Il Baretti - Anno II, n. 10/Stile del settecento
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STILE DEL SETTECENTO
Il nostro settecento non si conchiude che in un problema centrale: è possibile costruire una storia del romanticismo italiano?
La risoluzione di questo problema si tradurrebbe in una vera e propria negazione stilistica del romanticismo tedesco: vedere come il romanticismo italiano sia sboccato in uno stile, o, quantomeno in una coscienza perentoria del problema dello stile (Leopardi) parrebbe lo stesso che negare la concretezza cui ambisce la filosofia tedesca del romanticismo.
Ma il problema così impostato ha scarsi limiti di individuazione; presuppone una interpretazione assolutamente nuova di Goethe, presuppone cioè una giustificazione teologica della storia della letteratura tedesca costruita sul piano astratto in cui Goethe diventa il punto di convergenza e di risoluzione del romanticismo tedesco. Questo senza contare che una storia della letteratura europea, se vuol essere veramente storia, deve rinunziare ad ogni limite grettamente etnografico per la sua stessa ansia di voler conciliare l’apparente chiusura dello spirito nazionale, cosi fiaccamente recalcitrante all’universale storico, in un clima razionale ed antiparticolaristico.
Ecco perchè si rinunzia, senza scrupolo, alla tentazione di costruire una storia della letteratura italiana più recente sulla falsariga dell’equivoco enunciato, quantunque lo sviluppo del rinascimento italiano si ponga con irresistibile evidenza come una filosofia che cerchi la propria dignità nell’essere poesia (Campanella) e come una poesia che voglia superare il suo clima esclusivamente fantastico nell’assoluto e nel divino della filosofia (Bruno). Se questa suprema esigenza appare or chiusa e sorda, or declamativa ed effimeramente entusiastica nel Campanella e nel Bruno, non si può veramente negare che si componga nella chiarezza espressiva e quindi effettivamente stilistica del Galilei.
Il problema essenziale del Galilei ha tutta l’aria di porsi così: come può lo stile scientifico tradursi e separarsi nella fantasia? Ma su questa traccia c’è il caso di costruire un Galilei lirico che in ultima analisi risulterebbe frammentario ed arbitrario.
Gli è che nel seicento la poesia e il pensiero rimangono ancora visibilmente straniati: ma si direbbe che meditino già alla preparazione dell’estetica di Gioberti!
Il meraviglioso (Marini) e il razionale (Galilei) appaiono ancora meccanicamente contaminati nell’aspirazione (semplicemente nell’aspirazione!) del Campanella. E questa aspirazione è in certo senso romantica: ma romantica fino ad un certo punto, fino a quel punto cioè che non si ritrovi e si equilibrii nella sua naturale sede, che è quella stilistica.
Sarebbe, facile costruire una storia dell’intenzione romantica in Italia: e si potrebbe cominciare da Dante, solo che Dante non avesse scritto che le sue prime cantiche della Commedia. La verità è che neppure la aspirazione platonico e neo-platonica del cinquecento è riuscita a non renderà visibili i limiti di una contaminazione improvvisata e provvisoria dello Verità e della Bellezza.
Il momento più chiaro e più fruttuoso di questa aspirazione romantica è il settecento: ed è proprio in questo secolo che la duplicità presunta ed irreparabile del problema del Bello e del Vero comincia a levigarsi fino alla indistinzione. E’ la storia dello stile del settecento che può, e solo in un certo particolare senso, autorizzarsi ad affermare che il romanticismo italiano non ha veramente il suo terminus a quo nell’ingenuo proclama del Berchet e che, in quel piatto e sereno e cosi utilmente dilettantistico secolo decimottovo italiano, oltre all’amabilità politica dei suoi principi riformatori, ed ai poemi economici e giuridici che si fanno eco da Napoli a Milano, oltre a questa idillica filantropia disarmata ed inarmabile, si prepara torbidamente, ma decisamente, lo stilo del risorgimento italiano, si fa, cioè, il nostro romanticismo.
Che esso venga prima o dopo di quello tedesco o di quello inglese è una pura questione di minuzia cronologica che non ci sentiamo davvero, così poveri di pazienza come siamo, di affrontare.
Questa storia letteraria del settecento è veramente felice perchè non possiede quelle grandissime figure di eccezionale rilievo che si pigliano tutto per se e ti disorientano e ti incantano e ti fanno perdere con molta prepotenza il filo della storia. E’ un secolo, questo, di grandi e buoni ed assai utili manovali. Ed è, per questo, più alto a diventare storia.
In questo clima non torrido da sfumare i contorni, nè gelido da cristallizzarli, è più facile ripigliare i problemi lasciati insoluti dal seicento.
In Bruno c’era una grande disposizione alla poesia: ma l’opera del Bruno si fa recalcitrante ad un effettivo stile dello poesia, allorquando acquisto coscienza del suo essere letterario, quando si sente chiusa nella carcere metrica. Si irrigidisce in un puro esercizio gnomico: diventa antifantastica per elezione e quindi grettamente realistica, grossolanamente satirica, impacciata ed impacciante. La fantasia del Bruno si risolve in un piano superiore: si fa intuizione di verità, ma si universaleggia e, ribelle al puro individuale lirico, non si traduce mai in istile e si esercita vistosamente e tragicamente nell’astrattezza del sentimento puro.
Questa aspirazione ad un filosofia-lirica si affina e scaltrisce in Campanella: ma non quanto basti. Declama troppo il suo essere «sagace amante del ben vero e bello». Ma questa protesta rimane assolutamente inadeguata ai risultati della sua poesia. Questa realtà di cui si proclama «conoscitore e fattivo» si va disciogliendo più che in una mitologia in una mitografia: i versi che amano cantare «le virtù, gli arcani, e le grandezze di Dio come facea la prisca etate» hanno teoreticamente negato la possibilità di una libertà lirica e quindi di una fantasia: Dio ha composto nello spazio la commedia universale e
l’arte umana seguendo norma tale
all’autor del medesmo satisfece.
Questa letteratura campanelliana sta agli antipodi della negazione del Bruno: che Bruno è reale anche nella sua astratta prassi fantastica mentre Campanella ha negato la fantasia nella letteratura e nel ripiego apologetico.
Il seicento ha bisogno di trovare un suo equilibrio: e il suo equilibrio è nella sua stanchezza. Ha bisogno che alla prodigalità fantastica del Marini, alla sua mancanza di linea ideale, alla tua prepotenza sensoriale risponda la reazione del Chiabrera, di questo Marini disilluso, disincantato e stanco; e che il tono fantastico scada ancora e si mortifichi in Testi, fino a quando non abbia preso contatto con un limite fisico nel melodramma del Rinuccini.
Marini era lo sviluppo unilaterale dell’arbitrio fantastico dell’Ariosto: era la analisi e la condanna dell’Orlando furioso; ed il seicento deve ritornare ad Ariosto per ripigliare contatto effettivo con la sua vita; ma deve ritornare all’altro Ariosto, non quello della pura fantasia e del puro irrazionale ma a quello che di tratto in tratto irrompe ironico, bonario e razionale ad equilibrare il costrutto assurdo del poema.
Bisogna che il seicento dica qualcosa in Tassoni, che neghi la sua illusione e che si riveda caricaturato e modificato in quella poesia che rifà in ispiccioli il grave problema della fantasia che è principio e fine a se stessa. Bisogna che si veda contraffatto e contorto nella poesia burlesca.
La seconda metà del seicento, se per un verso ripiglia fiato nel sentimento del Filicaia, prepara, dall’altro, al settecento la tremenda arma della satira con Gigli; e nel Gigli, l’antirettorico, pare si inizi uno dei caratteri più tipici della letteratura settecentesca: la fusione della fantasia col ideologismo razionale.
Riappare cosi, martoriante e martoriata e quindi più viva, la posizione preromantica della prima metà del seicento.
Il secentismo, caricatura di uno degli aspetti del seicento, in quanto prassi di fantasia, mancava, per un effettivo rendimento stilistico, di una coscienza critica della fantasia: il settecento ripiglierà criticamente il problema della fantasia. Il secentismo è la fantasia come una invenzione: la fantasia risolta nell’immagine; è puramente trascendentale in quanto mera strumentalità dell’analogia.
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Il settecento scaturisce tutto dalla bacchetta magica del Vico. Ma il settecento negherà Vico così come il Vico aveva negato la poesia: non il Vico delle poesie dedicatorie, intendiamoci, ma il Vico della scienza nuova!
In Vico non c’è grado tra poesia e filosofia nel senso che si intende: che tra fantasia e ragione non può esserci intesa quando la ragione è li, pronta, a contestare alla fantasia la sua funzione totalitaria ed universale. Il factum, in ultima analisi, è verum solo in sede razionale: tutto l’antiromanticismo vichiano è fermo ancora al pregiudizio peripatetico dell’äistesis. Il settecento è legato al Vico in quanto la sua attenzione sia rivolta al problema della fantasia: ma supera il Vico in quanto si sforza di conquistare la poesia come verità, si sforza cioè di assolutizzare la fantasia: il bello come vero e quindi bene. In questo senso il settecento è più platonico del cinquecento.
La sua opposizione al Vico nasce poi da una più matura coscienza stilistica: in Vico non c’è posto per un problema dello stile, come problema dell’unità (il problema dello stile è un problema schiettamente platonico) ed il settecento è incaponito in questo problema dell’unità. Chi potrebbe, ad esempio, intendere l’Alfieri fuori da questo significato stilistico dell’autobiografia? Gli scrittori più maturi del settecento ricercano il processo della propria personalità sulla traccia di una pura indagine stilistica (V. il Goldoni ad esempio).
Il settecento va, anche, oltre al puro problema del Vico, della poesia come fantasia: ricerca nella poesia il poiéin, il fare (Parini). Se Vico è l’apposizione, l’ultima e la più vigorosa opposizione peripatetica al rinascimento platonico, il settecento è la più ardita negazione dell’estetica vichiana. E’ negatore anche quando residuati moralistici e civili, come forme perniciosamente avventizie, impediscano alla sua letteratura di conquistarsi uno stile: anche quando il secolo minacci di soffocare attorno al più illustre ed appariscente frutto dell'estetica vichiana che è il Metastasio.
Metastasio è colui che si sforza di tradurre in uno stile l’estetica del Vico e l’Arcadia è il segno della sua influenza e della sua prepotenza. Questo mondo intermedio tra i bestioni ed i sapienti non può essere che il bosco parrasio: il semplice, il primitivo, l’idillio; e, quindi, la trasposizione intenzionale dell’orrido, del brutale, del notturno e del funerario. Tutto ciò nasce da questa matrice vichiana.
Metastasio è lo sbocco naturale di questa estetica del luogo comune: il melodico, il grazioso, la maschera, il patetico, non sono che aspetti di un lirismo che non può diventare lirica perchè tagliato fuori da ogni dignità di ragione.
Il settecento è, legittimamente, la esasperazione contro la dittatura dell’Arcadia, del Vico e del Metastasio.
Ma se questa esperienza antiarcadica del settecento si fa coscienza critica non riesce ancora a farsi prassi stilistica. Solo l’ottocento tradurrà in atto l’aspirazione romantica del settecento, ma non nell’ufficiale romanticismo, ma più in là, come vedremo. Il settecento nel suo aspetto critico è molto cauto però: cerca un equilibrio tra Metastasio ed Alfieri, cerca, cioè di superare contemporaneamente il tragico melodico ed il tragico psicologico. Di là da questa opposizione tra passione e melodia le prime conquiste sono segnate dal Parini.
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Ma Parini offre rilevanti punti di presa per una più minuta inchiesta del problema stilistico. La presenza del razionale è in lui rilevante a tal punto da impedirci di scorgere con chiarezza sufficiente il significato della sua lirica ed il significato lirico dell’opera sua. Guardate con quanta ferocia il Parini non discioglie il vecchio mondo mitologico servendosene non come un mezzo ed un appiglio ironico, ma addirittura come di un mezzo caricaturale. La mitologia del Parini è lo sfondo, l’aria ed in certo modo, la decorazione del suo processo satirico: certe volte l’ironia non gli basta e deve ricorrere alla satira ed alla caricatura. Questo materiale di eccitamento gli viene fornito dal mito classico. Or questa posizione anticlassica in Parini e naturalmente riflessa e tradisce un nodo critico non ancora risolto nel suo stile. Dice qualcosa di più dell’antimitologismo manzoniano, ad esempio, ma dice sempre qualcosa di meno dell’amitologismo della poesia leopardiana.
Il nodo critico del Parini consiste nella irrisoluzione del problema della fantasia: e questa opacità è in tutto il secolo, malgrado l’estetica vichiana abbia cercato con un certo affanno di porlo.
Il Gravina, poniamo, che combatte l’idea mistica del secentismo anche quando canonizzi per l'Arcadia e cerchi di strappare alla fantasia il suo dominio così tirannicamente esercitato è sempre più cauto del Vico a lasciare nel problema della fantasia uno spiraglio pel domani.
«La poesia — egli dice — ci tiene disposti verso il finto nel modo come sogliamo essere disposti verso il vero» (Ragion Poetica - I. 2).
Guardate come il Gravina ci lascia indovinare una risoluzione ulteriore di questo genere: la creazione fantastica tende ad assumere valore uguale a quello della realtà percepita.
Questa tesi è in fondo la tesi del più tipico romanticismo inglese (Wilde). Ed il Gravina può conchiudere che l’arte sia laddove l’ animo abbracci la favola come vera e reale. E’ proprio qui che viene anticipata la risoluzione della polemica Carlo Gozzi-Goldoni: in questa integrazione del problema fantastico come problema che abbia il suo centro nella conquista di uno sua realtà ex acquo posta con la realtà di ragione. L’Arcadia non si è sforzata, quanto doveva, a costruire uno stile della realtà fantastica come realtà dello fantasia, sviluppando così i germi dell’estetica del Gravina.
Ma germi, piccoli germi subito soffocati: quando il Gravina sostiene il fantastico come coerenza (come verisimiglianza in fondo!) è ancora il maestro di poetica dell’Arcadia: la verità fantastica commisurandosi e vagliandosi sulla realtà conoscitiva vi si perde ed isterilisce, rientra nell’ambito odioso del modello e dello schema. Ed anche quando il Metastasio si sia sforzato di superare il modello e lo schema non si può dire che abbia in animo di superare l’equivoco della verisimiglianza. La preoccupazione, del Gravina ( ed è un po’ la preoccupazione di quasi tutta l’estetica del settecento) è quella di cercare una legge della fantasia: i personaggi omerici, egli opina, sono realmente fantastici e quindi fantasticamente reali, perchè sono costruiti in un equilibrio psicologico che li pone nell’ambito della normalità; «quei che espongono gli animi fissi sempre in un punto, o che scolpiscono l’eccesso e la perseveranza costante della virtù o del vizio nelle persone introdotte in tutti i casi e in tutte le occasioni» (V. I, 6) costoro peccano contro la coerenza fantastica che è legge di normalità.
Questo accento polemico al secentismo acquista maggior valore di persuasione in quanto si rivolge in pari tempo al formalismo. Al seicento quindi rimprovera un eccesso psicologico: la sua interpretazione della meraviglia fine della poesia arriva qui. Il significato della favola è sempre per lui limitato da una partecipazione dell’individuale fantastico con l’universale razionale. In questo senso si può dire che il settecento nell’estetica del Gravina tenti una conciliazione notevolissima tra il reale (concetto) e l’ideale (favola), tenti, per intenderci storicamente, una contaminazione ed una utilizzazione sintetica della fantasia pura (seicento) con la mimesi naturalistica (cinquecento).
L’Arcadia non riuscì a costruirsi il poeta perchè’ fu agitata da molti scrupoli teoretici ed in particolar modo dalla rettorica che veniva contornandosi e gelidizzandosi attorno all’estetica del Gravina.
L’Arcadia in questo senso tradusse l’estetica in rettorica: Vico in Gravina.
Ed è qui dove va ricercata, tra l’altro, la grande sperequazione stilistica del settecento in questa presenza corpulenta dello scrupolo critico al centro dell’ispirazione: Metastasio e Maffei (il melico e il tragico): Frugani ed Alfieri (il dolce e l’aspro): Goldoni e Parini ( il mondo come è il mondo come dovrebbe essere).
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Questi rapidi lineamenti del problema stilistico del settecento non avrebbero significato alcuno ove non fossero rivolti a risolvere l’equivoco del romanticismo dottrinario, cioè la permanenza di un individuato problema critico al fondo dell’esperienza artistica e fossero quindi il tentativo di ricerca di un romanticismo reale, cioè di un settecento che si conquista o cerca di conquistarti una massima consapevolezza del processo lirico come processo assoluto della vita espresso nella individualità della creazione: lo stile.
Su questa linea d’intesa potrebbe esser molto facile sbarazzarci dell’equivoco del romanticismo tedesco: la filosofia che si fa arte. Il passaggio cioè da un universale concreto ad un universale astratto.
La originalità del romanticismo italiano sta nella sua umiltà d’origine e nella sua grama impostazione logica e dialettica: l’arte si sforza di diventare verità.
E’ il processo della fantasia che non vuol rimanere chiusa nei suoi limiti formali ed aspira non solo alla sua verità ma alla verità.
Ed è questo, come vedremo, il problema risolto dal Leopardi. Or l’interpretazione del concreto romanticismo leopardiano deve necessariamente poggiare su questi precedenti. Il secolo XIX deve ritrovarsi nel travaglio del secolo XVIII.
Pietro Mignosi.