Idillio II. Europa

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Mosco - Idilli (II secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini (1827)
Idillio II. Europa
I III
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EUROPA


Idillio II.

 
Già Venere ad Europa un dolce sogno
     Nella terza vigilia della notte
     Spedì vicino all’alba, allorchè il sonno
     Più soave del mel sulle palpebre
     5Siede, e le membra rilassando, in molle
     Laccio ritiene avviluppati i lumi,
     Quando lo stuol de’ veritieri sogni
     Va spaziando. Allor nell’alte stanze
     Dormendo Europa di Fenice figlia,
     10Che vergine era ancor, veder le parve
     Per sua cagion due Regioni in guerra
     In sembianza di donne, quella d’Asia,
     E quella opposta. Una a vederla estrania,
     L’altra parea del suo terrea natía,
     15E maggior lite avea per la donzella
     Dicendo, ch’era a lei nutrice, e madre.
     L’altra afferrò con man robuste Europa,
     E lei non ripugnante a se rapìo,
     Dicendo esser nei fati, che da Giove
     20Egidarmato le si rechi in dono.
     Ella affannata e palpitante il core
     Balzò dal letto, che pareale il sogno
     Verace visïon. Ben lunga pezza
     Sedendo taciturna, ambe le donne
     25Negli occhi, benchè aperti, avea tuttora.

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     Ma tardi alfin la verginella in queste
     Voci proruppe: E quale infra i Celesti
     Tai larve m’inviò? Quali in mie stanze
     Sogni mi sbigottîr mentr’io dormìa
     30Sì dolcemente sulle agiate piume?
     Chi fu quella straniera, che dormendo
     Vidi, onde tanto amore il cor mi punse?
     Con quale affetto m’accolse ella, e come
     Sua figlia rimirò! Deh! piaccia ai Numi,
     35Che per me si rivolga a bene il sogno.
Ciò detto in piè levossi e in traccia corse
     Delle dolci compagne a lei d’etate,
     Statura, e voglie, e nobiltà conformi,
     Con cui sempre scherzava, o quando al ballo
     40Si disponeva, o quando s’abbellìa
     Alle correnti dell’Anauro, o quando
     Cogliea dal prato gli odorosi gigli.
     Queste le apparver tosto, e in man ciascuna
     Di lor recava un canestrin da fiori.
     45Uscîr su i prati alla marina, dove
     Solano unirsi a stuol, piacer traendo
     E dalle rose e dal fragor dell’onde.
     Europa aveva un bel canestro d’oro,
     Maraviglia a vederlo, e di Vulcano
     50Raro lavor, che in dono ei diede a Libia,
     Quando al talamo andonne di Nettuno
     Scotitor della terra. Essa donollo
     Alla chiara in beltà Telefaessa
     Sua nuora; e questa alla sua vergin figlia
     55Europa fenne un signoril presente.
     Erano in quelle effigiate assai
     Cose industri e splendenti. In oro sculta
     Io, d’Inaco la figlia, che d’aspetto
     Femmineo priva era tuttor vitella,
     60E spinta da furor coi piè scorrea
     Le salse vie di notatrice in guisa.

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     Eravi espresso il mare azzurro, e due
     Sovra un ciglion dell’alto lido insieme
     A mirar vôlti lei varcante il mare.
     65Eravi Giove, che con man divina
     Lei molle carezzava, e di giovenca
     Ben fornita di corna in riva al Nilo
     Di sette bocche la tornava in donna.
     La fiumana del Nilo era d’argento,
     70Di bronzo la Vitella, e Giove d’oro.
     D’intorno intorno sotto gli orli ancora
     Del rotondo canestro eravi inciso
     Mercurio, e presso lui disteso er’Argo
     D’occhi vegghianti adorno; indi nascea
     75Dal suo purpureo sangue un grand’augello
     De’ color varj di sue piume altero,
     Che qual rapida nave aprendo i vanni,
     Al bel canestro d’or copriane i labbri.
     Tal della vaga Europa era il canestro.
80Poichè fur dentro a’ floridi pratelli,
     Qual d’un fior, qual d’un altro il cor pascea.
     Chi narciso odoroso, e chi giacinto,
     Chi viola predava, e chi serpillo,
     Gran foglie spicciolandosi per terra
     85In quei di primavera alunni prati.
     Altre a gara mietean del biondo croco
     L’odorifera chioma. E la Regina
     Stava nel mezzo, qual Ciprigna splende
     Infra le Grazie, di sua man cogliendo
     90Il primo onor delle fiammanti rose.
     Ma non lunga stagion dovea co’ fiori
     Sollazzar l’alma, nè serbarsi intatta
     La fascia virginal. La vide appena
     Giove, che fu nel cor ferito, e domo
     95Dagli strali improvvisi di Ciprigna,
     Che sola può domar lo stesso Giove.
     Ei per fuggir della gelosa Giuno

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     L’ire, e ingannar la tenerella mente
     Della vergin, celò suo Nume, e corpo
     100Mutato si fe’ toro, non già quale
     S’impingua entro le stalle, o qual tirando
     L’aratolo ricurvo i solchi fende,
     O qual si pasce infra gli armenti, o quale
     Trae col giogo sul collo onusto carro.
     105Biondo era tutto, se non che lucea
     Nel mezzo della fronte un cerchio bianco;
     Folgoravan d’amor gli occhi cilestri;
     Spuntavangli le corna sulla testa
     Pari fra lor, come crescente luna,
     110Che in mezzo cerchio le sue corna incurva.
     Entrò nel prato, e il suo venir non feo
     Spavento alle donzelle. A tutte in core
     Destossi amor d’avvicinarsi a lui,
     E di palpar l’amabile giovenco,
     115Lo cui divino odor lunge diffuso
     Vincea del prato l’olezzar soave.
     Esso a’ piè della bella oltre ogni segno
     Europa si ristette: il collo a lei
     Lambiva e l’adescava. Ella il venìa
     120D’intorno palpeggiando, e dolcemente
     Con le man dalla bocca a lui tergendo
     La molta spuma, ed il baciava intanto.
     Ei sì dolce muggìa, che detto avresti
     Udir migdonio flauto modulante
     125Uno stridulo suono. Indi a’ suoi piedi
     Chinò i ginocchi ed a lei vôlto il collo
     La rimirava, e l’ampio dorso offrìa.
     Alle giovani allor di lunghe trecce
     Ella sì prese a dir: Fide compagne,
     130Deh! sagliamo a seder su questo toro,
     Che bel piacer n’avremo. Ei teso il dorso
     Ben tutte ci accorrà qual navicella.
     Come al vederlo, è mansueto e blando!

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     Ben diverso è dagli altri. In lui s’aggira
     135Un senno d’uomo, e il parlar sol gli manca.
Disse, e ridendo ascese a lui sul tergo.
     L’altre eran per salir; ma tosto il bue
     In piè saltò colla sua dolce preda.
     Ratto sen fugge al mar. Ella rivolta
     140La faccia, e le man tese alto chiamava
     Le care amiche; ma di lor nessuna
     Raggiugnerla potea. Già scorso il lido
     Il toro oltre n’andò come un delfino.
     Galleggiâr le Nereidi sul mare
     145Tutte schierate in dosso alle balene.
     E lo stesso Nettun romoreggiante
     Il fiotto rappianava, e fea pel mare
     Strada al germano. A lui dintorno accolta
     Gran turba di Tritoni abitatori
     150Del profondo Ocean risonar fea
     Un canto nuzïal su larghe conche.
     Ella di Giove al bovin tergo affissa
     Con l’una man del toro un lungo corno
     Stringea, con l’altra le purpuree pieghe
     155Del manto in su traeva, onde l’immenso
     Flutto del bianco mar l’attratto appena
     Orlo bagnasse. Il sinuoso velo
     Su gli omeri d’Europa si gonfiava
     Qual naval vela, e gir la fea più lieve.
     160Ma poichè fu dal natìo suol lontana
     Nè più marina spiaggia, od alto monte
     Scoprìa, ma di sopra aer, di sotto immenso
     Mar, guatandosi attorno alzò tai voci:
     Dove, dove mi porti, o divin tauro?
     165Chi se’? come puoi tu co’ piè restìi
     Aprirti il calle? non paventi il mare?
     È certo il mare ai celeri navigli
     Agevole cammin: ma le sue vie
     Son terribili a’ tori. E qual fia mai

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     170La tua grata bevanda? e qual dall’onde
     Cibo n’aspetti? Sei tu forse un Dio?
     Perchè fai tu quel, che agli Dii sconviene?
     Nè i marini delfin sopra la terra,
     Nè i giovenchi passeggiano su l’onde.
     175Ma tu scorri del par la terra, e il mare
     Senza bagnarti, e l’unghie ti son remi.
     Forse aleggiando ancor per l’aere azzurro
     Qual augello veloce in alto andrai?
     Ahimè, tapina, ahimè! che il patrio tetto
     180Abbandonato un navigar sì strano
     Smarrita, e sola fo in balìa d’un bue.
     Ma tu, che al bianco mar, Nettuno, imperi,
     A me propizio accorri; e ben io spero
     Di veder te, che mi sei scorta e duce
     185Al viaggiar. Non certo senza un Nume
     Solcando vo quest’umidi sentieri.
Tal disse; e il bue di corna ampie fornito
     A lei prese a parlar: Fa cuor fanciulla:
     No, l’onde non temer. Giove son io,
     190Che da vicin di toro ho le sembianze,
     E ben posso apparir qual più m’aggrada.
     Ora l’amor di te sì lungo mare
     In cotal forma a misurar mi spinse.
     Te Creta or accorrà, che me nutrìo:
     195Quivi tue nozze appresteransi, e quivi
     Di me tu produrrai famosi figli,
     Che su tutti i mortali avran lo scettro.
     Disse; e l’effetto al suo parlar rispose.
     Apparì Creta. Giove si converse
     200In altre forme, e le disciolse il cinto.
     L’Ore il letto acconciaro. Ella, che stata
     Era pulcella infino allor, repente
     Divenne sposa, ed al Saturnio Giove
     Generò figli, e fu ben tosto madre.