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6 il baretti


dere abbaglio, Antonio Mancini, in cui il plasticismo puro arriva a espressioni ammirevoli e addirittura meravigliose, è con certezza un grande pittore. Le sue opere, se con l’occhio corriamo dall’una all’altra di esse, offrono una correvole accensione di rosa, e di verdi, e di neri, quasi che distogliendoci da una recassimo nella pupilla brillante di piacere una solfurea materia incendiaria che subito e morbidamente si appigliasse all’altra creando un vero incantesimo del fuoco. Cionondimeno egli rimane il campione di un materialismo che non ha possibilità dì sviluppi.

Tornando indietro vediamo che pittori di spirito e preziosissimi nel senso per cui ho attribuito al Michetti la qualità di sapere adoperare il colore con accorgimento non soltanto plastico non mancano in Italia, e a esempio Giacomo Favretto, veneziano, nella cui pittura si anima la satira arguta del Gozzi e la gaiezza delle commedie goldoniane in opere come il Rigattiere, il Sorcio, il Traghetto, l’Antiquario e mille altri, fu un artista cui nocque soltanto il trattare la cosidetta pittura di genere e lo spender tesori in soggetti che offrono un interesse non più che aneddotico.

Superiore senza confronto al Vinea che gli si accosta per la scelta degli argomenti e appare, insieme a lui, un epigone del Meissounier, il nome di Giacomo Favretto sarà considerato come quello di un pittore veramente eccezionale non appena approderemo a una serena epoca di studio e di calme valutazioni.

Cremona e Gola.

Nel tempo di Giacomo Favretto l’Italia possiede dei pittori il cui fondo non è dissimile; e si può quasi dire che possiede una civiltà pittorica basata su piccole cose, e che più specialmente nelle piccole cose si mette a cantare, onde non è più possibile separare le tendenze con quel criterio storico che mi servì la prima volta a estrarre i romantici dalla schiera conosciuta per quella dei neoclassici e a collocare quelle due realtà in una prospettiva abbastanza riconoscibile. D’altronde, dopo che abbiamo osservato il fondo naturalmente romantico degli Italiani, facendo partecipe di questo spirito, in un senso lato quant’è concesso dalla definizione, la pittura in genere, non sarà sgradito vedere come la ricchezza di tessuto pittorico del Favretto, che nel dipingere una stoffa pluricolore accorda le tinte più diverse, facendole fondere, le une con le altre, con la saporosa granosità del pastello, si ritrovi, quasi vista attraverso una lente di ingrandimento, nelle pitture di Tranquillo Cremona e particolarmente nell’Edera e nel Falconiere, tanto più dilatata quanto più grande è l’importanza che il Cremona dà alle sue creature simboliche. Le figurine di un Favretto debbono essere chiuse, intense di pittura; gli amanti del Cremona debbono invece, per il diverso spirito romantico dell’artista, aver qualcosa di più vago e diffuso, ma il gusto dei toni è simile e fa parte di una sensibilità in qualche modo fraterna. Solo di tanto in tanto, in un’opera più vasta, il Cremona dà prova delle sue diverse possibilità, e lo vediamo nel quadro raffigurante Marco Polo dal gran Kan dei Tartari; chiuso in una bella linea tiepolesca che stendendo a raggera il soffitto dal punto che sovrasta il trono del gran Kan a quello del gruppo di cui fa parte Marco Polo e i suoi accompagnatori, unisce un divertente e brillante decorativismo a una compostezza davvero notevole. Di seguito al Cremona è opportuno ricordare i nomi di Bazzaro e quello di Emilio Gola, come quelli di due minori che eppero ben dipingere e dei quali il secondo è stato fino all’altro ieri, e cioè fin dopo che molt’acqua è passata dal secolo scorso sotto i ponti dell’arte, un esempio di colorista degno di discussione e di una certa ammirazione.

I macchiaioli.

E prima di tornare al Previati e al Segantini noterò come macchiaiolismo toscano, non si possa individuare soltanto in Lega che ebbe il merito di principiare a riprodurre, essendo fuori così dal simbolismo quanto da un troppo stretto naturalismo, alcune figure tipiche della società borghese ottocentesca riuscendo a essere una specie di Watteau nostrano di un secolo più tardi, nè in Telemaco Signorini, nè in quegli altri pochi pittori più noti, come il Sernesi, l’Abbati, il Borrani, il Cabianca e il Banti che si lumeggiano a vicenda passando dall’intimismo più ricco d’ombre e di colori smorzati che caratterizzano il Lega, alla luminosità chiara, attenta e miniata che fa l’eccellenza del Signorini.

Dietro a questo gruppo, a donargli consistenza e tradizione, stanno Vito d’Ancona e Serafino da Tivoli, con delle scene militari e dei paesi dov’è chiara un’intonazione di sapor classico; Nino Costa romano che fu un persuaso discepolo di Corot adombrando però nelle sue pitture l’affetto più spiccatamente regionalistico dei luoghi e delle persone, come nelle Donne dell’Ariccia, e soprattutti Mosè Bianchi, fertilissimo artista, cui forse l’essere nato a Monza, lontano dal centro più caldo del movimento macchiaiolo, e il poter vantare un’attività non ridotta a poche forme, ma esercitata sui più diversi soggetti, potè far mancare la completa riconoscenza dei compagni e dei competenti.

Veramente ecezionale per qualità e varietà fu l’opera del Bianchi e atta a dimostrare l’organizzazione di un temperamento che nè il quadro storico giovanilmente tentato con la Congiura di Pontida, nè l’affresco di genere, potè allontanare dalla sua visione naturalistica della vita. Quando si osservano i suoi studi di ciociare e di contadine, campeggianti sul fondo di umidi e petrosi caseggiati in un modo che fa ripensare d’istinto a Lega e a Signorini, i macchiaioli indietreggiano verso un’origine più lontana e più italiana dell’impressionismo, e venano tutto il loro secolo con una forza che non pareva supponibile.

Su ciascuno di questi ultimi sarebbe possibile tornare anche alla fine del nostro discorso giacché il movimento futurista, con tutta la sua violenza, non è riuscito a imprimere un impulso realmente vitale agli artisti d’oggi, e piuttosto, lasciandoli intronati e sbigottiti, li ha veduti talvolta aggirarsi per le vie del mondo a chiedere aiuto proprio a quelle porte cui essi avrebbero dovuto battere con meno arditezza.

Ed è un fatto che oggi molti artisti vagano mollemente come pesci in un acquaio e rimontando e ridiscendendo dentro al loro liquido, chiaro e compatto silenzio, suggeriscono pensieri di buona umanità che ci fanno prescindere dalla loro mancanza di progressi, quando, pensando alle loro smanie costruttive di ieri, li scorgiamo, a braccetto di qualche buon vecchio macchiaiolo, ingegnarsi a mantenere in vita il macchiaiolismo.

Ora non c’è chi non veda l’importanza di trovare al macchiaiolismo un’origine nazionale e mescolata di elementi più legittimi che non fossero i riflessi dell’Impressionismo francese.

Per differenti strade si arriva con molti dei lavori citati sino all’Antiquario di Giacomo Induno dove si trova, specialmente nella figura della donna che vende le gioie e sotto il cui velo traspare evidente la massa dei capelli e l’umidore desolato e cupido degli occhi, insieme a uno spunto dell’incisività riscontrata nell’Hayez qualche cosa del grande settecentesco Longhi. Si arriva all’Induno e a Mosè Bianchi, e a Vito d’Ancona, e fino a certe composizioni un po’ bokliniane, ma in fondo sode e italiane, del Cabianca, e a certe altre figurine, addirittura preraffaellite come tipi, di Cristiano Banti, ma che acquistano anch’esse un valore nuovo e assoluto della potenza del chiaroscuro.

Insomma, mentre il neoclassicismo pericolava verso una calligrafica accademia, il romanticismo giungeva al macchiaiolismo con rivelazioni di umanità attraverso scorci, impressioni, chiaroscuri, che in Banti, in Bianchi e in D’Ancona ci fanno pensare che la formidabile scuola chiaroscurale del Sei e del Settecento, dal Caravaggio al Piazzetta, non poteva non risfolgorare in qualcuna di queste piccole tele.

Tuttavia, storicamente, il macchiaiolismo deve considerarsi trascorso, e i giovani macchiaioli mi fanno un po’ l’effetto di essere i leggendevoli pronipoti dì Michelaccio.

Segantini e Previati.

A questa contemporanea, e graziaddio non completa mollezza, si oppone in distanza la figura di Giovanni Segantini le cui opere abbracciano il periodo che va dal 1878 a1 1890, divise in periodi così volontari e precisi da proiettarsi la figura del loro autore come quella dell’artista dalla mente più solida e organica che abbia avuto l’Italia del tardo ’800.

Gaetano Previati, apparentemente simile al Segantini del periodo divisionista, ma trascinato in visioni più decorative e letterarie che lo trattennero nella loro orbita limitandogli lo sviluppo tanto tecnico che umano dell’arte sua, si può quasi del tutto sottintender in Segantini, salvandogli però il merito di aver tentato anch’egli la grande arte, che dirò sinfonica, intenta a esprimere anche le più assurde visioni che possano illuminare lo spirito umano.

Giovanni Segantini, che ricercò con metodo, durante tutta la sua esistenza, di chiudere la vita in quella tecnica che a volta a volta ne traduceva meglio l’impalpabile essenza, fu un divisionista nel senso più alto della parola; il suo divisionismo è piuttosto un mosaico di colori, infinitesimale e brulicante capace di far vivere, in una superficie anche piccola, un’idea tattile di vastità e di larghezza. Eccellente nell’arte di adattare a questo suo ideale pànico l’illusione meccanica del disegno e del trompe l’œil, eccolo donarci un gregge in cammino che pare nasca in un punto dal sole splendente nel mezzo dell’orizzonte e dilagare, e allargarsi, venendo verso di noi, con la forma di un superbo triangolo, ed eccolo scegliere per la sua gente le figure massiccie e rotonde che piacquero a Millet come quelle più capaci di vivere dentro alle sue dense atmosfere. Giovanni Segantini, come Gaetano Previati, non tradì mai il suo ideale di bellezza mistica, ma lo volle proseguire attraverso quegli umili mezzi che via via gli risultano meno illusori e migliori, cosicché lo vediamo passare da un primo periodo millettiano, che seguendo la cronologia delle esposizioni va dall’881 e l’884, al periodo della pittura chiara, chiusa tra l’884 e l’886 sino a quello divisionista con lo scopo di aumentare l’intrinseca luminosità del quadro, e finalmente al simbolismo, che dopo il 90, predomina, in un modo assoluto, su tutta la sua produzione. Ma la vittoria più bella del Segantini fu quella di arrivare al simbolismo cui l’anima sua anelava, attraverso un’intensificazione di quella parte che nella sua pittura può chiamarsi scultorea per il mosaico dei colori che dapprima ottengono una vibratilità tutta imperiale, e a mano a mano affascinandosi sboccano in quella sorta di nulla e di pura astrazione che nasconde i frutti saporiti e poco appariscenti dell’arte più tenacemente eseguita.

Raffaello Franchi.

PIERO GOBETTI - Editore

TORINO - Via XX Settembre, 60

Letteratura


F. M. Bongioanni: Venti poesie |||
 L. 8
V. Cento: Io e me. Alla ricerca di Cristo |||
   » 6 —
T. Fiore: Eroe svegliato asceta perfetto |||
   » 4 —
T. Fiore: Uccidi |||
   » 10,50
G. Sciortino: L'epoca della critica |||
   » 3 —
M. Vinciguerra: Un quarto di secolo (1900-1925) |||
   » 5 —

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Lettera sul Potomak.

Gran tempi i nostri, caro Pilade; «Davvero, dirai tu, se i morti risuscitano...». Che, che: i morti giacciono. E neppure è un fantasma questo che ti sta scrivendo, ma proprio quell’Oreste, sai pure... Via, spoglia quell’abito compassato di esecutore testamentario! E quanto a me rassicurati: non indulgerò soverchiamente a rievocazioni, chiarimenti e ancor meno a bilanci in cui tu possa venirti a trovare in qualche modo impegnato. Un buon abbraccio val meglio. Riconoscerci vivi: questo solo importa oggi.

Rieccomi, e neppur di ritorno. Seguito il viaggio, fidando negli Dei, riconoscente anzi per quanto di maraviglia comporta il mistero del nostro destino se in umiltà di spirito lo contempli.

Altri seguiti dunque a interrogare. Ed altri ancora danzi. Per me son rassenato: che significa docile, disponibile - pronto a tutto, cioè, fuor che a resistere. O a nulla, se più ti garba, che non mi consenta l’integrità del mio cuore. Gran tempi davvero questi che mi fan così possibile! Ma lasciamo andare. Piuttosto è di questo inverno che vorrei saperti parlare, così mite che non si può a meno d’esser per le vie e di giorno e di notte. Non ho mai tanto amato la città. Al mattino le cose s’inteneriscono così da farsi quasi rosa. E c’è quel breve getto d’acqua nel giardino pubblico qui accanto che ascoltarne il fruscio continuato sotto le stelle m’è una benedizione ogni notte prima di coricarmi. Quando poi al mattino passo presso alla vasca ci sono i passeri che ci si tuffano dall’orlo, ci svolazzano a fior d’acqua, in un arruffio di penne gocciolanti al sole. Daccanto c’è una panchina, sovente mi ci seggo; anche stamani e m’abbandonavo a tanta grazia di trilli e tuffi e frulli nella dolcezza della stagione.

Ma ho tosto tratto di tasca un libro; e quel ch’è più, fresco di stampa, nuovo. Un libro nuovo; o presunzione d’autore, smodate pretese di lettore! — ci si ricasca ogni volta. Quasichè stimassimo che possano darsi libri nuovi, quasichè non fosse sempre la medesima storia che si racconta... Pilade, rammenta le nostre letture: «Les livres ne sont peut-être pas une chose bien nécessaire; quelques mythes d’abord suffisaient; une religion y tenait tout entière... Puis on a voulu expliquer; les livres ont amplifié les mythes; - mais quelques mythes suffisaient».

Erano quelli i tempi in cui preoccupato di motivazioni alla minima riga che il caso potesse trarmi dalla penna, tanto vigore mi riduceva a continuamente allevare virtuosi propositi di silenzio che una petulante smania di giustificazioni al mondo non cessavo poi di viziare.

«Un mot d’écrit; un pas d’ôte à la chute».

E’ l’angelo o il demonio che parla? Soffrivo di non saper distinguere le loro voci. Oggi lascio che s’identifichino.

Se ti cito Cocteau e ti riparlo di quel me stesso che con alcuna ragione credevi sepolto, è perché questa frase nello scoprirla stamattina m’ha ridestato in cuore palpiti appena assopiti.

Un critico ti dirà, anche se non hai voglia di badargli, quanto valga Cocteau, quanto questo Potomak ristampato ora com’è assicurato in copertina nel suo texte définitif (e noi vogliamo sperarlo).

In quanto a me nello sfogliarlo stamane, appena ho ritrovato il gusto che avevamo con delizia assaporato il quel prodigioso tempo in cui in una frase del Secret professionnel riassumevamo non senza segreta compiacenza, come in un’impresa, l’agile musculatura dei nostri equilibrismi intellettuali, delle nostre acrobazie verbali. «Ah! Narcisse, quel drôle de couple tu fais!». Non abbiamo oggi da rimpiangere di non aver conosciuto allora Bersicaire, Argémone, il Potomak e questi Eugénes pur così divertente nei disegni. Noi leggevamo allora Paludes; neppur più del resto: lo sapevamo a memoria. Che non sapevamo a memoria? Ci dicevamo, al pari di Lafeadio e Protos, dei subtils di fronte a «l’unique grande famille des crustacés». E’ stato un bel tempo, possiamo dirlo a conti fatti.

I guai son nati il giorno che mi sono scontrato con Hubert, crustace tipo, e ho voluto sul serio prender contatto con lui, smaniosamente preoccupato di difendere la mia dissimiglianza — più ancora: di contrapporla in quanto disinteressata alla sua piattamente utilitaria sebbene ingenua sommissione ai codici vigenti... Mentre poi nell’intimo non cessava di ferirmi la sua disinvolta facoltà di agire che pareva ostentarmisi dinanzi come un tacito rimprovero. (E qui conceda Gide e che lo si abbia in qualche modo rivissuto, come a suo modo del resto l’ha rivissuto Cocteau). «Lui du moins fait quelque chose» dice Angéle «il s’occupe». J’avais dit que je n’avais rien fait; je m’irritai: «Quoi? Qu’est-ce qui’il fait?» demandai-je... Elle partit: «Des masses de choses... D’abord lui monte à cheval... et puis vous savez bien: il est membre de quatre compagnie industrielles; il dirige avec son beau-frére une autre compagnie d’assurances contre la gréle: - je viens de souscrire. Il suit de cours de biologie populaire et fait des lectures publiques tous les mardis soir. Il sait assez de médecine pour se rendre utile dans les accidents. - Huber fait beaucoup de bien: cinq familles indigentes lui doivent de subsister encore; il place des ouvriers qui manquent d’ouvrage chez des patrons qui manquaient d’ouvriers. Il envoie des enfants chétifs à la campagne, où il y a des établissements. Il a fondé un atelier de rempaillage pour occuper de jeunes aveugles. — Enfin, les dimanches, il chasse. - E vous! vous, qu’est-ce que vous faites?» — «Moi! répondis-je un peu géné, - j’écris Paludes».

Un libro!

«N’aurais-tu jamais rien compris, pauvre ami, aux raisons d’être d’un poème? à sa nature? à sa venue?». Questa che mi pareva assoluta incapacità di Hubert a intendere la necessità di un libro, mi fece allora dubitoso se io stesso le intendessi chiaramente, e a furia di prendermi a vagliare le mie ragioni di esistenza finivo col dubitare fin della legittimità di alcun mio diritto ad essere. Ti rammenti Jacques Forestier nel Grand Ecart? «En cherchant plus haut son contour je le dénonce comme parasite sur la terre. En effet, où est donc le papier qui l’autorise à jouir d’un repas, d’un beau soir, d’une fille des hommes? Qu’il nous le montre. Toute la société se dresse comme un agent civil et le lui demande. Il se trouble. Il Jacques Forestier. Quella di Cocteau, d’altri, immagino, la mia stessa forse, coincide con quella della fabbricazione del documento che valga come giustificativo. Ma quand’anche ci s’infischi della legalizzazione del Tribunale, un rischio c’è sempre, il più grave, il solo anzi che conti: di non riuscire che ad un falso. Son tempi questi che se consentono una così scaltrita lucidità è solo per imprigionarvici come in un gioco di specchi.

Il Potomak è la storia di chi vuol scrivere un libro; mentre Paludes vent’anni prima n’era stato la satira, e non di questo soltanto. Gide diceva: «Moi, cela m’est egal parce que j’écris Paludes...» Ma in vece di Polder ci ha poi dato les Nourritures Terrestre; e les Caves du Vatican tutto ci autorizzano ad attender dalla pubblicazione dei Faux Monnayeurs annunziata per quest’anno.

Cocteau s’accorge della sua inconsistenza? della sua monotonia? S’accontenta della grazia del suo gioco: scambietti, ammiccamenti, sottintesi. Ma ripete, insiste: «Je laisse partout le mot livre et l’enflure naïve des promesses». «Tout ce livre - est-ce bien un livre? - son verbiage noir, ses contradictions...». Infine nella dedica a Strawinsky: «Il n’y a pas eu de livre; tout au plus une feuille de température». Per prevenire ogni attacco non solo ambe le guancie offre con destrezza, ma tutto si spoglia: «Ma pudeur: Etre tout nu, ranger la chambre, éteindre. Et chacun apporte sa lampe».

Pilade, ho sete d’aria. Se ha pigliato questa piega la lettera che t’ho scritto, farcita così di citazioni è un poco per liberarmi dalla loro insistenza. Se me la son presa con Cocteau è perchè un Potomak ho pur io voluto scriverlo un giorno e vorrei dimenticarmene. Se adesso ti abbandono così in furia a decifrare l’incongruenza della mia scrittura è perchè la sera è scesa e cedo al richiamo delle vie. Possa tu pure un giorno cedere a quel che ti sollecita e ravvisare la voce della felicità. Chi meglio del viandante assapora la dolcezza dei riposi?

Oreste.


Jean Cocteau — Le Potomak - 1913 -1914 précédé d’un Prospectus 1916 - Stock - Paris, 1924 — Le Secret professionnel - Stock, 1923 — Le Grand Ecart - Stock, 1923. André Gide — Paludes - première édition • Librairie de l’Art Independant - Paris, 1895.

Guitry e Ruggeri.

Guitry, questo attore, che pare a tutta prima michelangiolesco, è, invece, il rappresentante di un repertorio raffinato, decadente; è il Bernstein degli attori, che porta la brutalità dei bassi fondi in una cornice di «arrivisti» e di morituri.

Egli traduce la sensibilità di un momento, è l’espressione di una tendenza di avant la guerre: è un conduttore.

Il repertorio ha seguito lui. Man mano che Guitry diventava meno giovane, alle figure fresche di Amants, atta spontaneità sentimentale di La Veine, all’amore doloroso e puro di Rogier Dembrun si sostituivano le inversioni dell’amore delle Viérges Folles, i problemi etici e politici del Tribuno, la vecchiezza religiosa di L’Emigré e soprattutto i drammi del denaro.

Chi scriverà la storia del Teatro francese dovrà occuparsi di questo attore come di un creatore. Egli ha collaborato con Bourget, ha urtato Bataille, ha regnato nella città-martire.

Mi sono spesso domandato quale dei nostri attori possa paragonarsi a Guitry.

Zacconi, no: è uscito dal simbolismo, dall’indefinito del teatro nordico; ha reso plastico il misterioso. Novelli è multiforme, ma non è un grande amoroso: Andò era Le Bourgy: Monnet-Sully era Tommaso Salvin, Talli è Antoine, occuperemo di questo raffronto prossimamente).

Il più vicino a Guitry mi è parso finora Ruggeri.

L’uno e l’altro sono giunti alla grande arte attraverso i ruoli di hommes à femmes.

Hanno un’affinità di repertorio: il teatro di Bernstein in prevalenza e di qualche altro autore tendente verso l’aspro, il cinico: les cruels.

Affinità di procedimento: semplificazione, anzi utilizzazione di certi stati d’animo. Una ricerca della sobrietà e dello sfuggente: il rilievo di certe scene su uno sfondo, un procedimento di quattrocentisti.

Le differenze: forse di grandezza. Ruggeri è più uniforme nella stessa pièce, più vario nel complesso. Crea cioè delle figure opposte: passa da Amleto a Sansone. Ma nella stessa figura non sviluppa un’eccessiva varietà di ritmi.

Nella voce Guitry ha certi toni alti di tesa; Ruggeri ha certe intonazioni misteriose che talvolta contradicono la brutalità del personaggio.

Altra somiglianza: si sovrappongono spesso all’autore.

Altra differenza: nel gesto Ruggeri è monastico: Guitry un atleta in ritiro; un addomesticato.

Altra differenza: Ruggeri ha delle intenzioni essenzialmente artistiche: Guitry piuttosto sociali.

Achille Ricciardi.


NOVITÀ:

Giuseppe Prezzolini

GIOVANNI PAPINI

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