Il Baretti - Anno II, n. 1/La pittura italiana nel primo 800 (parte seconda)

Raffaello Franchi

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Il Baretti - Anno II, n. 1 Lettera sul Potomak

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LA PITTURA ITALIANA NELL’800

Riecco l’Appiani e l’Hayez, e riecco il Bezzuoli che in questo genere di produzione appare singolarmente fornito di quel respiro sospeso in cui l’artista deve vivere quando, avendo staccato l’occhio dal vero, si accinge a tradur questo vero in segno e colore. Il suo gesto ha qualche cosa di sacro, quel suo segno è, nello stesso tempo, una sintesi e una proiezione nel futuro. Questo intendeva Raffaello dipingendo il suo ritratto d’ignota e questo ha inteso anche Giuseppe Bezzuoli ritraendo la baronessa Elisabetta Ricasoli in un dipinto che, forse, trae la sua diretta ispirazione dal capolavoro raffaellesco.

Quando si pensi che, per es., il Benvenuti e il Bezzuoli, ritrattisti insigni, non furono altrettanto abiti costruttori, e si assista a questo associarsi e distribuirsi delle loro migliori qualità in opere di differente origine, si ha un senso perfettamente chiuso, incorniciato e squadrato del loro limite e dei limiti di una grande parte del loro secolo. Secolo che fu, soprattutto, di onestà e di impegno. Una caratteristica della prima metà dell’800, può riscontrarsi nel fatto che mancando a questo periodo la pienezza di geniale urgenza riscontrabile nel seicento e svoltasi in ritmi più fluidi ed eleganti nel secolo successivo, spinse un suo placido scrupolo accademico a dolcezze e finitezze disegnative da rievocare il fantasma di un’arte ben più antica e sospirata, e innegabilmente certi disegni e scorci del Ciseri e del Cassioli ribaluginano non sappiamo quale morbida grazia quattrocentesca. Miracoli della nostalgia, che è una delle reggitrici della bellezza, e che opera da lontananze divenute improvvisamente insostenibili, quando pare che il ricordo del tempo o delta terra sospirata stia per naufragare in un ultimo guizzo di luce dorata, come un definitivo tramonto sull’orlo di un orizzonte marino. E’ allora che la nostalgia, col respiro sospeso dal terrore della perdita, scolpisce le più vivide immagini del ricordo. I segni più felici di questi ritrovamenti si riscontrano nei disegni; e specialmente nei disegni di quegli artisti che nelle composizioni, non reggendo in loro l’afflato della ispirazione inadeguata, ottusero nella pittura le loro qualità migliori. Così il Ciseri, coi suoi deliziosi studi per i Maccabei. Quanto al Ciseri sarebbe però assurdo negare che la frequentazione assidua del disegno, sconfinò qualche volta dalla suggestione breve dello studio, e seppe fondere le parti alle parti in una ricreazione fantastica, sino a concepire il quadro dei Maccabei e la Deposizione di Cristo dei quali si è già parlato.

Ecco creata un’impressione leggermente pànica di una folla di artisti tra i quali i nomi dei ricordati sin qui sono un’esigua parte. Sarà bene accennare come una mostra del ritratto italiano dell’800, fattasi or sono due anni a Venezia in Ca’ di Pesaro, abbia riportato in luce opere notevoli dell’Anna Matteini, di Lattanzio Querena, di Michelangiolo Grigoletti e di altri, e formulando l’augurio che tali rassegne si debbano moltiplicare, per l’onore del nostro paese, in ogni parte d’Italia.

Il Romanticismo e F. Hayez.

Il cosidetto romanticismo, definizione divenuta incerta oggi che ogni superficiale tentativo di ritorno all’antico si chiama classicismo, trovò in Italia temperamenti caldi, smaniosi di volgersi incontro a una bellezza in cui l’ispirazione si mescolasse, dal principio alla fine, bene addentro nella materia, temperamenti anzi bene spesso troppo caldi cosicché poteva succedere di vederli strugger, per troppo calore, in tele nelle quali la novità della ricerca non riusciva ad afferrare la compostezza necessaria a ogni opera d’arte quando questa, come avvenne con Monet in Francia nel periodo impressionistico, non tenda a concretare il mistero delle vibrazioni luminose dando all’atmosfera importanza di cosa concreta e disancorandovi dentro, perdutamente, le più massiccie costruzioni.

Primo, a iniziare la serie dei pittori romantici, fu il veneto Francesco Hayez nato nel 1821 e vissuto in Lombardia.

Come primo romantico, di un’originalità quasi indiscutibile se pensiamo che riuscì ad affermare la propria personalità prima ancora che in Francia apparissero il Dante di Delacroix e la Giovanna d’Arco di Paul Delacroche, Francesco Hayez conobbe i lati positivi e quelli negativi di codesta sua priorità; ma certo quelli positivi ebbero sui negativi ragione.

Infatti se il romanticismo dell’Hayez fu lontano dal turbarsi di quelle deliziose ricerche pittoriche che il Morelli più tardi doveva imparare alle fonti di Delacroix, vero e grande precursore, quest’ultimo, dell’impressionismo e di buona parte della pittura moderna e uomo che ebbe da noi un’influenza addirittura incalcolabile, l’Hayez, la cui opera consistette quasi completamente a far si che una pittura come avrebbe potuto esser quella di Andrea Appiani, succosa ma pur troppo spinta sulla via della decorazione si arginasse dentro una necessità di rappresentazione umana, raggiunse non di rado, e specialmente in disegni e cartoni, i segni di una bellezza classica nel senso superiore della parola, e vorrei dire quattrocentesca.

Ecco i Due Foscari, pittura di piccole dimensioni, dove le piccole figure non offrendo alla mano dell’artista la possibilità di un segno largo da Virtuoso, s’offrono invece a una specie di penosa incisione che richiede poi la ristuccatura di un colore la cui tecnica sappia dell’incausto. In questa pittura di piccoli spazi il colore acquista brillantezza quasi in ragione diretta della sua quantità va dal secondo al quarto ventennio dell’8oo ed è, se scuola si può chiamare, una scuola di libertà.

Accanto e insieme ai romantici debbo parlare, per evidenti ragioni, di pittori che tali non furono o che tali non si possono precisamente chiamare, e dunque, mentre di sfuggita accenno qui al movimento dei puristi, o dei Nazzareni, che sorto in Germania per opera del pittore Overbeek ebbe da noi a suo rappresentante il pittore Luigi Mussini, senese, vissuto fra l’815 e l’891, apro anche una breve parentesi dedicata ai pittori appartenenti a classificazioni secondarie.

Il realismo: Palizzi e Fontanesi.

Il Realismo e il Paesaggio si collegano in intima unione, poichè per essi la pittura italiana si avvia a quella trascuranza del soggetto che per lungo periodo di tempo attrarrà l’attenzione dei critici verso la pittura come fine a se stessa, ed è curioso notare come, con tutto ciò, un paesista della forza a un tempo classica e romantica di Antonio Fontanesi, e uno squisito animalista come Filippo Palizzi, fossero da contare tra i pittori più dotati di una buona e forse profonda umanità. Le fonti più dirette di questi pittori furono certamente Constant Troyon per il Palizzi, e un assieme di Poussin e\di Corot per il Fontanesi, sorgenti, quest’ultime, di piccola apparenza ma di grande e vitalissima forza, evidente se anche per un momento solo riscorriamo tra le immagini riposanti nella nostra memoria i quadri di Corot e ci vediamo sfilare dinanzi, in una fantastica cinematografia, non solo quegli stupefacenti paesaggi romani, nudi, asciutti, essenziali che tutti conosciamo, ma le donne, le contadine italiane di Corot, che il Fattori dovette conoscere imparandovi forse qualcosa, da quell’uomo di mente prontissima e di grande sensibilità ch’egli fu sempre.

Forse la raccolta preziosità delle fonti dettero al Fontanesi e al Palizzi il loro carattere di artisti isolati e cheti.

E’ necessario insistere sul Paesaggio e sul Realismo italiani perchè, ripensando alla speciale fisionomia che assumono pittori della qualità del Morelli, di Tranquillo Cremona, di Giovanni Segantini e di Fattori, di tutti coloro infine che interrompendo una tradizione di puri soggetti ne hanno ritrovata, attraverso una gamma di colori nuovi, una più antica di quanto non fosse sperabile di trovare, mi è sembrata addirittura impossibile la trascuranza di un momento che raccoglie come nello specchio di un lago le circostanti figure, e in sè medesimo raffreddando il carattere passionale di quelle diventa una specie di viva realtà mobile, calamitata, partecipe di tutti i tempi e a tutti i tempi straniera con qualcosa di astrale e di fatato.

Fattori.

Giovanni Fattori è un uomo di ieri; tuttavia, anche dalla breve distanza che ce ne separa, è chiaro come non sia illusoria l’immagine della sua grandezza sul panorama artistico del diciannovesimo secolo. A mano a mono che la civiltà affretta il ritmo della vita si assiste, soprattutto nella vita dello spirito e dell’arte, a una serie di ritorni sempre più fitti. Il ventesimo, secolo, giovine com’è ha già veduto nel futurismo un’arruffata, vertiginosa sintesi di tutti i possibili ritorni, ed è naturale che la tranquilla figura del Fattori ci appaia sufficientemente lontana e delineata.

Impressionismo sentimentale.

Domenico Morelli ebbe un temperamento acceso, passionale, e si potrebbe argomentare come forse per troppo calore la maggior parte delle sue opere mancasse della stringatezza necessaria per conservare alle generazioni future l’espressione di ardori che possono con una punteggiatura larga che voleva essere un indizio di modernità e che spesso, alla modernità vera, stava come molta pittura italiana di quel tempo, che rendendo più vaghe di quanto di per se stesse non fossero le definizioni delle scuole più recenti, le conduceva tutte a un’interpretazione sentimentale.

Mentre al di là delle Alpi gli artisti insistevano ognuno in una teoria e in una determinata ricerca, coloristica o costruttiva, da noi si tentò di umanizzare, disordinatamente, i più rapidi resultati ottenibili dopo un breve contatto con quelle varie ricerche, e come, a esempio, il grosso pubblico francese aveva schernevolmente appioppato il nome di impressionisti a quei pittori che cercavano di rendere il lato meno solido e concreto degli oggetti, gli italiani crearono quel tipo d’arte contro il quale il pubblico aveva creduto di lanciare il suo scherno, con un impressionismo dove la tecnica, molto approssimativa, si adattava alle esigenze del soggetto, piuttostochè questo a quella, e finiva col raggiungere la sua migliore espressione nei paesaggi divisionisti, assolati o coperti di bruma o umidi di rugiada di un Vittore Grubicy o nelle scene di Angelo Morbelli che al divisionismo di Grubicy aggiungeva qualche figurina di sapor millettiano troppo spesso arrenato, però, negli atteggiamenti convenzionali dell’illustrazione.

Questo discorso, che sembra così profondamente negativo, può invece dare origine a qualche buona induzione in favore dell’arte nostra. Già in Vittore Grubicy il divisionismo, così fitto da tornare quasi al gusto classico della pittura distesa, è degno di ritrovare, idealmente, il favore della gente attaccata alla bellezza tradizionale, senza d’altronde venir meno alla continuità dell’interno travaglio inteso a raggiungere una forma nuova, travaglio che non si può rinnegare in omaggio ai gusti degli spettatori.

Da un altro canto Gaetano Previati, Domenico Ranzoni e Tranquillo Cremona, recando nelle loro composizioni elementi romantici, e il Previati, tipi e figure addirittura preraffaelliti negli angeli e nelle donne che si riflettono preziosamente dentro ai compatti cieli dorati, contribuiscono a far vedere l’impressionismo e il romanticismo italiani non come un movimento, che prendesse a lato degli analoghi movimenti francesi, ma come un’inflessione, un raccorciamento, una fusione e una sintesi di quelli. Ora è naturale che, guadagnando del tempo per un verso, molti pittori adoperassero il tempo rimasto in effusioni e in improvvisazioni che sconfinarono da tutte le parti, toccando a volta a volta David e Delacroix, Monet e Millet, e rammenterò il lombardo Cesare Tallone, compositore, ritrattista e paesaggista, tempra fortissima di lavoratore e rappresentante tipico di un periodo in cui, sembrando o acquisite o facilmente imparabili le varie maniere della pittura si credeva di poter tornare al mestiere nel senso grande e antico della parola.

Di seguito ai pittori ricordati più sopra possiamo segnare Giuseppe Pellizza, da Volpedo (1868-1907) i cui dipinti hanno tutti l’impronta di una fresca luminosità, che li apparenta a quelli di Segantini e di Previati, meno ampii e ignificativi dei segantiniani, per una minore imponenza attribuita al soggetto anche quando questo non sia che un paesaggio, il Pellizza è del primo più impressionisticamente luminoso e del secondo più pulito e meno convenzionale nella ricerca degli effetti pittorici. I suoi passaggi si contennero dall’impressionismo al divisionismo, e a prescindere dal Quarto Stato; grande quadro che rappresenta l’avanzata di una massa di scioperanti, i suoi soggetti furono abbastanza intimi per salvarlo dalla pittura descrittiva di genere e mantenerlo in una sorta di proprio alone musicale. Pellizza, che finì dolorosamente la propria esistenza, uccidendosi sulla porta dello studio in seguito alla morte della moglie, ci rappresenta l’esempio di un queto e fertile equilibrio: sdegnoso di rassegnarsi alla sorte del genialoide puro, studiò assiduamente le regole dell’arte sua e, d’altronde, nè l’amicizia di Morbelli, nè la scuola del Fattori, eppoi quella del Tallone, lo deviarono dalla compiuta espressione del suo temperamento. Egli raccolse gli insegnamenti senza mai pensare di poterli sfruttare in un modo disonesto, ed ebbe una tranquilla fiducia in quella realtà che a ciascuno è data e a ciascuno si appalesa, alla condizione di non forzarla mai. Fu, insomma, un umanissimo artista.

Morelli.

Quel che di buono resulta dalle qualità un po’ miste dei pittori italiani dell’800 sono, in generale le loro tarde composizioni, che avendo acquetato l’ardore delle ricerche spesso mal dirette, esprimono la semplice umanità di questi artisti trasportando magari sulla tela insegnamenti lontani e oscuramente ereditati dalle vecchie scuole nazionali.

Evidentemente artisti celebrali e conseguenti come furono la maggior parte dei Francesi non avrebbero mai potuto sperare di veder sorgere, da un momento di abbandono un’opera che trascendesse i loro principi credit: lo i segni di un andezza, e intanto da noi assistiamo, anche in Morelli a importanti passaggi di maniera e del gusto.

In lui, che non ebbe una mente organizzativa, la pittura si commuove e sfiora una moltitudine di problemi, e se anche le sue opere non hanno il marchio delle cose superiori, la separazione dall’una all’altra è talvolta così sensibile che ognuna si presenta da sola al giudizio del critico, giudizio che non può non essere lusinghiero di fronte a una pittura com’è quella del Cristo deriso. Gesù cammina incontro alla folla incosciente e garrula degli irrisori tra cui sono anche delle donne, e la sua attitudine è triste e buona come di chi vive comprendendo e perdonando, ma dietro di lui, sul muro, l’ombra che ne allunga e ne deforma la figura sembra quella di un personaggio sarcastico cui si addicono come ad un compagno gli scherni degli altri, e il Cristo, sotto l’ombra che lo trasfigura e lo tradisce, nel carcere del suo corpo umano che lo espone materialmente al contatto di quegli uomini che non gli credono perchè lo possono toccare, diventa anche più triste, buono e distante.

Dalla destra, in alto, una mano sconosciuta tende contro di lui una canna, e la mano, e la canna si proiettano un’ombra parallela che mentre concorre a chiudere squisitamente la composizione del dipinto, vi aggiunge non so quale soffio di misteriosa poesia.

Se Domenico Morelli, debolissimo, raggiunge una simile affermazione di delicatezza attraverso una carriera lunga e non arginata da una chiara volontà, in Francesco Paolo Michetti (1851) abbiamo l’esempio di un pittore meglio provvisto di qualità plastiche e anche di un senso pànico che lo porta a dipinger figure come nei fedeli che si trascinano all’altare per deporre l’offerta votiva e nella Processione degli storpi, non precisamente segnate, anzi tendenti al macchiaiolismo per un verso; e più all’abbondante pittura napoletana, ma sapientemente inutile e collocate sulla tela con signorile prestanza. Michetti ha della signoria e dello sfarzo una concezione feudale, non dissimile del resto da quella di Gabriele D’Annunzio sul quale, nei tempi della loro più vicina amicizia, dovette notevolmente influire, e rimanendo chiuso, con l’indifferenza che i nobili di antica schiatta provinciale dimostrano per la cultura, per le qualità e le ricerche dei popolani, ai soffi di vita che venivano dalla nuova scuola francese, si affidò al proprio temperamento dandoci una pittura poco varia, ma in sè medesima opulenta.

Di Michetti è interessante notare come inchinandosi, per rendere più calde le sue figure, a una sorta di macchiaiolismo, seppe adoperare di questo quant’era necessario per non guastare le sue composizioni che davano al soggetto una importanza regale, e che, per quanto riguarda la pittura abbondante e calda di un Mancini, egli talvolta seppe riprodurne l’effetto con la leggerezza di un pastello.

Come meridionale, il Michetti, le cui opere posteriori a quelle del primo periodo offrono un bene scarso interesse, fu un signore, e seppe contenere la ricchezza del suo temperamento coloristico in un’opera scevra d’inutili abbondanze, riuscendo a mettere in una pennellata breve e discreta quanto più senso e valore egli giungeva a concepire.

Mancini.

Più fortunato del Michetti, Antonio Mancini sfruttò e sfrutta con appassionata larghezza il fuoco ereditato dalla propria terra, tanto che in questi giorni si torna a parlare di lui, e non dalla sola folla, sempre affascinata dagli spettacoli di coraggio e di popolaresca donazione, come del più grande pittore italiano vivente.

Questo ritorno a Mancini da parte di coloro che ne furono, in tempi non proprio remoti, gli avversatori feroci, e voglio alludere a quanti si fecero in Italia banditori dell’impressionismo del cubismo e d’ogni altra più ermetica e aristocratica maniera, significa, a mio parere, che da noi non si è mai capito profondamente lo spirito dell’impressionismo da quelli che ne tenevano il nome sullo scudo della loro crociata, e che la strada è oggi perfettamente sgombra a chi voglia affermare il valore, non solamente plastico ma descrittivo e umano della pittura, con tanta più ragione se a questo si arriverà attraverso un modo più largo e umano d’intendere l’impressionismo e gli altri movimenti.

Basta ripensare ai nudi di Renoir che si espandono nell’atmosfera e segnano i limiti del quadro dove finisce la loro sensuale influenza, o al valore espressivo dell’Olimpia di Manet, o al soffio umano che si respira nelle opere giovanili di Pablo Picasso, non certamente divenuto cubista per esercitarsi in una riduzione spigolosa della realtà oggettiva, per avere il sospetto che i banditori del verbo nuovo nel nostro paese avessero in vista soltanto la guerra al soggettismo alla forma in arte: compito soprattutto poliziesco dove non è strano che gli esecutori della legge abbian potuto qualche volta [p. 6 modifica] prendere abbaglio, Antonio Mancini, in cui il plasticismo puro arriva a espressioni ammirevoli e addirittura meravigliose, è con certezza un grande pittore. Le sue opere, se con l’occhio corriamo dall’una all’altra di esse, offrono una correvole accensione di rosa, e di verdi, e di neri, quasi che distogliendoci da una recassimo nella pupilla brillante di piacere una solfurea materia incendiaria che subito e morbidamente si appigliasse all’altra creando un vero incantesimo del fuoco. Cionondimeno egli rimane il campione di un materialismo che non ha possibilità dì sviluppi.

Tornando indietro vediamo che pittori di spirito e preziosissimi nel senso per cui ho attribuito al Michetti la qualità di sapere adoperare il colore con accorgimento non soltanto plastico non mancano in Italia, e a esempio Giacomo Favretto, veneziano, nella cui pittura si anima la satira arguta del Gozzi e la gaiezza delle commedie goldoniane in opere come il Rigattiere, il Sorcio, il Traghetto, l’Antiquario e mille altri, fu un artista cui nocque soltanto il trattare la cosidetta pittura di genere e lo spender tesori in soggetti che offrono un interesse non più che aneddotico.

Superiore senza confronto al Vinea che gli si accosta per la scelta degli argomenti e appare, insieme a lui, un epigone del Meissounier, il nome di Giacomo Favretto sarà considerato come quello di un pittore veramente eccezionale non appena approderemo a una serena epoca di studio e di calme valutazioni.

Cremona e Gola.

Nel tempo di Giacomo Favretto l’Italia possiede dei pittori il cui fondo non è dissimile; e si può quasi dire che possiede una civiltà pittorica basata su piccole cose, e che più specialmente nelle piccole cose si mette a cantare, onde non è più possibile separare le tendenze con quel criterio storico che mi servì la prima volta a estrarre i romantici dalla schiera conosciuta per quella dei neoclassici e a collocare quelle due realtà in una prospettiva abbastanza riconoscibile. D’altronde, dopo che abbiamo osservato il fondo naturalmente romantico degli Italiani, facendo partecipe di questo spirito, in un senso lato quant’è concesso dalla definizione, la pittura in genere, non sarà sgradito vedere come la ricchezza di tessuto pittorico del Favretto, che nel dipingere una stoffa pluricolore accorda le tinte più diverse, facendole fondere, le une con le altre, con la saporosa granosità del pastello, si ritrovi, quasi vista attraverso una lente di ingrandimento, nelle pitture di Tranquillo Cremona e particolarmente nell’Edera e nel Falconiere, tanto più dilatata quanto più grande è l’importanza che il Cremona dà alle sue creature simboliche. Le figurine di un Favretto debbono essere chiuse, intense di pittura; gli amanti del Cremona debbono invece, per il diverso spirito romantico dell’artista, aver qualcosa di più vago e diffuso, ma il gusto dei toni è simile e fa parte di una sensibilità in qualche modo fraterna. Solo di tanto in tanto, in un’opera più vasta, il Cremona dà prova delle sue diverse possibilità, e lo vediamo nel quadro raffigurante Marco Polo dal gran Kan dei Tartari; chiuso in una bella linea tiepolesca che stendendo a raggera il soffitto dal punto che sovrasta il trono del gran Kan a quello del gruppo di cui fa parte Marco Polo e i suoi accompagnatori, unisce un divertente e brillante decorativismo a una compostezza davvero notevole. Di seguito al Cremona è opportuno ricordare i nomi di Bazzaro e quello di Emilio Gola, come quelli di due minori che seppero ben dipingere e dei quali il secondo è stato fino all’altro ieri, e cioè fin dopo che molt’acqua è passata dal secolo scorso sotto i ponti dell’arte, un esempio di colorista degno di discussione e di una certa ammirazione.

I macchiaioli.

E prima di tornare al Previati e al Segantini noterò come macchiaiolismo toscano, non si possa individuare soltanto in Lega che ebbe il merito di principiare a riprodurre, essendo fuori così dal simbolismo quanto da un troppo stretto naturalismo, alcune figure tipiche della società borghese ottocentesca riuscendo a essere una specie di Watteau nostrano di un secolo più tardi, nè in Telemaco Signorini, nè in quegli altri pochi pittori più noti, come il Sernesi, l’Abbati, il Borrani, il Cabianca e il Banti che si lumeggiano a vicenda passando dall’intimismo più ricco d’ombre e di colori smorzati che caratterizzano il Lega, alla luminosità chiara, attenta e miniata che fa l’eccellenza del Signorini.

Dietro a questo gruppo, a donargli consistenza e tradizione, stanno Vito d’Ancona e Serafino da Tivoli, con delle scene militari e dei paesi dov’è chiara un’intonazione di sapor classico; Nino Costa romano che fu un persuaso discepolo di Corot adombrando però nelle sue pitture l’affetto più spiccatamente regionalistico dei luoghi e delle persone, come nelle Donne dell’Ariccia, e soprattutti Mosè Bianchi, fertilissimo artista, cui forse l’essere nato a Monza, lontano dal centro più caldo del movimento macchiaiolo, e il poter vantare un’attività non ridotta a poche forme, ma esercitata sui più diversi soggetti, potè far mancare la completa riconoscenza dei compagni e dei competenti.

Veramente ecezionale per qualità e varietà fu l’opera del Bianchi e atta a dimostrare l’organizzazione di un temperamento che nè il quadro storico giovanilmente tentato con la Congiura di Pontida, nè l’affresco di genere, potè allontanare dalla sua visione naturalistica della vita. Quando si osservano i suoi studi di ciociare e di contadine, campeggianti sul fondo di umidi e petrosi caseggiati in un modo che fa ripensare d’istinto a Lega e a Signorini, i macchiaioli indietreggiano verso un’origine più lontana e più italiana dell’impressionismo, e venano tutto il loro secolo con una forza che non pareva supponibile.

Su ciascuno di questi ultimi sarebbe possibile tornare anche alla fine del nostro discorso giacché il movimento futurista, con tutta la sua violenza, non è riuscito a imprimere un impulso realmente vitale agli artisti d’oggi, e piuttosto, lasciandoli intronati e sbigottiti, li ha veduti talvolta aggirarsi per le vie del mondo a chiedere aiuto proprio a quelle porte cui essi avrebbero dovuto battere con meno arditezza.

Ed è un fatto che oggi molti artisti vagano mollemente come pesci in un acquaio e rimontando e ridiscendendo dentro al loro liquido, chiaro e compatto silenzio, suggeriscono pensieri di buona umanità che ci fanno prescindere dalla loro mancanza di progressi, quando, pensando alle loro smanie costruttive di ieri, li scorgiamo, a braccetto di qualche buon vecchio macchiaiolo, ingegnarsi a mantenere in vita il macchiaiolismo.

Ora non c’è chi non veda l’importanza di trovare al macchiaiolismo un’origine nazionale e mescolata di elementi più legittimi che non fossero i riflessi dell’Impressionismo francese.

Per differenti strade si arriva con molti dei lavori citati sino all’Antiquario di Giacomo Induno dove si trova, specialmente nella figura della donna che vende le gioie e sotto il cui velo traspare evidente la massa dei capelli e l’umidore desolato e cupido degli occhi, insieme a uno spunto dell’incisività riscontrata nell’Hayez qualche cosa del grande settecentesco Longhi. Si arriva all’Induno e a Mosè Bianchi, e a Vito d’Ancona, e fino a certe composizioni un po’ bokliniane, ma in fondo sode e italiane, del Cabianca, e a certe altre figurine, addirittura preraffaellite come tipi, di Cristiano Banti, ma che acquistano anch’esse un valore nuovo e assoluto della potenza del chiaroscuro.

Insomma, mentre il neoclassicismo pericolava verso una calligrafica accademia, il romanticismo giungeva al macchiaiolismo con rivelazioni di umanità attraverso scorci, impressioni, chiaroscuri, che in Banti, in Bianchi e in D’Ancona ci fanno pensare che la formidabile scuola chiaroscurale del Sei e del Settecento, dal Caravaggio al Piazzetta, non poteva non risfolgorare in qualcuna di queste piccole tele.

Tuttavia, storicamente, il macchiaiolismo deve considerarsi trascorso, e i giovani macchiaioli mi fanno un po’ l’effetto di essere i leggendevoli pronipoti dì Michelaccio.

Segantini e Previati.

A questa contemporanea, e graziaddio non completa mollezza, si oppone in distanza la figura di Giovanni Segantini le cui opere abbracciano il periodo che va dal 1878 a1 1890, divise in periodi così volontari e precisi da proiettarsi la figura del loro autore come quella dell’artista dalla mente più solida e organica che abbia avuto l’Italia del tardo ’800.

Gaetano Previati, apparentemente simile al Segantini del periodo divisionista, ma trascinato in visioni più decorative e letterarie che lo trattennero nella loro orbita limitandogli lo sviluppo tanto tecnico che umano dell’arte sua, si può quasi del tutto sottintender in Segantini, salvandogli però il merito di aver tentato anch’egli la grande arte, che dirò sinfonica, intenta a esprimere anche le più assurde visioni che possano illuminare lo spirito umano.

Giovanni Segantini, che ricercò con metodo, durante tutta la sua esistenza, di chiudere la vita in quella tecnica che a volta a volta ne traduceva meglio l’impalpabile essenza, fu un divisionista nel senso più alto della parola; il suo divisionismo è piuttosto un mosaico di colori, infinitesimale e brulicante capace di far vivere, in una superficie anche piccola, un’idea tattile di vastità e di larghezza. Eccellente nell’arte di adattare a questo suo ideale pànico l’illusione meccanica del disegno e del trompe l’œil, eccolo donarci un gregge in cammino che pare nasca in un punto dal sole splendente nel mezzo dell’orizzonte e dilagare, e allargarsi, venendo verso di noi, con la forma di un superbo triangolo, ed eccolo scegliere per la sua gente le figure massiccie e rotonde che piacquero a Millet come quelle più capaci di vivere dentro alle sue dense atmosfere. Giovanni Segantini, come Gaetano Previati, non tradì mai il suo ideale di bellezza mistica, ma lo volle proseguire attraverso quegli umili mezzi che via via gli risultano meno illusori e migliori, cosicché lo vediamo passare da un primo periodo millettiano, che seguendo la cronologia delle esposizioni va dall’881 e l’884, al periodo della pittura chiara, chiusa tra l’884 e l’886 sino a quello divisionista con lo scopo di aumentare l’intrinseca luminosità del quadro, e finalmente al simbolismo, che dopo il 90, predomina, in un modo assoluto, su tutta la sua produzione. Ma la vittoria più bella del Segantini fu quella di arrivare al simbolismo cui l’anima sua anelava, attraverso un’intensificazione di quella parte che nella sua pittura può chiamarsi scultorea per il mosaico dei colori che dapprima ottengono una vibratilità tutta imperiale, e a mano a mano affascinandosi sboccano in quella sorta di nulla e di pura astrazione che nasconde i frutti saporiti e poco appariscenti dell’arte più tenacemente eseguita.

Raffaello Franchi.