Parte IV

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III V


Estebano ed Elisenda, a capo chino davanti l’altare, pregavano; sulle loro labbra vagava un alito sottile, un ronzio dolce come di brezza o di zanzara. Elisenda finì le sue preci prima di Estebano, e poiché vide ch’esso continuava devoto, si pose a contemplarlo. Com’era bello il profilo del principe, col mento converso sul petto e sulle mani giunte, in atto d’alta mansuetudine!

L’estasi scendeva già nell’anima della fanciulla.

Quand’ei si scosse, ella, turbata, fece sembianza di rimettersi a pregare.

Allora fu egli che la guardò. Com’era bella, alla luce del cero, Elisenda, in vesti bianche!

I suoi capelli parevano ambra pura, e le sue mani avevano il morbido contorno dell’agata lavorata; poi, strana cosa, eppure leggiadra, le sue labbra non erano porporine né rosee, ma quasi bianche, e, assai divise nel mezzo, parevano composte con quattro foglie di tuberosa.

L’adorazione d’Estebano s’era volta da Dio ad Elisenda.

Il silenzio era così grave che opprimeva l’orecchio. A un tratto Estebano esclamò quasi supplichevolmente:

"Oh! principessa, è lunga la vostra orazione!"

Elisenda rispose: "Ho finito". E si guardarono negli occhi, stupefatti di non ispaventarsi.

Lo sguardo d’Estebano penetrava nelle pupille di Elisenda profondo, lucido, sicuro, come una lama nella sua guaina.

"Chi c’è nel castello?" chies’egli.

Essa rispose: "Non un’anima viva".

Appena finite queste parole s’udì un colpo formidabile dietro l’altare, come d’un gigante che bussasse dietro a una porta, e dopo quel prim’urto un secondo, e un terzo, e un quarto; al dodicesimo s’arrestò.

"Chi è là? Chi è là? Chi è là?" grida Estebano, e si slancia verso Elisenda e l’afferra pel corpo col braccio sinistro, e col destro la copre come per difenderla dall’ignoto nemico.

Poi ripiglia, mugghiando più che sclamando: "Avanti, se sei un prode! se sei un vile, indietro! o il mio pugno levato risponderà sul tuo cranio dodici percosse non meno tremende delle tue, malvagio turbator di preghiere. Avanti! Avanti, ciclope od orso o diavolo, uomo, fantasma..." Ma qui s’interruppe e, tutto stretto ad Elisenda, mormorò:

"Ahimè! pace all’anima di Don Sancio". E fu come un leopardo che diventasse un agnello.

La fanciulla tremava, ma non di paura, e come Estebano la vide cosi tremebonda, la raccolse tutta sul petto e la baciò sulla fronte.

Ella allora sclamò: "Grazie, Don Sancio!" con accento d’infantile beatitudine; poi continuò sorridente: "Cugino mio, fiero e robusto, pace anche a te! Ciò che hai udito vien dalla cripta che sta sotto all’oratorio ed è l’orologio del vescovo Olivarez. Devi sapere che quando morì quel santo vescovo (il solo prete e il solo uomo che abitò con noi questo castello), il nonno lo seppellì in un bel cofano di rame ricoperto d’ebano, e lo collocò sotto l’orologio della torre, da dove aveva fatto estrar la campana perché il martello, cadendo ad ogn’ora sulla bara del morto, ricordasse perennemente la caducità delle esistenze umane. Quei dodici colpi ci avvertono ch’è mezzanotte". Poi soggiunse con voce più bassa, come chi profferisce cosa che non comprende: "È tempo che ci sposiamo". E fissò in volto lo sposo. Estebano la teneva ancora stretta col braccio.

Lo spavento aveva congiunte, più presto che non avrebbe fatto l’amore, quelle due creature innamorate, le quali non sapevano più separarsi, né più cessar dal tremare. Così avvinti, vacillanti, i due giovanetti s’avviarono, mossi da un solo pensiero, verso un angolo dell’oratorio. Là, Elisenda, raccolto da terra un palio di drappo d’oro, lo pose sulle spalle ad Estebano; poscia ambidue si volsero ad un altro angolo ove Estebano staccò dal muro una clamide di porpora e di argento colla quale rivestì Elisenda sua; poi brancolarono lungamente sulle sparse reliquie degli avi e si adornarono di cinture moresche, di collane gotiche; il giovanetto indossò anche una preziosa stola di bisso e la fanciulla colse un rosario e un anello; poi s’inginocchiarono sul primo gradino dell’altare, Estebano a destra, Elisenda a sinistra; si curvarono religiosamente, sollevarono dai cuscini, ov’erano deposte, le due corone imperiali e se le posero in capo, muti, gravi, compunti, come due bimbi assorti in un magico tripudio. I loro corpi flettevano sotto il peso degli splendidi manti, e le i loro chiome si torturavano entro i cerchi massicci delle corone doro.

La corona d’Estebano, imperiale e chiusa; colla croce sul colmo, somigliava a quella di Carlo Magno, tranne che in giro apparivano cesellate le tre parole colle quali i romani battezzarono la provincia di Leone: Legio septima gemina.

Sul manto d’Elisenda s’ammirava ricamato in argento il superbo leones rampando, e topazi e rubini e diamanti erano sparsi a centinaia sulle vesti dei giovanetti reali. Ma la polvere aveva appannate quelle gemme e quegli ori, e il tarlo aveva roso quelle porpore.

Un’antitesi tragica sorgeva da quelle due bionde figure adolescenti, schiacciate sotto una così polverosa catasta di ornamenti da trono. La stola d’Estebano gli si acuminava dietro il collo con una piega acuta sotto la nuca, e dura e tondeggiante sugli omeri. Una ragna cinerea gli cadeva da una punta della corona fin lungo l’orecchio e gli si perdea fra i capegli. Quei sacri arredi coprivano di maestà e di scherno, incoronavano e vituperavano ad un tempo chi li portava.

Le membra dei teneri sposi avevano smarrita la loro eleganza natia sotto la goffa pompa di quei drappeggiamenti.

Ma i due fanciulli si guardavano, e così vestiti si sembravano più belli.

Allora incominciarono una bizzarra cerimonia.

Sempre inginocchiati, si presero per mano e recitarono il rosario: Elisenda sospirava Kirie Eleison, Estebano rispondeva Christe Eleison, e le grane delle avemarie scorrevano lievi lievi fra le dita tiepidamente intralciate. Quand’ebbero finito, Estebano intuonò:

Veni de Libano, sponsa mea, veni,

e nel suo canto s’udivano le vibrazioni dei sorrisi e delle lagrime.

Elisenda rispondeva:

Manibus date lilia plenis.

Poi Estebano:

Fulcite me floribus;

poi, chinando la fronte davanti ad Elisenda:

Salve, Regina,

mormorò soavemente, e le baciò il manto come ad una madonna. Indi ambidue si posero a cantare con voce alta e fiera l’inno delle nozze reali

Te Deum laudamus, te, Domine, confitemur.

Le loro voci unisone salivano e scendevano sul liturgico salmo. La grave melodia faceva risonar l’oratorio; i turiboli appesi, allo scoppio delle forti note, oscillavano, come per accompagnarle colle loro danze.

Così, sempre cantando, Elisenda aveva messo in dito ad Estebano un anello d’onice, e, sempre cantando, Estebano si era levato e avea steso il pugno nell’ombra dietro l’altare e l’avea ritratto armato da una immensa spada. Poi che si tacquero, egli, ritto in piedi, col braccio alzato, colla punta della spada tesa sul messale aperto, pronunciò questo giuramento:

"Io, Don Estebano, principe di Castiglia, duca di Salamanca e di Zamora, giuro sulla sacrata croce vera di Cristo, sull’evangelio e su questa lama d’Alfonso VIII d’Aragona, giuro d’essere sposo in terra ed in cielo alla principessa Donna Elisenda di Leon, marchesa di Valladolid, contessa d’Asturia, mia eccelsa cugina. Giuro di riconquistare per noi e pei nostri figliuoli il trono perduto di Spagna, di riconquistarlo colla virtù o colla forza, col genio o colla spada, colla pace o colla guerra, col bene o col male, colla clemenza e colla ferocia, sorretto pur sempre dalla sacrosanta religione cattolica. Così sia."

L’orologio di legno batte un’ora. La punta della spada agitata dai fremiti del principe aveva squarciato la pagina del messale sovra cui s’appoggiava.

Estebano si toglieva a stento da quell’atto sovrano e dalla solennità di quel gesto; ma, di repente, come disciolto in un ineffabile bisogno d’umiltà, si gettò per terra colla testa sui cuscini dell’altare, sclamando:

"Adhaesit pavimento anima mea".

Allora Elisenda gli si pose d’accosto, chinò la guancia verso le sue labbra: una lunga perla pendeva dall’orecchio della fanciulla; Estebano baciò quella perla, poi disse:

"Sei bella, o mia regina!"

Essa rispose:

"Sei bello, mio re!"

E l’amore incominciò le sue note.

L’odore della cera liquefatta saliva nelle nari dei giovanetti; quell’odore era dolce e tedioso e caldo. Ma essi non rimuovevano già più gli occhi l’uno dall’altro.

"Mia soave Elisenda", la chiamava Estebano, mentre il suo cuore batteva convulso come l’ali d’una farfalla trafitta da uno spillo; poi continuava:

"Posa, posa la tua bianca mano sulla mia fronte e penserò dei poemi!" ed Elisenda posava la mano sulla fronte d’Estebano. Dopo un lungo silenzio egli riprendeva a parlare con questo sogno:

"Elisenda, odi; vorrei che tu fossi una caleide ed io un altro vago e tenue insetto, e che avessimo per padiglione il calice d’un giglio, e lì vivere la corta vita nostra, al blando lume d’un’aurora mitigata dalle nivee pareti del nostro talamo, e poi morire tutti e due in quel giglio odoroso e chiuso".

"Ma non vedi, Estebano, com’è tutto chiuso e non senti com’è tutto odoroso anche questo asilo di pace?".

Ciò che dicevano quei due fanciulli erano parole e parevano canti.

Elisenda ripigliava: "Ho dei sogni così gonfi e delle chimere così turbolente nel cuore che, per farvele uscire, mi bisognerebbe infrangerlo. Ciò che nasce nel cuore non può escir che dal cuore! feriscimi un poco qui, Estebano mio, al costato sinistro... tanto che con qualche goccia di sangue possa sprigionarsi anche qualche pensiero. Le labbra umane non sanno la via di queste cose profonde".

Allora Estebano soggiungeva: "No; nel linguaggio che mi hanno insegnato non esiste il nome di ciò ch’io sento per te".

Elisenda chiedeva: "M’ami?".

Ed Estebano rispondeva con voce bassa e tranquilla: "Sì," e i volti avvicinavansi ed allungavansi le labbra; poi baciavansi col bacio religioso e casto che si dà agli amuleti. E continuavano: "Amiamoci più delle rondini e più dei cigni e più dei puledri d’Asturia che vanno a due a due per le ville castigliane avvinti alle carrozze dei re".

L’orologio del vescovo Olivarez batte due tocchi. Ogni volta che quell’orologio scoccava, Estebano trasaliva. "Quell’orologio è lugubre", pensò; "pare il dito d’uno spettro che bussi là fuori per incitarmi a qualche oscuro mistero" e rimase turbato.

"Estebano mio, permetti ch’io mi tolga un minuto da te? Oggi ho scordato di dare il pane al mio povero cigno. Tu intanto, va dal tuo cavallo con un pugno d’avena, perché non muoia di fame."

"Questi, cugina mia, non sono uffici da principi", rispose Estebano; "lascia che il cigno provveda egli stesso al suo pane e il cavallo alla sua avena. Non istaccarti da me: il tempo fugge, l’ora batte alla porta. Guai a chi esce dal cerchio che gli segnò la fortuna! Poni mente al giorno più lieto de’ tuoi anni, perché in quel giorno morrai. Mi ricordo sempre queste parole che udii una volta, predicate sul pergamo nella chiesa di Sant’Ignazio a Madrid da un vecchio gesuita. Questo è il giorno più lieto de’ miei anni; temo che se noi esciamo di qui, la morte ci colga." Poi susurrò, posando il capo sul seno d’Elisenda: "È così dolce la vita!".

La fanciulla rispose: "Sia fatta la tua volontà", e si coricarono entrambi sui gradini dell’altare colle teste appoggiate sullo stesso cuscino. I loro profili sfioravansi; si guardavano l’anima attraverso le pupille degli occhi. Quelle di Elisenda si dilatavano prodigiosamente e si rinserravano convulse ad ogni battito de’ polsi. Dopo un mite silenzio essa chiese ad Estebano: "Dimmi, ti par più bello l’amore o la gloria?".

Estebano meditò; poi disse: "Sorella, la gloria non è altro che un grande amore diffuso su molti popoli e su molti secoli; ma l’amore è una soave gloria condensata in un cuore solo e in un’ora sola. È più bello l’amore:

Mejor es penar
Sufriendo dolores
Que estar sin amores."

Le sue parole s’estinsero in questo mormorio cadenzato; poscia egli s’avvinse ad Elisenda e la baciò sulla bocca, e l’abbracciamento fu stretto e il bacio fu lungo; ma la loro posa rimaneva innocente come quella della cuna ed immobile come quella della tomba.

La pupilla d’Elisenda s’alzava lenta, cerulea, simile a un’alba di luna.

Sulla testa dei due giovanetti pendeva, appesa a quattro catenelle d’oro, una lampada di quelle che i primi cristiani chiamavano coronaephorae; era spenta e di bronzo e tempestata di pietre preziose, sulle quali si rifrangeva la luce del cero con tutti i riverberi del prisma.

Estebano ed Elisenda levavano in sù gli occhi e il mento; la nascente lanugine delle guance d’Estebano toccava la guancia d’Elisenda come l’ermellino ducale tocca il velluto principesco. Gli sguardi dei due giovanetti adagiati erano fissi sulle faccette d’un grosso diamante, che sfolgorava più d’ogni altra gemma. Le loro labbra si confidavano così gl’incanti dell’iride che li affascinava:

"Estebano" mormorava Elisenda, "vedo un paese azzurro come una notte serena e come il canto della tua voce; poi vedo uno sciame di farfalle volanti in mezzo a un fumo di mirra!"

"Elisenda, vedo un paese verde come un liquido prato o come un oceano tranquillo, e poi degli angioli che si baciano e nuotano coll’ali come delfini celesti!"

"Estebano, vedo un paese viola come i colli remoti d’Andalusia, e come il manto della Vergine, e come il solco soave che sempre più si sprofonda sotto le tue palpebre."

Poscia, come l’idea sale dall’effetto alla causa, gli sguardi dei due giovanetti passarono dal diamante della lampada alla fiamma del cero.

Il cero non misurava già più di tre pollici di lunghezza, per modo che il suo dileguarsi era rapidissimo in proporzione della sua circonferenza. Certo quella cera doveva essere amalgamata con qualche materia più adusta. Le gocce scorrevano veloci dal vertice alla base della candela e s’arrestavano per un attimo sugli orli del candelabro; poi, scivolando lentamente e mano mano appannandosi, conformavano una agglomerazione di stalattiti glutinose e verdastre che si perdevano nell’ombra. Il candelabro, alto come una gamba, era d’argento massiccio arrugginito, ed aveva per piedistallo la figura d’un serpe avvoltolato che si mordeva la coda.

Quella santa reliquia emanava una segreta aura di veleno. Quel cero, stillante la sua bava d’ossido su quella ruggine malsana e su quel serpe attortigliato, appariva bieco.

Nell’oratorio si diffondeva sempre più un profumo: era la mollezza dell’oppio, l’acredine della canfora, la limpidezza dell’aloe, mista ad un altro inesprimibile olezzo. Tutti gli aromi d’un gineceo d’Oriente e tutte le esalazioni d’un sotterraneo d’alchimia si condensavano in quell’aura letargica e letale.

La fiamma del cero si circondava di quando in quando con quell’alone di nebbia che si vede intorno la luna durante le insalubri notti autunnali. Il suo lucignolo allungato e curvo portava in cima un carboncello che aveva la forma d’una viola stillante una pioggia di faville incandescenti.

Estebano ed Elisenda scoprivano in quella rugiada di foco l’immagine d’un nuovo paradiso. Fissavano ammaliati il cero sorridendo alla luce, muti, pallidi.

Elisenda riandava colla memoria le ultime parole di Don Sancio, e tentava invano afferrarne il recondito senso: e pensando favellava come in sogno:

"Le anime de’ tuoi figliuoli si accenderanno alle faville di quel serafico cero...

"Finché quel cero sarà, vivranno i troni di Spagna... Per ispegnerlo ci vuole l’alito di una sposa..."

e qui s’arrestava conturbata.

"Prima di spegnerlo attendi Estebano tuo...

" Dal tuo grembo sorgerà la storia dei secoli venturi...

"Amate! Germinate!"

E piangeva.

Intanto la fiamma calava rapidissima; Estebano la fissava sempre più intensamente; a un tratto s’accorse d’una sigla miniata in carmino sulla estremità del cero. Quella sigla scritta orizzontalmente formava queste tre lettere disposte così:

antichissimo monogramma delle parole Have. Iesus.

Estebano s’erge in piedi, corre verso il cero, afferra il candelabro pesante, lo innalza vigorosamente, lo capovolge; poi, segnando coll’indice sinistro la sigla rovesciata così:

grida volto verso Elisenda: "Stephanus Imperator Hispaniae!"

Elisenda lo guardava atterrita, eppur beata, tanto era sublime quel fiero garzone in quell’atteggiamento di trionfo. Ma intanto la fiamma sconvolta divorava il cero e mordeva il dito d’Estebano.

Quando il pesante candelabro fu ricollocato sul suo piedistallo, della torcia non rimaneva più che un mezzo pollice appena; le lettere H e I della sigla erano dileguate.

Elisenda sclamò: "Guai a me se si spegne!"

Il giovinetto s’accorse allora che tutto intorno all’estremità del cero girava una grossa lista di pergamena. La distaccò per prolungare così d’un minuto la vita alla fiamma.

La pergamena era piena di simboli sacri, di formule cattoliche che s’insertavano bizzarramente a molti caratteri orientali. Nel mezzo della lista apparivano queste parole miniate in rosso:

ANATHEMA SIT


Estebano s’era messo già a decifrare quel mistero, allorché Elisenda diè un grido.

"Elisenda mia!" sclamò, e le fu subito accanto.

"Ho tanta sete", sospirò la fanciulla, mentr’ei, tutto chino sovr’essa, le toccava i polsi e la fronte.

Essa ripeteva tutta ansimante: "Leggi, leggi ciò che stringi nel pugno. Un anatema pesa su noi in questo minuto. Leggi, ma non partirti da me; leggi qui,... qui".

La fiamma si dibatteva convulsa; pareva quasi un’anima che si ribellasse alla morte.

Quell’estremo avanzo d’antichissima reliquia cattolica e monarchica pareva fatale a vedersi. Era più che un lumignolo che s’estingueva; era un’agonia.Otto secoli accumulati su quella torcia agonizzavano con essa. Una religione possente e una stirpe trionfale esalavano l’anima nel crepitio di quel cero. Quel cero soffriva la rabbiosa angoscia del reprobo; le sue convulsioni affrettavano la sua fine. Una luce fredda, verdastra, inquieta vagava nella cappella e rendeva penosa ad Estebano la lettura dell'anathema mezzo arso, macchiato, irto d’intralciatissime cifre.

"Estebano! Estebano!" ripigliava la fanciulla tremante avviticchiandosi al collo del giovanetto, mentr’ei frugava cogli occhi quelle iscrizioni oscure. "Guardami, guardami! prima che il cero si spenga, prima che la notte infinita ci copra, guardami! Dammi un bacio, e che il tuo bacio mi dia l’alito di una sposa; poi soffierò sul cero prima che si spenga."

Ei la guardò: un fremito febbrile li avvolgeva. Ricaddero col capo sul cuscino della corona. L’afa dell’oratorio, l’amplesso violento in cui erano assorti, li soffocavano.

"Resta qui", diceva Elisenda con voce fievole. "Non posso alzarmi: la mia fronte suda piombo bollente e il mio seno stilla rugiada di manna. Vorrei morire adesso, vorrei che la mia vita si sciogliesse fra le tue braccia, dolce, mesta, serena come una cadenza d’arpa, come gli ultimi accordi di un organo..."

"Se io morissi ora," rispondeva Estebano, "l’angelo sarebbe già accanto a me;" e le lagrime inumidivano le loro labbra, che si parlavano unite... La fiamma del cero non guizzava più, ma diveniva più fioca; il pavimento dell’oratorio era già immerso in una fluttuante penombra.

"La luce muore" disse Elisenda.

"Lasciala morire" rispose Estebano; "quando saremo nel buio, le tue labbra mi parranno più dolci..."

Un ribrezzo vago s’agitava ne’ loro fianchi, sotto il pesante incubo degli ornamenti reali...

L’oscurità era fitta...

Elisenda gridò: "Ah! questa cintura m’abbrucia!..." e divennero muti.

Il lucignolo della torcia era mezzo affogato nella cera liquida che affluiva intorno ad esso come un lago oleoso; quando quella cera traboccò giù dal candelabro, la fiamma si ravvivò come per incanto e brillò luminosissima e fissa.

Estebano guardò Elisenda che non profferiva parola; poi, con un supremo sforzo, si levò e corse alla fiamma del cero colla pergamena spiegata. Un lampo dell’anima gli rivelò la scrittura. Lesse: "Quand’io morrò, morranno i troni di Spagna".

La fiamma vacillò, Estebano rabbrividì. C’erano ancora due versi che bisognava leggere... gli occhi del giovanetto s’offuscavano... gli pareva vedere Elisenda stesa a piè dell’altare, immobile e bianca, e avvolta in un fumo. Gli ultimi fili del lucignolo caddero nel lago di cera liquefatta, ma non si spensero. Estebano si chinò sulla fanciulla moribonda, concentrò in un impeto solo tutte le forze degli occhi e del pensiero; il fumo del lucignolo lo attossicava, un’acre angoscia gli salia nella gola. La fiammella scemava, scemava, e più che scemava, più diventava serena... A un tratto apparvero chiare queste parole sulla pergamena:

Ho sulla cima il mele
E in fondo il veleno dell'Upas.

La fiamma si spense.

L’orologio di legno batte tre colpi spaventosi.

Estebano cadde.

Brillava ancora sul fumido lucignolo un’ultima brage. Era l’occhio sanguigno delle tenebre. Dopo qualche minuto secondo s’udì per terra lo strisciare d’un corpo che si trascinava penosamente... poi due baci... poi uno stridor di mascelle tremanti...

L’ultima brage si spense. Tutto ripiombò nella notte: tutto ripiombò nel silenzio.

Un’ora prima dell’alba il gallo di montagna cantò come per interrogare un mistero.