Iginia d'Asti/Atto primo
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IGINIA D’ASTI.
ATTO PRIMO.
Sala nel Senato.
SCENA I.
Stanno seduti ROFFREDO e gli altri Senatori; a destra di ROFFREDO è seduto ARNOLDO. V’ha nella sala molti Guerrieri, e fra i capi GIANO. Presso la porta è il Banditore. Entra preceduto da qualche guardia EVRARDO: è vestito militarmente.
Roffredo.1 Il console!2
Evrardo.3 Signori, oggi alfin chiudo
Il penoso anno della mia possanza,
Ed a me spetta l’onorarvi.4
Roffredo. Sorgi,
O valente guerriero. — Oggi al senato
Ritorna il ferro signoril che al prode
Tuo braccio si affidava, e te rimira
Asti suddito suo novellamente.
Ma non col grado consolar s’estingue
Lo splendor di che cinto era appo noi
D’Evrardo il nome: più che il grado, eccelse
Opre il fean chiaro: e cittadino o duce
La repubblica t’abbia, è in lei perenne
Pel suo campion la riverenza.
Evrardo. È dolce
D’Evrardo al cor la lode tua, Roffredo:
E vieppiù dolce, chè d’alcuni l’odio
(Che appellar suoi nemici ei neppur degna)
Palese gli era, e la speranza iniqua
Di veder qui depresso oggi colui,
Al cui braccio, al cui senno, al cui versato
Sangue dèn tutto, e le ritolte a’ guelfi
Sostanze loro e lor codarde vite.
Ma intorno miro, e niun veggio che ardisca
Al non più consol, pur non vil guerriero,
Mostrar dispregio: e di lor taccio io quindi.
Bensì pria di tornarmi alla quïete
Di mie torri paterne, udir vi prego
Dal fido Evrardo, o padri, umil consiglio.—
Fama, il so, e non men cale, io di tiranno
Lascio appo il volgo: ma la guelfa antica
Idra che per sì lunghi anni rinacque
A desolar la patria, io spensi, io solo,
Io, che, di quanti precedeanmi invitti
Capitani, minor, sol li avanzava
Nel ferreo, inesorato, alto proposto
Di non aver mezza vittoria mai!
E chi volgo non è, plaude, e mi basta.
Novo periglio or sorgeria? — Sì. — Quale?
Che il mio nome, esecrato infra gli stolti,
Rechi spavento a chi dopo me il brando
Da voi torrà di console, e si ambisca
L’agevol, ma fatal, gloria di pio:
Gloria fatal, perocchè il lungo regno
D’un inflessibil Romolo ad un Numa
Apparecchiati non ha gli ozi ancora.
Molte in un anno fur mie stragi: poche
Per elevare in Asti ai ghibellini
Impero tal che un dì non crolli, o tosto.
Non io, ma del passato il tristo esempio
Vi parli: dieci volte i nostri padri
Vinsero e perdonaro, e dieci, in premio
Di lor fiacca clemenza, ebber l’esiglio.
Quant’era d’uopo io mi spiegai. Gagliarda
Man fra le tempestose onde governi,
O mal certa è la nave.
Roffredo. Appien conforme
Al guardo del senato è il guardo tuo.
Securo vivi. Udimmo, e dispregiammo
Que’ fiacchi spirti, a cui tutto par colpa,
Fuorchè l’oprar tremando: e veggiam solo
Nel calcato sentiero esser salute.
Perciò tra i capitani, oggi al novello
Consolato proposti, ebber di voti
Il numero maggior....
Evrardo. Chi?
Roffredo. Due canuti
Rigidi ghibellini: eguale entrambi
Numero han di suffragi.... Evrardo e Giano.
Evrardo e Giano.
Io?
Roffredo. Decida la sorte; ecco nell’urna
I nomi vostri.
Arnoldo.5 Arresta. — Amici detti
Pria dal fratello udir piaccia ad Evrardo.
Roffredo.L’uomo di Dio s’ascolti.
Arnoldo. Io, fin dal giorno
Ch’ascesi a sacro ministero, e dritto
Ebbi a seder tra voi, l’antica forma
Biasmai della repubblica, ove molti
Il poter divideansi, e, con invidia
Guardandosi a vicenda, ognun si stava
D’oprar bramoso, e a non oprare astretto.
E più biasmai l’oltraggio a’ cittadini
Fatto sovente, allor ch’uopo incalzando
D’oprar robusto, un dittatorio scettro
Ora a barbaro duce, ora a superbo
Podestà non natio davasi, indegno
Quasi d’onor chi della patria è figlio:
E ottenni che, sì stolti usi cessando,
La consolar vestisse annua possanza
Astigian nato, ghibellin patrizio.
E quello ancor son io, che le sventure
De’ passati anni al trepidare apposi
Di chi la signoria tenne dell’armi;
E il regno della forza, unico, dissi,
Di giustizia esser regno, allorchè infette
Membra vuol tronche la città, o perisce.
Me dunque detrattor, certo, al robusto
Governo suo temer non debbo Evrardo.
No, fratel: ti compiansi, e fra le stragi
T’ammirai pure, e carità di patria
Pareami in te ciò ch’altri empietà noma.
Ma sì lontan fra la giustizia il varco
E la clemenza fia? sì a lungo vero
Di sparger sangue il lagrimevol uopo?
E il tristo esperimento, ahi, di perigli
Pur troppo non sognati! immaginari
Non creeríane al nostro occhio atterrito?
Un editto feroce oggi il senato
Mio malgrado proclama. A tal editto
Consentiresti? nol cred’io: severa,
Ma non tirannic’alma la tua estimo.
Di quell’editto chiedi: odilo: e il nuovo
Consolato vestir, tu il niegherai.
Evrardo.Che?
Roffredo. Sebben grande sia pel santo vecchio
La riverenza del senato, or vieta
Alta ragion con lui starci concordi.
L’editto ch’ei riprova a lungo dianzi
S’agitò nel consesso, e i più il sanciro:
Eccol. — T’avanza, o banditor:6 l’annuncia
Dalla tribuna alla città: — fia noto
Così ad entrambi i consoli proposti.
Il Bandit.7«Palese a’ senatori è che si oltraggia
Da taluni la legge, e clandestino
Ricovro entro le mura a guelfi dassi.
A tale ardir, che alla città funesto
Farsi potria, non più l’esiglio è pena,
Ma vi s’assegna morte.
Arnoldo. Odi il confuso
Fremito della plebe? — Al genitore
Che il traviato suo figlio ricovra
Più l’esiglio non basta! È reo di morte
Chi di natura non calpesta i dritti,
E al patibol la sua prole non tragge!»
Il fratello al fratello il seno squarci,
E la sposa allo sposo, e il figlio al padre,
O rei fansi di morte! Oh non più udito
Inumano furor! — Chiedean vendetta
L’ombre de’ padri? E l’ebbero: cadute
Son d’infra i guelfi le più illustri teste,
Le sole che nocean. Non basta: il ferro
Del nobil ghibellino ora discende
Ne’ tuguri plebei: cercando il sangue
Di chi? di guelfi? — Ma il plebeo fu guelfo
O ghibellino mai? cieco stromento
Non è de’ forti? — Avidità di preda
Or lo tragge fra queste or fra quell’armi:
Combatte, ma non odia, e al vincitore
Lambisce i piè, purchè gli getti un pane.
Nè chiuder gli occhi si vorrà, se oscuro,
Ma valente guerrier, pentito riede
Alle mura paterne, e nascondendo
Ch’egli era guelfo, ai ghibellin si dona?
Alla deserta patria utili figli
Racquistar non si vonno? — Eh, vergognamci,
Evrardo, noi, se in altri petti è muto
Il vergognar d’ignobili atti! Il fero
Editto mai te difensor non abbia:
Di console prestare il giuramento
Altri potrà, non tu, fratello. — Vieni.
Evrardo. (È quasi scosso dall’autorità di suo fratello, il quale
gli prende la mano per condurlo via.)
Roffredo. Dunque a Giano tu cedi?
Giano. Entrar tremando
In aringo dovrei dove sì eccelso
Eroe mi precedea: ma, se in non altre
Doti, in amar la mia patria l’agguaglio;
E il servirla m’è gloria, arduo qualunque
Patto ella imponga.
Evrardo. E che vuoi dir? rampogna
Forse mi vibri, quasi ch’io la patria
Servir negassi ov’ardue cose imponga?
Arnoldo. Vieni.
Evrardo.8 Al fratel profondo ossequio porto;
Ed accolte in silenzio e ponderate
Ho sue gravi parole. Oh quanto dolce
Mi saria l’approvarle, e ragion quindi
Giusta sentir di riedere ai felici
Sospirati ozi di mia casa! Un vile
Però non son; nè, se la patria chieda
L’ultima goccia del mio antico sangue,
Fia ch’io neghi versarla.
Arnoldo.Ahi! velo a indegno
Mire non sien pomposi detti.
Evrardo. In mano
Iddio non tien dell’uom la sorte? a Dio
Chi sottrarsi ardirà? Tragga ei dall’urna
L’eletto suo: divota al sacro cenno
La fronte piegherò, pace ei mi doni,
O travagliati ancor giorni m’appresti.
Arnoldo.Dio non tentar: di cieche età fu sogno
Il creder che alle sorti empio fidando
Scoprir uom possa del Signor la mente.
Parla Iddio, sì, ma de’ mortali al core
Segreto parla: e tu, fratel, lo ascolta.
Ei ti dice, che orrendo il giuramento
Dal tuo labbro usciria, se il sovran ferro
Tu ripigliassi, allor che a snaturata
Legge sostegno le faresti. — Ah pensa,
Giacchè a nulla tacer tu mi costringi,
Che tra i dispersi guelfi evvi taluno
Ch’ebbe parenti ghibellini — e il sangue
Che correa nello vene a que’ parenti
In nostra madre pur corse! Fu truce
Cosa il rischiar d’immerger tra le pugne
La lancia parricida in cotal sangue:
Ma poichè nelle pugne il ciel distolse
Il sacrilego colpo, or freddamente
Puoi tu giurar di spegnere il congiunto,
S’ei venisse mendico a ricovrarsi
Di nostra madre appo il sepolcro?
Evrardo. Taci.
Arnoldo.Sì, di Giulio favello. E pria che insano
Le guelfe armi vestisse, a lui promessa
Era da te la figlia: e non estinto
Della fanciulla misera nel core
Forse è l’amor. S’ei l’ami ognora, il sai,
Da quel di che prigion t’ebbe, e ti sciolse
Perchè d’Iginia padre.— Oh, delle offese
A mutuo obblio vengasi omai! ritorni
Il congiunto al congiunto.
Roffredo. Ignora Arnoldo
Che il ragionar contro sancita legge
A null’uom lice? — Impor silenzio a tanto
Personaggio m’accora: e imporre il deggio. —
D’Evrardo e Giano i nomi agiti l’urna.9
Arnoldo.Fratello! — Ei più non m’ode. Ohimè! qual grande
Da ambizïon d’impero alma corrotta!10
Roffredo.11Evrardo!
Arnoldo. Ah, ch’io ’l temea!
Roffredo.(Presenta di nuovo la spada consolare ad Evrardo.)
Evrardo. Compiasi adunque
L’arduo nostro destin. — Giuro, che tutte
Difenderò le patrie leggi.
Tutti i Guerrieri. Viva
Il nuovo consol!12
Roffredo.13Tosto all’adunata
Impazïente plebe il sommo duce
Mostrar conviensi, e celebrar nel tempio
Con magnifica pompa il dì solenne.14
SCENA II.
ARNOLDO e GIANO.
Giano.15Un istante.
Arnoldo. Che vuoi? Tu impallidisci?
Che fia? parla.
Giano. Il fratel tuo.... Non invidio
Il tristo onor....
Arnoldo. Che dunque or si ti turba?
Giano. Ei più di me.... tal onor merta. — Oh d’altra,
Ben altra cura volea dirti! — Io tremo
Di confidar.... ma tu parlasti in guisa....
Certo il vedesti pur.
Arnoldo. Chi?
Giano. Come mai
Giulio nomavi?
Arnoldo. In Asti egli! Che intendo?
Giano. Che? Nol sapevi? oh incauto me!
Arnoldo. Oseresti
D’Arnoldo dubitar?
Giano. Sì pio t’udiva
Dianzi parlar del consanguineo tuo,
Che te di sua venuta io stimai conscio.
L’arcano che sfuggiami uom non risappia,
Deh, mel giura!
Arnoldo. Che temi? A vil cotanto
Mi tieni tu? — Parla: hai mia fede.16
Giano. Alcuno
Qui non ci ascolta? — Il dì spuntava appena:
Al tempio ir voglio, ed ecco, anzi alla porta
Del mio palagio, in manto d’eremita
Uom che mi ferma — Giulio! — Abbrividii
Ravvisandolo: tosto io lo respingo,
Paventando che seco altri mi veggia:
Ospizio egli mi chiede: «A’ tuoi congiunti
Vanne,» gli dico. — «In lor fidar non posso,
Chè all’ingrata d’Evrardo ambizïosa
Alma devoti son tutti,» risponde.
Di nuovo lo respingo. — «Abbi memoria
Del padre mio, dic’ei, che il dolce amico
Fu di tua giovinezza e di tua gloria:
Per lui ten prego: un giorno sol: poche ore
Ospizio dona del tuo amico al figlio:
Niun te sospetta, e tu gran pro ne avrai.»
Pietà mi fea, ma resistei. - «Le leggi
D’ascoltarti mi vietano!» proruppi:
Alla man che m’afferra io mi divelgo,
Balzo nel tempio, e in cor m’agita fero
Dubbio, se il tristo incontro io tacer debba,
O se dover di ghibellin m’imponga
Farne dotto il senato. — Allor che Giulio
T’udii nomar, pronto avea quasi io ’l labbro
A riferir lo incontro mio: ma tema
Presomi, che sospetto a que’ gelosi
Spirti diveniss’io, perocchè il guelfo
In me fidanza avesse posta, e uscito
Libero fosse di mie mani.
Arnoldo. Asilo
In nome di suo padre ei ti chiedea,
Del padre suo, già del tuo cor l’amico!
E tu il respingi! E ne vai — dove? Al tempio!
Giano, fia ver? Tu di magnanimi avi
Figlio, tu prode, tu d’allori carco,
Tu — e negli anni canuti, allorchè nulla,
Tranne l’infamia, uom de’ temer — tu schiavo
Del più indegno timor! Giano! e il rimorso
Che ti pungea non era, ahi, perchè muta
Fu in te pietà, ma perchè fatto sgherro
Non t’eri al derelitto, e de’ possenti
Compro in tal guisa non t’avevi il plauso!
Giano.Uom che d’aspre battaglie, ove i più forti
Suoi guerrieri cadean, sempre tornossi
Colla vittoria in pugno, uom tal non teme,
O Arnoldo, aver mai di codardo taccia.
Ma qual prode sul suo capo onorato
Il coltel del carnefice sospeso
Vedrà senza ritrarsi? Ivi coraggio
Non è il dispregio della morte, è insania. —
Perciò consiglio io ti chiedea. Son molti
I delatori, e il mio breve accostarmi
Al giovin guelfo esser può noto.... Io certo
D’esser consol teneami.... e paventato
Di niuna accusa allora avria: ma Evrardo
Quanto m’abborra, il sai; chi mi difende
Or dal feroce, se di stato appormi
Ombra può di delitto?
Arnoldo. Io da gran tempo
Ti leggo in cor — nè, benchè astuto, il pensi.
Giano.Che?
Arnoldo. Parlar deggio senza vel? — Te rode,
Non men che invidia, ambizïon: tu oscure
Ambagi e mezze confidenze adopri
Con ogni uom che ad Evrardo esser nemico
Presumi occulto: partigiani cerchi:
E a me — cui mai non fosti amico — or fingi
D’amicizia desio, sol perchè avverso
Al fratel mio ti parvi. Ebben! m’ascolta:
Avverso a lui, ma più a certe alme il sono
Superbe al par di lui — men grandi assai.
SCENA III.
GIANO si ferma attonito.
Così tradito mi son io? — Men grandi!
E udir potei.... nè gli risposi? — Audace!
No, qual mi sia tu non conosci ancora.
Note
- ↑ All’entrare d’Evrardo s’alza.
- ↑ Arnoldo e Senatori s’alzano.
- ↑ S’inchina con dignitoso rispetto.
- ↑ S’inginocchia e presenta la sua spada a Roffredo. Questi la prende e siede: siede quindi Arnoldo e tutto il Senato.
- ↑ Si alza.
- ↑ Il Banditore s’avanza e prende l’editto.
- ↑ Va alla tribuna, suona la tromba per adunare il popolo, e poi legge ad alta e ben distinta voce.
- ↑ Interrompendo Giano che vorrebbe rispondere.
- ↑ A un senatore.
- ↑ Un senatore agita l’urna, e un altro estrae il nome.
- ↑ Prende il biglietto e lo apre.
- ↑ Fanno il saluto colle armi e colle bandiere.
- ↑ Scendendo dal suo seggio, come pure gli altri senatori.
- ↑ Prendendo il Console per mano, ed escono i primi: seguono i senatori e i guerrieri.
- ↑ Fermando Arnoldo.
- ↑ Porgendogli la mano.