Il Baretti - Anno I, n. 1/Illuminismo
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ILLUMINISMO
Il sapore arcaico e polemico di questo nome di esule e di pellegrino preromantico, annunciato quattro anni sono per titolo di una rivista di scrittori giovani che ora si pubblica, sottintendeva una volontà di coerenza con le tradizioni e di battaglia contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie. Quegli intenti, in nuovo clima, non ci sembrano inattuali.
Di scoperte metafisiche, di relativismo, di arte applicata ai grandi problemi è rimasto, dopo quattro anni, appena il ricordo. La generazione che ti precedette combattè allora l’ultima battaglia della sua passione romantica. Cercò la salvezza nelle conversioni, nei programmi neoclassici, negli appelli spirituali; con giovanile innocenza, come l'aveva cercata prima nel futurismo, nell'idealismo attuale, nelle cento religioni che venivano dai profeti d’oltralpi, nella guerra. Tutte quelle formule erano espedienti, fatti personali; classicismo senza classici, misticismo senza rinuncie, conversioni crepuscolari. Era naturale che gli uomini che nel relativismo avevano cercata l’epica del provvisorio venissero così a perdere nelle crisi individuali il senso dei valori più semplici di civiltà e di illuminismo e rinunciassero anche alla difesa della letteratura insidiata e minacciata dalla politica.
Le confuse aspettazioni e i messianismi di questa generazione dei programmi, che per aver messo tutto in forse si trovava a dar valore di scoperte anche alle più umili faccende quotidiane, preparavano dunque l’atmosfera di una nuova invasione di barbari, a consacrare la decadenza. Anzi i letterati stessi, usi agli estri del futurismo e del medioevalismo dannunziano, trasportarono la letteratura agli uffizi di reggitrice di Stati e per vendicare le proprie avventurose inquietudini ci diedero una barbarie priva anche di innocenza. Con la stessa audacia spavalda con cui erano stati guerrieri in tempo di pace, vestirono abiti di corte felici di plaudire al successo e di cantare le arti di chi regna.
È ovvio che con questi cenni non si fa un processo a persone ma si descrive una atmosfera spirituale da cui son pure restati immuni spiriti rari e individui originali coi quali noi abbiamo un certo obbligo di mettere in comune il lavoro. Insomma sotto il nostro linguaggio di condanna c’è una volontà di conservare, di riabilitare, di trovare degli alleati.
Non vorremmo ripetere in nessun modo certi atteggiamenti incendiari, avveniristi e ribelli che indicarono per l’appunto coscienze deboli, destinate a servire. Avendo assistito alla triste sorte delle speranze sproporzionate, delle fiduciose baldanze, delle febbri di attivismo il nostro proposito è di conservarci molto parchi in fatto di crisi di coscienza e di formule di salvazione; nè di lasciarci sorprendere ad escogitare nuove teorie dove basterà la sapienza quotidiana. Abbiamo deciso di mettere tutte le nostre forze per salvare la dignità prima che la genialità, per ristabilire un tono decoroso e consolidare una sicurezza di valori e di convinzioni; fissare degli ostacoli agli improvvisatori, costruire delle difese per la nostra letteratura rimasta troppo tempo preda apparecchiata ai più immodesti e agili conquistatori.
Non era difficile imparare queste arti di stupire il villaggio se il segreto non ci fosse apparso subito troppo meschino, come se a raggiungere la perfezione in certo genere di esperienze bastassero proprio i congegni del giocoliere. La nostra vita cominciò qui, con la scontentezza di ciò che sembrava materia di entusiasmo. Perciò invece di levare grida di allarmi o voci di raccolta incominciamo a lavorare con semplicità per trovare anche per noi uno stile europeo.
p.g.