Il Baretti - Anno II, n. 10/Cinema scuola di pittura

Raffaello Franchi

Cinema scuola di pittura ../Aspetti del nuovo Mac Orlan IncludiIntestazione 19 marzo 2020 100% Da definire

Aspetti del nuovo Mac Orlan

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Cinema, scuola di pittura.

Una sera, poco tempo fa, camminando a fianco dell’amico Somarè per le chiare vie di Firenze notturna, discorrevo perdutamente di molte cose avendo dimesso ogni proposito d’immediato lavoro.

Ci sostenevano, quasi inavvertiti, ricordi comuni vicini e lontani. Questi ci riportavano alla mia scoperta di Milano, agli erramenti lungo i Bastioni, tra gli alberi tondi e golosi di verde intenso, meno vegetale e tenero del verde toscano, ma più vivace e stupefacente a conforto e a sfondo della città meccanica.

Quanto agli altri, il più recente, tanto da sentitivi completamente immersi, era la visione di sedici tele di Paul Cézanne, guardate in tre salette d’esposizione, in un vecchio palazzo fiorentino.

Ora Somarè, ispirato dalla notte stellata, dove par che le parole di buon accento e d’antica forma s’effondano a gara con le cristalline apparenze del cielo e paiono cozzare, dimostrando ed esaltandosi di lor verità, in qualcosa di veramente metallico e duro, mi narrava la delusione patita di fronte alla pittura francese dell’Ottocento. E come se volesse scansare, quasi per un senso di delicatezza verso l’ospite che ancor non c’era stato e a cui bisognava offrire il piacere d’una conversazione fondata su termini d’intesa assai generici e vaghi, la responsabilità di un giudizio troppo a ridosso del vero, egli si compiaceva a ridurmi tutto in una materia unica e brillante; paesaggi autentici e boschi pitturati; avvenimenti di vere folle o di popolose acqueforti...

Una felicità felice principiava a possederci attraverso il riconoscimento palmare dell’arte nostra, la letteratura, che ricreava tutta Parigi, volto per volto, tegola per tegola. Di più, come le parole esclamate e non scritte profonderanno intorno a noi echi di bellezza non controllabile; il mondo violentemente coloristico di Zola balzava all’improvviso sullo stesso piano di certe incise figure stendhaliane, dandoci l’impressione di aver fornito li per li, e per uno spropositato soffio di grazia, lo scrittore veramente universale e completo.

Ironia svelata, voluttuosa e dolorosa d' una grandezza sorretta a due, durante una passeggiata qualsiasi, e che l’inevitabile saluto basterà a rompere come una bolla di sapone troppo grande che anziché staccarsi dalla cannuccia scoppia a fiore dell’acqua sudicia e scarsa.

In effetto il mio compagno sosteneva l’inefficenza della pittura francese dell’Ottocento italiano, basando la sua affermazione sovra un presupposto antimpressionistico ed estensivamente antiromantico, riportando la pittura e non soltanto la pittura ma tutta l’arte al suo principio, all’attimo geniale della nascita, al grado d’impressione che la suscita ed infirmandone, presso i Francesi, le qualità primitive.

Ora convien dire che letteralmente intendersi era una meraviglia, nient’altro che a pensare una di quelle teste dipinte da Vito d’Ancona, con dei rossi cupi sintetici e un profilo scorciato e avverato in pienezza di pasta con non so quale ricordo della grande pittura veneziana. Bastava pensare ai caratteri orgogliosi di questa nostra arte italiana, drammaticamente regionale nelle sue fiorescenze e aspetti esteriori, ma fraterna, sotterra d’una medesima polla.

E bisognava ricordare il passato.

Un Beato Angelico, un Mantegna, un Botticelli, un Giambellino, un Tintoretto, un Caravaggio, per l’imponenza chiaramente espressa delle loro figurazioni, escludevano la possibilità di un godimento fondato soltanto sulla gioia dei colori. Nulla vi era in essi d’illustrativo, ma il soggetto dominato né tuttavia rimpicciolito, soccorso da una potenza di mezzi che in esso si fondeva e si confondeva.

Conseguenza suprema la semplificazione, la sintesi. Soltanto in quanto avveratrice di sintesi l’arte può considerarsi la più grande filosofia se davvero l’ideale ultimo della conoscenza è di poter consistere tutta in una intuizione.

In un’opera d’arte si osserva l’intuizione cui non occorre spazio e il dono di uno spazio nuovo. In questo senso — e non sembrino illogici gli sbalzi di tempo — si può veramente dire che un impressionista, e prendiamo l’esempio classico, di Renoir, non può offrire con altrettante liberalità di regalo uno spazio, aspirandosi egli stesso con tutta la passione e la ragion sufficente del suo lavoro.

Mentre invece nella nascita della Venere botticelliana sono gli angeli, e il gruppo frondoso, e la conchiglia, e il piano marino, le cose da cui la donna scaturisce, mentre per una legge d’equilibrio par che proprio quest’ultima produca i proprii limiti con una celeste leggerezza.

Ecco dunque rivelato, nell’opera di Botticelli, l’oscuro groppo dell’intuizione fattosi luce improvvisa in un centro di ampiezza indefinibile, e il conseguente regalo d’uno spazio concreto nei limiti della composizione perfettamente chiusa.

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Nell’Ottocento italiano, quell’umor di tradizione non cangia sapore diminuendo l’importanza delle sue espressioni in quanto tendono a essere risolutive, séguita a esistere nel quadretto e nella pennellata, e meglio in questa che in quello. Giacché se non è possibile supporre che la Cacciata del Duca d’Atene possa reggere il confronto con una tela di David, bisogna cercare l’eccellenza degli Italiani in quegli argomenti e misure, che offron loro la possibilità di un buon resultato.

Ed é sulla base di un ritratto, del Ciseri o del Tallone, di Fattori o di Lega, che si può battere in breccia la grande macchina romantica d’oltralpe, sia ch’essa esprima i fiori di serra, gli squisiti arabeschi detti neoclassici di un Ingres, sia che accenda le calde improvvisate di un Delacroix.

Datemi un punto d’appoggio — diceva Archimede — e vi solleverò il mondo.

Un punto che sia più punto di un ritrattino ottocentesco nostro è difficile immaginare. E qui, se dovessi in qualche modo cercar la formola di questo costruttivo colore italiano, che anche nei minori artisti tradisce la razza, non saprei far meglio che ricorrere a un metodo esercitato qualche anno fa da una fiorentina Accademia dell’Enciclopedia, secondo il quale l’acqua di seltz si definiva acqua alle corse e il tamarindo malinconia dell’acqua.

Per giungere a qual definizione non so.

Si tratterebbe di ben comprendere la finezza quasi calligrafica e commovente di un Signorini sentendo com’essa non trita, e di sposarne la sua chiarezza, assai spesso addirittura luminosa, ai toni discreti opachi e fondi di Silvestro Lega facendo rispettivamente partecipare i due artisti di alcune comuni qualità, in maniera da escludere, nella luminosità del Signorini, ogni sospetto d’esaltazione letteraria. Accenno al principio di un procedimento che non finirebbe, volendo continuare, se non dopo un assai lungo viaggio. Insomma il macchinoso quadro italiano, del Ciseri, del Cassidi, del Bezzuoli e del Benvenuti sarebbe fallito per non aver gli autori saputo sostenerlo e nutrirlo di uno sfavillante contenuto letterario che si connaturasse furbamente ai mezzi di espressione pittorica e dall’averlo invece assoggettato al puro svolgimento di un tema da scolaretti, dimostrando, appunto, la purezza e l’inadattabilità ai compromessi del loro temperamento pittorico. Si guardi Fattori. Quando i suoi quadri assumono un alto significato umano questo accade per una sublimazione coloristica di un motivo assai modesto. Nulla di più drammatico e largorospirante dei bovi e del grande carro rosso sull’intensa riga turchina del mare. E Fattori partecipa della nostra migliore tradizione quando arriva, come in quest’opera, a consistere nella maggiore semplicità di toni e di linee.

Per gli Italiani una idea plastica si concreta in una forma architetturale, astratta in se medesima, ma capace di commuovere per un insito accento di umanità. Meglio: essi ci rappresentano i drammi in quanto son direttamente traducibili in architetture di segni e di colori, nè più nè meno che i musicisti italiani traducono le loro immaginazioni in puri suoni e gli scrittori in sapor di parole.

Per noi una pittura letteraria, una musica letteraria e, perfino, un letteratura letteraria non si sono mai fuse assieme quanto bastasse a reggerle entrambe in una atmosfera di genialità. Ma fuor di qui basterebbe accennare al poema musicale wagneriano per dare un esempio di fusione mirabile. Quanto poi alla pittura e alla Francia, pensiamo che perfin del cubismo i Francesi hanno fatto un’arte di sottinteso letterario.

Insomma gl’Italiani, nati per subito tradurre la somma delle loro ispirazioni nella rigorosa materia d’ogni arte sono per natura negati al dislocamento favoloso delle lor percezioni e in un periodo storico, come fu quello che distinse il secolo passato, di penosi ricominciamenti, come non mai dovettero i resultati non aver caratteri di parola e di meraviglia.

Resisteva, in cima alla sofferta tenacia, la palese presenza di un certo spirito tradizionale.

L’arte nostra, ch’era stata sempre regionale ritrovando sotterra le comuni e robuste radici italiane si riconosceva principale quasi riaffiorando ora nella luce di un piccolo specchio lontano. Se dovessi fissare una definizione, a uso della suddetta accademia, scriverei vano provincialismo dell’arte. Qualcuno obietterà che non occorreva scomodare l’accademia e il tamarindo. Ma tant’è.

Una legge tra quelle che governano il mondo sembra stabilire che non solamente i fatti delle epoche che ci precedettero debbano acquistare, con ciò che si chiama il sapore storico, un carattere di realtà superiore più incontestabile di quella presente, ma i medesimi piccoli fatti dai quali ci separa appena la distanza di qualche anno. Se la vita in atto, consistente di chiaroscuro, e composta di un chiaro palese e di un’ombra occulta, è il ricordo che ci svela quella seconda presenza.

Per una tal creazione tutta spirituale non è nemmeno necessaria una rigorosa memoria oggettiva. Dal passato si soccorre, nei momenti di maggiore stanchezza che poco ci conforterebbero a vivere e a lavorare, l’avvertimento che l’esistenza ha sempre qualcosa di necessario.

Ma se noi dal passato trasportiamo sin qui sulla sua verità materiale, il frutto di un vecchio travaglio che nella prova del ricordo aveva già acquisito dei formulabili effetti di tenera ombra storica, restituendo in tal modo alla nostra allucinante passione e discussione di tutti i giorni e di tutte le ore, non di rado quest’oggetto tornerà a stemperarsi nella tuttaluce desertica delle cose presenti. E con Somarè che, discorrendo, mi ricreava tutto un mondo, a un modo non del tutto letterario da poi ch’era sostenuto soprattutto sull’effetto vocale e non ben controllabile della parola, ma insomma con qualche suasione e malìa letteraria, evocando e legando assieme coi legittimi e possibili mezzi di un’arte, panorami d’arte, di filosofie, di sentimenti, di città che acquistano nell’assieme delle loro costruzioni un’alta espressione spirituale, le sedici tele del Cézanne, nella loro chiarezza drammatica, rappresentavano nel ricordo più che vicino incombente, il più straordinario ritrovamento di attualità alla distanza di mezzo secolo.

Qualcuno sente l’arte di Cézanne come qualche cosa che bisognava svolgere. In realtà la grandezza di Cézanne consiste precisamente nel fatto che le sue opere mostravano ciascuna il martirio di un’interrogazione per cui non c’era risposta, e la pena di una passione inesausta. Lungi dal paesaggio romantico che già mentre è dipinto principia a vivere di un’antichissima vita e libera inafferrabili gnomi boscherecci dai tronchi secolari dei suoi grandi alberi, anche Cézanne ha momenti di riposo e di creazione totalmente serena nel verdi paesaggi di Provenza, nelle casette a specchio di un paesaggio lacustre.

Ma piuttosto che un senso di saggia vecchiezza, promana da queste opere un gusto di eternità spaziale, come dalle albe che ogni ventiquattr’ore rielaborano il mondo in un fresco miracolo.

All’infuori di questi attimi Paul Cézanne è il pittore irrimediabilmente moderno, la cui gloria s’incasella e vive di vera vita solo nel cuore degli uomini che tentano di lavorare, com’egli seppe, coi pennelli o con la riflessiva immaginazione.

Un uomo, un pittore suscettibile di ritornare attuale fino a questo punto si può rinnegare facilmente, soprattutto per poco tempo, epperò il suo ricordo m’era un incoraggiamento di più a seguir l’amico nella sua aventurosa teoria d’arte. Avventurosa peraltro solo nella valutazione delle singole opere e tuttavia basata sopra l’innegabile verità che gli italiani dell’Ottoccnto non perdettero il senso e la grazia ineffabile della tradizione.

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Nondimeno oggi siamo ancora lontani da una precisa affermazione di un realismo o di un positivismo pittorico di marca italiana a fronte del secolo romantico donatoci dalla Francia. E ne siamo lontani quanto più son visibili i segni della sua nascita e, dirò meglio, le promesse del suo sviluppo. La pittura d’istinto non ci contenta più, quella pittura d’istinto alla quale s’affidavano quasi del tutto i nostri ritrattisti del secolo scorso anche quando affrontavano vittoriosamente una insolita superfice. Oggi la pittura è cerebrale, in qualunque direzione si volgano i differenti gruppi che la esercitano, classici, romantici, impressionisti o futuristi.

Lasciamo al naturale svolgimento di ognuno il compito di fornir domani la risposta alla nostra attesa. La cosa che sembra certa è la non imminenza del genio. Cosi vaste e dissimili son le tendenze, e così lontane da un’espressione riassuntiva che tutte le fonda e le sollevi nella luce di una civiltà!; con di più un interesse da giuocatori d’azzardo a seguirle nei minimi particolari e direi nell’intimo tessuto, così da farci pensare che se un giorno accadesse davvero, per merito di un genio, la fusione gloriosa, una folla d’intellettuali si troverebbe privata del suo giornaliero impiego di intelligenza, del suo quotidiano pane spirituale.

Soffermiamoci un istante a considerare le differenti scuole. Non è necessario classificarle. Metafisiche o campagnole, primitive o coltivatissime, ciò che in esse ci interessa è soprattutto la distanza che le separa da un’espressione risolutiva. In questa comune inadeguatezza consiste anche un loro comune fondo poetico e, si direbbe, uno stile dell’epoca. Stabilita una corrente di simpatia per la nostra pittura contemporanea presa in blocco ecco venirci una voglia disegnarle una scuola generale, che fonda nella verità dei suoi esempi le più diverse aspirazioni: il cinematografo.

Poca gente in Italia s’é occupata sul serio dell’importante fenomeno artistico costituito dal cinematografo che ci presenta ad ora ad ora portentosi ritratti di frutta o di fiori quali nè il Receo nè Mattia Preti seppero mai concepirne di più ricchi e migliori, e giardini settecenteschi, rivissuti nella calda colorazione impressionistica di un Renoir, ed alte, pallide creature che una luce d’incantesimo appiattisce e staglia contro lo schermo danno loro un sapore di tempera, figure che sembrano scivolate dallo studio di Casorati, meravigliosi assiemi pitturali che ricostruiscono tutte le epoche, rammentano tutti i maestri, conciliando epoche e maestri poiché quanto in esse rassomiglia alla cosiddetta materia pittorica non è di questa se non la parte essenziale, il chiaroscuro. Lasciamo da parte la produzione più convenzionale, quella dove attori e scenografi si alternano a voler figurare in una loro arte individuale e meschina anziché adattarsi a quella rappresentazione della vita che, nel cinematografo, se la confrontiamo alle rappresentazioni molto più sintetiche del teatro, può definirsi proustiana mettendo in luce tutti gli imprevisti di un gesto. Ma la ricostruzione di una vecchia Inghilterra come ci viene offerta da Mary Pickford nel Piccolo Lord Fauntieroy o da Douglas Fairbanks nel Robin Hood riassumono, nella compattezza innegabile di un’epoca un tale piacere di ripensamenti artistici da non sapercene immaginare un’eguale in nessuna delle civiltà precedenti.

Il non poter negare la verità di un paesaggio che ci sembri impressionista o romantico, in quanto quel paesaggio non è che la fotografia del vero, ci persuade con evidenza legittima fosse la nostra impressione. Insomma il cinematografo, riproducendo miriadi di tipi, di impressioni, di costumi, d’epoche e d’ambienti, risuscita in vita la diretta ispirazione di interi secoli di pittura universale.

Nessun artista mai ebbe, come i pittori d’oggi, una più formidabile esperienza da fondere in sè risuscitamela in immagini d’arte. Per questo è lecito supporre che la pittura moderna debba lungamente perdersi alla ricerca di una sintesi nuova, di un nuovo stile.

Durante tutto questo tempo sarà difficile affermare che la verità debba chiamarsi classica piuttosto che romantica o viceversa. E’ probabile invece che un’immagine contenga, in potenza, tutti gli stili e la possibilità delle più differenti emozioni. Oggi, mentre si aspetta una rivelazione troppo straordinaria, e mentre dura la meravigliosa rielaborazione cinematografica dell’universo, sarebbe forse azzardato o troppo modesto dir che la vittoria della pittura italiana, delineatasi secondo Somarè in una sorta di nuovo primitivismo durante l’Ottocento si trovi oggi sulla strada d’un conchiusivo sviluppo. Ed è senz’altro meglio considerarla rimandata, sine die.

Raffaello Franchi.