I rossi e i neri/Secondo volume/XXVII
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XXVII.
Occhio per occhio, dente per dente
Come giungesse in fondo alle scale, non vide, non seppe, chè il suo pensiero era già oltre il palazzo Priamar, sebbene dinanzi agli occhi della mente gli durassero immagini tormentose, il duca di Feira e quella donna amata ed odiata con tutte le forze dell’anima.
Orribilmente sconvolto, giunse sulla strada; la testa gli ardeva; gli rombavano gli orecchi; non vedeva, non udiva; l’istinto lo guidava da solo, attraverso la folla de’ viandanti, i quali certamente lo avrebbero tolto per ubbriaco, o per pazzo, se la notte sopraggiunta non avesse impedito di vederlo nel volto, di notare i suoi occhi stralunati, e l’andar barcolloni a guisa di toro che abbia toccata la mazzata nel mezzo della fronte.
Nella sua mente era una confusione, un turbinio di pensieri; ma uno solo, se per avventura non signoreggiava gli altri tutti, certo era il più spiccato e costante. Il suo segreto scoverto? Ma come? Chi era, donde sbalestrato per suo danno, quel duca di Feira? E perchè era venuto a piantarsi, ostacolo insuperabile, tra lui e la sua vendetta, proprio nel punto che egli stava per coglierne il frutto? Nello scompiglio in cui l’aveva posto quella apparizione improvvisa, Bonaventura giunse perfino a chiedere che cosa avesse egli fatto a quell’uomo, egli che non soleva credere a scrupoli, e, pur di raggiungere la meta, non s’era mai fatto carico degl’innocenti che calpestava nel proseguir la sua strada. Ma così, buoni e tristi, siam tutti, misera progenie di Caino; egoisti, feroci, senz’altro divario che quello del più o del meno, pronti ad ascoltar la ragione, ad invocare il giusto e l’onesto, dove non entri l’appagamento dei nostri desiderii.
Come tutti se ne andavano in fumo i disegni di Bonaventura! Come gli crollava miseramente dintorno il suo edifizio, con tanta cura inalzato! Egli era come il matematico che ha condotto a fine un calcolo complesso, frutto di lunghe meditazioni, di veglie sudate, e s’avvede che il conto, così diligentemente condotto, non torna. Come s’è ficcato per entro, e dove si nasconde l’errore? Ecco intanto, il suo edifizio di numeri e di segni algebrici, pericola; egli non sa, non può indovinare dove manchi, se alla base od al vertice, sui lati o negli angoli. Ei lo aveva pure incominciato con tanta diligenza, tirato innanzi con tanta pazienza di prove e riprove! Rifarsi da capo? Paurosa fatica! E gli sarebbero bastate le forze? V’hanno di tali cadute, dalle quali non è più dato rimettersi.
Bonaventura, quel forte atleta, fino a quel giorno invitto, era affranto, nè intendeva le cagioni di quella grande rovina. Se in quel punto gli avessero detto: - tu ti butterai da una finestra - egli avrebbe risposto: può darsi, purchè sfracellandomi il capo, io possa distruggere la coscienza di me medesimo, la mia rabbia, la vergogna della sconfitta, il dubbio che mi tormenta.
Perchè c’era anche un dubbio, un orribile dubbio che gli avevano soffiato nel cuore le ultime parole del duca di Feira. Questo dubbio non aveva anche preso forma chiara e ricisa nella sua mente; ma c’era, e gli pungeva il cuore aspramente, e lo faceva correre, volare smanioso per le scorciatoie verso il palazzo Vivaldi. Giunse affannato al portone; salì in furia le scale; giunse al pianerottolo del suo quartierino; suonò, bussò, tempestò l’uscio, ma invano. Nessuno rispose; la sua casa era muta.
Che sgomento lo assalisse in quel punto, è più facile argomentare che descrivere. Le parole, che si seguono ordinate sulla carta, non valgono a dipingere i moti, i turbamenti improvvisi dell’animo, il sangue che rifluisce ardente al cervello, la vista che si offusca, il cuore che trema, e tutto quel misto di acute sensazioni che rispondono ad ogni parte più riposta della macchina umana.
Tentò di raccapezzarsi. Dov’era la signora Marianna? Dove poteva essere, a quell’ora? Egli aveva bensì detto alla sua governante che sarebbe tornato sulle dieci; ma lo avea detto a guisa di notizia, perchè ella non avesse a stare in angustie, e non già per darle una libertà, che ella non s’era mai tolta. La signora Marianna non usciva mai di sera; qualche rara volta nel pomeriggio, ma innanzi l’Avemmaria era sempre rientrata.
Scampanellò da capo, tambussò l’uscio, fece un diavoleto; ma nel suo quartierino non udì segno di vita.
Uno strepito d’uscio che si apriva, un passo affrettato, si udì poco stante nelle scale. Era un servitore dei Torre Vivaldi, che a quella tempesta di suoni s’era scosso dalla panca su cui sonnecchiava, e veniva a vedere che diavol fosse che metteva a rumore la casa.
Risovvenendosi allora della porta di comunicazione che c’era tra l’abitazione dei Torre Vivaldi e il suo quartierino, Bonaventura dimandò al servo se Sua Eccellenza fosse in casa, e udito che sì, scese le scale per andare dal marchese Antoniotto.
Il tempo che pose il servo ad annunziarlo al padrone, fu a mala pena bastante al gesuita per rimettersi un tratto dal suo turbamento. Il marchese Antoniotto era seduto davanti alla sua scrivania; ma tosto si alzò per farsi incontro al Gallegos, e per chiedergli con garbo signorile qual buona ventura gli procacciasse di vedere il padre Bonaventura in quel punto. Dal bisticcio è agevole argomentare che il tiranno di Quinto era di buon umore oltre l’usato; per giunta si stropicciava le mani, come il suo avversario in Parlamento, che era (i lettori non l’hanno dimenticato di certo) il conte di Cavour, ovvero il mugnaio di Collegno, com’egli soleva chiamarlo.
Com’ebbe udito da Bonaventura perchè egli fosse sceso da lui, il marchese Antoniotto fu sollecito a mandare il servo a quel pianerottolo cieco, dov’era l’uscio ferrato che separava l’ammezzato della gente di servizio dal quartierino del gesuita, per vedere se a caso, tirando il catenaccio da dentro, si potesse aprire. Ma Bonaventura non lo sperava, ben sapendo che anco dal lato suo quell’uscio soleva star chiuso. Diffatti, pochi minuti dopo, tornò il servitore, per dire a Sua Eccellenza che non aveva potuto aprire, essendoci l’altro catenaccio chiuso di fuori.
- Andate subito pel fabbro ferraio, e non si perda tempo; - disse il marchese Antoniotto al servo, che incontanente si mosse. - E intanto che Ella aspetta, voglio farle vedere un discorsetto che sto preparando pel Senato. Ho scritto tutt’oggi, e non sono scontento de’ fatti miei. Sentirà a giorni il Cavour, come lo concio, colle sue dottrine di libero scambio. Eretico in economia politica, come in religione; questo gli dico, e glielo provo. Vuole udir Lei, padre Bonaventura, a che modo finisco? -
Il gesuita balbettò alcune parole di assentimento.
- Sto preparandomi, - soggiunse a mo’ di preambolo, il marchese Antoniotto, mentre veniva rassettando sulla scrivania i due o tre ultimi fogli inchiostrati per quella sua fatica oratoria, - sto preparandomi alla nuova sessione, che comincia in dicembre, nella quale ho fatto proposito di adoperarmi più alacremente che non facessi finora. Le ragioni del nostro partito lo vogliono; anche a Parigi mi s’è fatto capire dai nostri amici che io mi tengo troppo lontano dalla cosa pubblica. Ed hanno ragione; chi si tiene in disparte non giova a sè, nè alla sua parte. Ella ricorderà, padre Bonaventura, d’avermelo detto più volte. -
Bonaventura non ricordava nulla, non intendeva nulla, e questo si capiva facilmente. La sua fantasia correva a briglia sciolta, faceva cento leghe al minuto secondo. Così fuori di sè, lasciò che il marchese Antoniotto parlasse a sua posta, spiegandogli il suo discorso, pigliandosi una pregustazione di trionfo oratorio.
Il marchese Antoniotto leggeva a modo, sebbene con enfasi; ma ciò non guastava, perchè egli non portava i quaderni alla tribuna. A furia di leggere, imparava i suoi discorsi a memoria, e poteva dar colore d’improvvisazione allo scritto. Però, quella lettura tornando ad esercizio della sua meditata eloquenza, era naturale che volesse afferrar l’occasione, leggendo caldo caldo il suo discorso all’amico.
Ma gli era proprio un discorso? Più conveniente sarebbe il chiamarlo discorsa. Fatta così in anticipazione di due mesi, la cicalata del nostro senatore non aveva, nè poteva avere attinenza con alcun particolare argomento; sfiorava ogni questione delle tante che bollivano allora; parlava, come suol dirsi, de omnibus rebus et de quibusdam aliis, dei concetti economici del conte di Cavour, della politica interna del suo collega Rattazzi, della falsa via che si batteva a volersi inimicare coll’Austria, dei fuorusciti e dei rompicolli che turbavano la ragione di Stato, e dei pochi, ma veri e saldi amici rimasti allo Statuto, che erano (non ridete!) i cattolici. Questo era un colpo maestro, e il marchese Antoniotto se ne teneva. E fu qui che il valentuomo ingrossò la voce, per istrappare l’applauso al suo taciturno uditore.
- «.... Imperocchè, o signori, la nostra vita è consacrata a Dio, al principe, alle leggi, e il biasimo de’ tristi ci torna a gloria; imperocchè i popoli hanno inteso non poter esser loro nemici coloro che si oppongono ad una barbarie, la quale minaccia la famiglia e la proprietà, e tenta confondere in una sola jattura le infrante corone, gli statuti violati e le pietre de’ santuarii. Non vuol la rovina dello Stato chi vuole la patria fiorente per arti e commerci. Se noi difendiamo la causa della religione, si è perchè in essa risiede il palladio e la forza del Piemonte; perchè ella insegna ai governati il rispetto delle leggi, la coscienza dei diritti, la santità dei doveri. Bando alle recriminazioni di parte; ci prenda pensiero delle gravi necessità della patria, che aspetta di veder rimarginate le sue orride piaghe, alleviati i suoi gravissimi pesi, protette le sue povere industrie. Dietro a noi sta la nazione, che nella fede gloriosa dei suoi padri vede il labaro di salute pe’ suoi minacciati destini.» -
Qui finiva il discorso, e l’oratore si volse a Bonaventura per chiedergli il suo parere e pigliarne le lodi. Ma egli s’avvide allora, con sua gran meraviglia, che il gesuita, non pure non era in grado di rispondergli, ma non aveva inteso una parola della sua stupenda orazione.
- Ella è turbata, padre Bonaventura? - esclamò il marchese Antoniotto. - Abbia un po’ di pazienza; il fabbro ferraio non tarderà molto a giungere....
- Pazienza! - soggiunse il gesuita, richiamato da quelle parole in sè stesso. - Ella ne parla a suo agio, signor marchese! Ma io, qui sotto, vedo un tranello....
- Che? Non bisogna poi correre per le poste, com’Ella fa! - disse il marchese Antoniotto. - La sua governante sarà uscita per qualche urgente bisogna domestica, e quando tornerà, sarà molto meravigliata di sapere il gran caso che Ella ne ha fatto. Ma ecco il servitore; orbene?
- Il fabbro ferraio è in anticamera, coi suoi ordigni, che aspetta; - rispose il servitore, giunto allora, a cui era rivolta l’ultima parola del marchese Antoniotto.
- Andiamo, dunque, andiamo! - gridò Bonaventura, balzando dalla seggiola e correndo all’uscio, con un piglio da spiritato.
Vedendo in che stato si fosse il suo riveritissimo amico, il marchese Antoniotto si degnò di accompagnarlo, ed ambedue uscirono sulle scale, seguiti dal fabbro ferraio che li aspettava coi ferri del mestiere tra mani, e dal servitore che portava una lucerna per rischiarare la via.
Ma in quella che muovevano i primi passi per salire al a di sopra, un nuovo personaggio comparve sul pianerottolo. Era il Collini.
- Padre, - diss’egli a Bonaventura, mentre faceva un profondo inchino al marchese Antoniotto, - son già venuto due volte a cercarvi.
- Torno adesso; - gli rispose brevemente il gesuita.
- Ho a parlarvi di cose gravi; - aggiunse sommesso il Collini. - Un caso strano, inaudito.
- Più tardi, più tardi, - gli aveva già detto Bonaventura; senonchè alle ultime parole del discepolo si fermò, ed aggiunse, - che cosa?
- Le cambiali sono state pagate.
- Ah! che dite voi mai?
- Sì, pagate stamane dal banco Teirasca. La vendetta m’è sfuggita pur troppo! -
Bonaventura fu colto da un capogiro, per modo che dovette aggrapparsi alla ringhiera, e un grido gli sfuggì dalle labbra.
- Che c’è? - dimandò, voltandosi indietro, il marchese Antoniotto, che già li aveva preceduti su per le scale.
- Nulla! - rispose il gesuita, scuotendo il capo, come per liberarsi da quella oppressura. - Presto, presto, signor marchese! apriamo quell’uscio! che io entri in casa mia.... che io m’assicuri!... -
E barcollando a guisa d’ubbriaco, salì le scale, dietro al Torre Vivaldi, al suo servitore e all’artigiano che doveva aprir l’uscio e dargli il passo alla sua camera da studio.
Senza capir nulla di quel tramestìo, il Collini seguì la comitiva su per le scale; ma all’affanno di Bonaventura, all’affaccendarsi del marchese Antoniotto, intese che c’era un guaio de’ grossi. Quella era stata per lo scolaro una giornata di disgrazia; ogni cosa anche pel maestro doveva andare alla peggio. Bonaventura, quell’uomo così forte, così padrone di sè, gli appariva stravolto, irrequieto, furente. Egli ben lo vedeva, al chiarore della lucerna, acceso in volto, il collo teso, seguire con gli occhi sbarrati e sanguinanti i moti dell’artigiano, che andava sperimentando l’un dopo l’altro i suoi ferri nella serratura restìa.
Non era facile impresa lo aprire quell’uscio. Toppa indiavolata! aveva detto il fabbro, in quella che cambiava per la seconda volta di grimaldello; e già cominciava a tirar giù qualche santo del paradiso, senza che Bonaventura e il cattolico senatore mostrassero di scandolezzarsene punto.
Finalmente uno di que’ ferri fece buona prova; la stanghetta, allo scattar della molla si mosse d’una mandata. Al gesuita grillarono gli occhi.
- Sia lodato il cielo! - esclamò il marchese Antoniotto, intanto che il grimaldello toglieva la seconda mandata.
- Sì, ecco fatto; - soggiunse l’artigiano cavando fuori il ferro ricurvo dal buco, e spalancando l’uscio con un gagliardo spintone.
Bonaventura non disse verbo; si cacciò dentro a precipizio, e senza aspettare l’aiuto del lume, corse nella sua camera da studio, dove, anzi che gli altri lo seguissero, aveva già brancolato alla nota parete, e tentata colle unghie la commessura dei battenti dell’armadio. Quel ripostiglio era chiuso, ed egli respirò un tratto. Uscì allora, e passato in mezzo al marchese Antoniotto e al Collini, che già si affacciavano sulla soglia, infilò il corridoio che metteva alle camere di servizio. La governante non c’era; ma ogni cosa gli parve a suo posto.
- Ella vede che non manca nulla; - disse allora il marchese, che gli aveva tenuto dietro con amorevole cura, - si calmi, adunque; or ora tornerà la sua governante, e ben potremo dire d’esserne usciti colla paura. -
Il gesuita non gli badò più che tanto. Accesa in fretta una bugia, ripigliò la via dello studio.
- Mi lascino solo un tratto, di grazia! - diss’egli, temperando più che gli venne fatto coll’accento la durezza della frase.
I compagni, che erano già per seguirlo, si rattennero. Egli entrò e tirò l’uscio dietro di sè. Lo avrebbe chiuso senz’altro, se un sentimento di onesto riguardo al marchese Antoniotto non lo avesse trattenuto in buon punto.
Il Torre Vivaldi approfittò di quella sosta per licenziare il fabbro ferraio.
- Quanto volete per la vostra fatica?
- La sua buona grazia, illustrissimo.
- Eccovi cinque lire, andate. -
L’artigiano fece un profondo inchino, e se ne andò. Il marchese Antoniotto si volse allora al Collini, che era rimasto pensieroso in mezzo all’anticamera; ma in quella che stava per volgergli la parola, si udì un grido dallo studio, e il tonfo, di un corpo che stramazza sul pavimento.
Che cos’era egli mai accaduto? Chiusosi a mala pena nella camera, Bonaventura era andato sollecitamente all’armadio. Il cuore gli batteva violentemente, per modo che egli stesso le udiva le pulsazioni, confuse con quelle del sangue che gli martellava alle tempie. In quell’orgasmo trasse di tasca una piccola chiave che egli portava sempre con sè; l’introdusse con mano tremante nella serratura, e ansante, affannoso, trambasciato, schiuse i battenti che nascondevano ancora a’ suoi occhi il ripostiglio geloso. Maledizione! I due scompartimenti dell’armadio erano vuoti. I ventiquattro volumi delle opere di Santo Agostino non c’erano più; la cassettina d’ebano era sparita.
Rimase un istante immobile, guatando a quella volta con occhi sbarrati e scintillanti. Orribile a vedersi! Sulla fronte livida appariva, smisuratamente ingrossata, una vena nerastra. Anch’esse le vene del collo nereggiavano, ingorgate di sangue, tese a mo’ di corde sotto la pelle pavonazza, che pareva sul punto di rompersi. Fremevano le nari dilatate; le labbra, agitate da un moto convulsivo, tremavano. Ruppe in un grido; ma il grido si spense tosto in un rantolo; la lucerna gli sfuggì dalle dita; le mani brancolarono nel vuoto, come cercando un appiglio; e quella mole fulminata stramazzò rovescioni sul pavimento.
Al grido e alla caduta di Bonaventura, il Collini e il Torre Vivaldi erano accorsi nella camera. La vista che si offerse al loro occhi, li colmò di spavento.
- Povero amico! che sarà mai? - gridò il marchese Antoniotto, più morto che vivo, in quella che pur s’industriava a rialzare il caduto. - Presto, qua il lume! Ed Ella, signor dottore.... Il cielo l’aveva proprio mandata a tempo! -
La prima occhiata del Collini, appena il servitore giunse colla lucerna, fu per l’armadio spalancato, dov’egli ben sapeva come il maestro custodisse la cassettina d’ebano ed altre carte di rilievo. Alla vista degli scaffali vuoti si sentì venir meno; gli si offuscarono gli occhi, e rimase come smemorato in mezzo alla camera.
- Che fare, adesso? - proseguì il marchese Antoniotto. - A lei, dottore, questo è affar suo. Non sente che rantolo? -
Queste parole, e la vista di Bonaventura, al cui volto livido il servitore aveva accostata la lucerna, richiamarono il Collini alle cure del suo ministero. Si pose ginocchioni presso il maestro, mentre il marchese Antoniotto gli sosteneva il capo tra le braccia; gli toccò il polso, e battè le labbra in atto di sfiducia; cavò un cerino, lo accese, e ne accostò la fiamma agli occhi di Bonaventura, che erano spalancati, ma vitrei, stravolti. La pupilla rimase immobile, senza dare alcun segno di contrazione.
Il discepolo allora si fece a chiamarlo ad alta voce più volte; ma invano. Il rantolo del moribondo si faceva a mano a mano più fioco; una spuma sanguinolenta gli gorgogliava sulle labbra, che apparivano violentemente contratte da un lato. Il Collini fu pronto a trar fuori la busta chirurgica, e cavatane la lancetta, aperse largamente la vena giugulare, donde spiccarono poche gocce di sangue nerastro, già mezzo rappreso. Volse la lancetta all’arteria temporale; neppure una goccia di sangue ne uscì. Sbottonato in furia il panciotto, strappata la cravatta, fatta la camicia a brandelli, pose l’orecchio alla regione del cuore, ma non gli venne udita la più lieve pulsazione.
- Orbene? - domandò il marchese, che seguiva ansioso degli occhi tutte quelle inutili operazioni.
- Non c’è più rimedio; - rispose il Collini; - il cuore ha cessato di battere.
- Ma questo rantolo....
- È un po’ d’aria rimasta nel polmone, che si va sprigionando, e rompe alcune vescichette mucose.
- Ma che cosa sarà mai, che lo uccide?
- Un colpo d’apoplessia. Non vede Ella questa contrazione delle labbra, questi occhi arrovesciati, e questi punti neri sulla faccia? C’è un versamento sanguigno. Se si potesse vedere sotto quel cranio, si scorgerebbe la rottura di un senso venoso del cervello, avvenuta per un afflusso improvviso, impetuoso, irresistibile, di sangue alla testa.
- Ma come? Perchè? - dimandò esterrefatto il marchese.
- Il nostro amico ha patito troppo orgasmo in brev’ora. I vasi portatori della vita hanno condotto una soverchia quantità di umore all’encefalo. Ciò avvenne in un impeto d’ira, o d’angoscia? Chi lo sa? Comunque ciò sia, il colpo è stato così violento, che il rigurgito del sangue dal cervello al cuore non è più stato possibile. Un eccesso di vita lo ha ucciso. Diffatti, Bonaventura Gallegos, il forte lottatore, il capitano dei neri, il fiero amante, il persecutore di Lilla di Priamar, non era già più. Il freddo della morte gli irrigidiva le membra.