni; si formò l’onorata compagnia dell’avvenire («Il mattino». «L’aratro», «drarat» ecc. si chiamavano i cenacoli sorti qua e là, devoti alla buona causa), e di quei visi feroci tutti ebbero paura o soggezione, e anche i critici maggiori si tennero in guardia con un fare paterno di cauti consiglieri, mentre i minori si misero a soffiar certe trombe così assordanti da togliere agli osannati fin l’ultimo briciolo di cervello. Della critica i non poeti credevano di potersi ridere, perchè avevano in precedenza dichiarato di non voler la perfezione, nè la bellezza, nè l’armonia, nè altrettali virtù dello spregiatissimo spirito, e d’essere non dei realizzatori, ma dei cercatori, dei contemplanti, dei pellegrini. Non si vide mai tanta superbia congiunta con tanta ostentata umiltà.
La loro vera giustificazione (ciò che li rende interessanti cioè) è questa: di non essere dei poeti, ma delle voci del tempo. Voci così immediate, che esplodono come eruzioni telluriche, pura materialità, gridi. I limiti delle arti si confondono. Pittori e scultori scrivon liriche e drammi, e scolpiscono e dipingono e scrivono come se trattassero la stessa materia. E’ invero la stessa materia. Invece di forme, linee, colori, ritmi, conflitti, situazioni, invece di differenziare limitare costruire, questi cacciatori dell’assoluto vogliono l’essenza delle essenze, lo Urerlebnis, il noumeno, cioè l’ineffabile. Tutti «fratelli» anche in arte come in politica, essi si stringono insieme attorno ad uno stagno, dove ribolle il caos della vita, e tentano con un balbettio infantile d’imitare i suoni che danno gli urti delle contemplate forze contrastanti. Poiché, purtroppo, l’ideale è irraggiungibile e la vita quotidiana e limitazione e miseria, essi in veste d’eversori o di sofferenti danno la storia della loro schiavitù e delle loro aspirazioni. I loro drammi si chiamano «una passione», «un cammino», «uno scenario estatico», «un mistero», e son divisi in quadri in stazioni, e talvolta si chiudono con un «Actus phantasticus». Alla fine del lungo viaggio sta Dio, o il suo surrogato la Natura, una natura mistica come il Dio impersonale. Il gran viaggio non può esser compiuto da nessun mortale; e quindi la lunga catena di errori, di atti d’accusa, di maledizioni, di dolore è coronata da un naufragio o da una beatifica visione. E’ la storia eterna dell’uomo questa, e perciò questi drammi sono quasi tutti autobiografici. Ed essendo quella sempre una faccenda personale con Dio, questi drammi si riducono a dei monologhi (o a degli appelli). Come possa venir applicato tutto l’armamentario ormai tradizionale, — contenuto e tecnica, — s’intende di leggeri.
Qualcuno che ha già scritto il suo bravo dramma autobiografico si trova però imbrogliato a proseguite nella carriera di drammaturgo espressionista. E allora, se non ha il muso di bronzo e si ripete, cerca aiuti nella bibbia, saccheggiatissima nella storia civile, nella storia letteraria, nella satira. La storia offre il modo dei travestimenti più efficaci. Così Hermann von Boetticher e Joachim von der Goltz misero bravamente in iscena Federico II di Prussia; W. Eidlitz ricorse a Hölderlin e Hanns Johst a Qrabbe; Max Mohr derise non senza garbo la presunzione americana dell’onnipotenza del danaro; e i misteri a fondo religioso non si contano.
Serietà di sentimenti e vivacità poetica s’avvertono qualche volta nel deserto della novissima rettorica e della convenzionale solennità. I drammi dello scultore Ernst Barlach per es. comunicano davvero qualche cosa del tormento religioso dell’anima nordica, che nelle nebbie dei giorni morti vede una meritata pena per aver negato nel cuore Dio. Il senso delle attese fatali, l’ansia degli indefinibili timori, il peso delle insanabili maledizioni, il concatenamento delle colpe inevitabili sa rendere a tratti Barlach, uno dei pochissimi ai quali Dostojewski e in genere i russi non abbiano data l’indigestione.
Ma d’ordinario qual noia la lettura o la recita d’uno di questi drammi espressionisti tipo. Tutti monotonamente uguali, tutti sconsolatamente vuoti di movimento drammatico, tutti anemici di poesia. La povertà è resa sol più evidente dallo sforzo delle intenzioni, dallo strazio fatto alla lingua e allo stile, dalle pretensiose trovate escogitate por aumentare il valore espressivo dell’opera. Kornfeld ad es. in Cielo e Inferno (1919) vorrebbe avere due scene sovrapposte: quello di sotto per gli avvenimenti materiali, quella di sopra per gli avvenimenti trascendenti. Strano, questo ricorrere all’esteriorità per vincere l’esteriorità, questo timore della materia nei superatori di essa. Si vede pure come talvolta avvertano d’aver superato assai meno di quanto non amino credere. Wedekind sembra un ingenuo uomo ormai a tanti di questi giovinetti tutti visioni e rapimenti.
Bronner e Brecht.
Ebbene, sforza sforza ecco saltar fuori (un Kokoschka, un Bronner o anche Brecht) chi dà colla sensualità e la violenza più crasse in una sorta di assai grossolano naturalismo. Anche da questa parte quindi il cerchio si chiude; e nondimeno si accende una gara per ottener sempre più sensazione, credendo di trovare qui la terra promessa, l’uomo nuovo. Bronner lo vede in un Parricida, un ragazzo di diciott’anni, che per incestuoso amore della madre uccide il padre tirannico. Brecht lo celebra in un Baal, un arciegoista briaco d’ogni libidine, spacciatoci per poeta (è il super-uomo di una volta), che vediamo passare instancabilmente dal letto all’osteria e da una vergogna all’altra, finchè crepa abbandonato da tutti, come un cane. In siffatti eroi noi dovremmo evidentemente ammirare l’incoercibile spirito vitale, che si afferma al disopra d’ogni limite e a costo d’ogni sofferenza. Ma per portare a tali eroi quel minimo d’interesse, se non d’amore, necessario per derivare dai loro casi qualche sugo, magari al prezzo di trangugiare le più disgustose e inutili volgarità bisognerebbe che da loro tralucesse una scintilla almeno della conclamata nuova umanità. Ma perchè uccide il parricida di Bronner? Perchè ha un Oidipus-Komplex, perchè cioè il suo autore crede al vangelo di Freud; esser fatale che il figlio s’innamori della madre, che la madre desideri carnalmente il figlio e che il padre tra i due imbrogli; e il poeta s’è messo in testa che solo quella tale operazione dell’accoppamento del padre renda possibile «La nascita della Giovinezza». E perchè Baal conduce quella sua vita di porco? Per insegnare agli uomini schiavi delle abitudini, del danaro, dei pregiudizi, delle debolezze vili la vera libertà. Una specie di Cristo si vede!
Vanno per la maggiore ora, Bronner e Brecht nei circoli dell’avvenire, in Germania. Non ignari dell’arte dell’effetto, con talento di regie, sanno chiudere in lavori di ritmo cinematografico quel che può stuzzicare i nervi sovreccitati e le immaginazioni avide di quei provinciali del gusto, che hanno la loro patria naturale tra l’asfalto e i camini delle grandi città. Aveva cominciato Brecht abbastanza simpaticamente con certi Tamburi nella notte, dove mostrava colla storia d’un reduce creduto morto in guerra e preso dal turbine rivoluzionario sazietà d’ogni tumulto e desiderio d’una modesta, ma intima umanità. (Consimile sazietà e consimile desiderio mostrò anche Toller in due drammi scritti in carcere Massa - Uomo e Eugenio Kinkemann, artisticamente superiori alla Trasformazione). Le speranze fatte concepire allora di sè dal giovane bavarese non si sono finora avverate. E’ ben vero che dei solleciti critici seguirono con crescente soddisfazione la sua carriera senza smarrirsi in un intricatissimo Folto, e arrivando a proclamare La Vita di Edoardo II d’Inghilterra, — un’orgia d’abbiezioni e di dolori accumulati con insaziabile sedismo — superiore all’originale di Chr. Marlowe. Ma le facili digestioni di tali critici dimostrano appunto come certi cibi da loro proclamati pantagruelici siano — quanto a sostanza artistica — appena delle frittelline piene d’aria.
Il viso decadente sotto la maschera avveniristica.
Tutte le stanchezze e i capricci della decadenza insomma sono in questi pretesi pionieri dell’avvenire. Paiono animati da un’energia che li dovrebbe portar sopra le stelle, e poi si fermano al primo bicchier di vino e alla prima gonnella; paiono dei cavalieri del Graal, e poi a spogliarli dell’armatura vedete loro addosso dei cenci da rigattiere: paiono dei sicurissimi argonauti, e poi la più
semplice trappola di sentimento li fa smarrire in un labirinto.
Leggete i drammi di Antonio Wildgans. Povertà, Amore, Dies irae, Caino (i successi a teatro dicono poco quassù, dove un abile régisseur può far parere un capolavoro a un pubblico disorientato e indifferente qualsiasi giocherello; e son fuochi di paglia). Uno spirito che tenderebbe al chiaro, al ben architettato, così immediatamente sensuale da aver sempre bisogno d’una base circonstanziatamente realistica; un poeta esperto del ritmo che sa essere con scaltrezza sentimentale e raffinato. Ebbene, l’ottimo austriaco è stato punto dalla tarantola dei tormenti strindberghiani e da quell’altra delle estasi espressioniste e i suoi drammi sono delle truculenti amplificazioni immaginative di assai banali conflitti. Nulla di più falso dei coronamenti mistici delle sue azioni. E perchè? Perchè questo traduttore di Baudelaire e di Pascoli cerca con ostentato sforzo di muscoli d’alzare ai cieli visionari un capo, che più volentieri si volgerebbe a qualche sottile vicenda terrena.
Leggete «I Sognatori» di Robert Musil. Un uomo fine, che non condivide tante delle ubbie espressioniste, che sa impiantare le sue brave situazioni drammatiche e caratterizzare personaggi e stati d’anima. Ebbene il suo lungo dramma (240 pagine), è tipico dell’errare senza salvezza in un labirinto di questi prigionieri del sentimento. In una villa di campagna due uomini e due donne combattono lentamente una singolare battaglia. Uno degli uomini. Anselmo, è riparato qui presso l’amico colla sorella della moglie di costui. Il mondo crede che la fuggitiva voglia ottenere il divorzio per sposare l’amante. Ma Regine, un’indefinibile creatura mezzo donna e mezzo coboldo, s’è decisa al mal passo solo per noia del marito, non per amore del seduttore, da cui sa di non essere amata. Ne questi ha ceduto ad un impulso vano: ha obbedito ad una sua terribile legge interiore, la quale gli ha già fatto interrompere una promettente carriera scientifica e lo spinge a sperimentare con donne e con uomini la sua forza di seduzione. Seduzione dei sentimenti più che altro, dominio degli spiriti, desiderio di rompere d’ogni intorno i confini del reale e di tentar tutte le possibilità realizzabili con qualsiasi forza. («Tutto ciò che avviene realmente non ha nessuna importanza di fronte a ciò che potrebbe accadere»). Accanto a tal uomo tutti si sentono disarmati. Basta ch’egli sgrani la sua filosofia («... Le menzogne non sono verità, ma per il resto sono tutto». — «Gli uomini passionali non hanno sentimenti, ma tempeste caotiche di forze» — «Sentimento vero e sentimento falso sono in fondo quasi la stessa cosa»), basta ch’egli comunichi cogli occhi a qualcuno la sua infernale inquietudine per guadagnarlo. Tommaso, l’amico ospite, non è affatto uno sciocco, vede chiaramente che Anselmo è un sofista, un falsario, assiste angosciato alla caduta della propria moglie, un’onesta, nobile, grave donna, nei lacci del seduttore, e pure non ha la forza di resistergli. Un’acre voluttà della sofferenza, il fascino dell’abisso lo disarmano. «Esser abbandonati è bello! Perder tutto è bello! Essere allo strenuo della propria saggezza è bello!». Invano il cognato, accorso per salvare la moglie Regine e i parenti dalla scandalosa commedia si sforza d’indurlo ad agire contro il «cacciatore di bestie» e tratta l’intelligente Tommaso di febbricitante in mezzo a dei malati. Avendo il torto di rappresentare il rigidismo legale, l’ordine, la realtà, Tommaso gli può rispondere: «Penso che contro uomini della tua fatta bisogna lottare per il diritto d’esser di tanto in tanto malati». Anselmo è fra tutti il più forte, perchè è il più logico nell’effettuare quella fuga nell’irreale, cui tutti agognano. E nelle ultime battute del dramma Tommaso ne riassume bene il senso, dicendo che tutti in quella casa sono dei sognatori. «Paiono uomini insensibili questi. Camminano qua e là, guardano quanto fanno gli altri uomini che nel mondo si sentono a casa loro, e portano in sè qualcosa d’ignoto agli altri. Un immergersi, ogni minuto, in ogni cosa fin giù in un abisso senza fondo. E tuttavia non affondare. Lo stato originario della creazione». Il dramma finisce cosi. Maria è partita per raggiungere Anselmo, Regine resta accanto a Tommaso; la serie delle complicazioni, delle lotte, degli stupori, delle rese può ricominciare.
Concentrano I Sognatori, come il fuoco d’una lente i raggi, i motivi essenziali del dramma espressionista. Anselmo insomma rappresenta il caos, dal quale questi spiriti non sanno difendersi. Vivere è un cadere nell’abisso senza fondo della materia primigenia che si disfa e si rinnova continuamente; è un volere l’infinito possibile e non il determinato reale, un correre a cavallo dell’assoluto verso il paese delle albe senza giorno. Arte è la notazione musicale di questi ineffabili stati d’animo. Vivere e creare sono un unico sogno mistico. E chiaramente mostrano I Sognatori come questo indirizzo dell’arte contemporanea non apra un avvenire, ma piuttosto rispecchi le perplessità del presente, le angosce e le stanchezze del presente, e, appunto per l’ambizione delle sue velleità, la miseria del presente.
- ↑ Dopo Fritz von Unruh cadrebbe opportuno accennare almeno ai drammi di Franz Werfel. Solo da poco ha tentato il teatro. L’Uomo speculare e Il Cortile di giuoco erano fantasie inaccessibili alla scena. Il Silenzioso ha avuto a suo tempo un successo di stima e nessuno pensa più a riprenderlo. Uomini eccezionalissimi, conflitti quasi disumani; giuochi oscuri in luci sublunari; il meglio alcune espansioni liriche, fiori di serra esse pure. L’ultimo lavoro drammatico di Werfel Juarez e Massimiliano, dato con gran successo (anche per merito di Leinhardt) è un romanzo in iscene, che ricorda il Verdi di Werfel stesso. Anche qui una tesi e un contrasto risolutamente accentuato. Opera di pregio, ma un po’ un’avventura d’uno scrittore di talento.