I rossi e i neri/Primo volume/V
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V.
Come la vicinanza del Paradiso non togliesse a due amici di trovarsi in Purgatorio.
La collina di Albaro è la più bella collina che Domineddio abbia posto accanto ad una città, se pure non è meglio dire che Genova è l’unica città la quale sia stata posta accanto ad una così bella collina.
Genova, come tutti sanno, è edificata sulla spiaggia del mare, nel fondo di un golfo e alle falde di un contrafforte degli Appennini, che agli occhi del riguardante offre sembianza di anfiteatro, ed è, topograficamente parlando, un vasto triangolo inclinato, la base del quale è addossata al mare, e i lati, costretti fra due vallate naturali, salgono al vertice, che per una cresta si ricongiunge alle montagne vicine, sproni, o contrafforti che vogliam dire, dell’Appennino ligustico.
In quelle due vallate scorrono due torrenti, i quali non se l’avranno a male se li accuseremo di portare assai meno acqua che non consenta l’onorata ampiezza dei loro alvei la Polcevera a ponente, e il Bisagno a levante. La collina di Albaro è di là dal Bisagno, che essa accompagna in linea parallela fino alla foce.
Di che alberi era piantata nei tempi antichi la collina d’Albaro? Grave questione, ma fortunatamente oziosa. Oggi è piantata di palazzi, e un albero si paga tant’oro, a volerlo naturale. I pochissimi che vi sono, stanno colà soltanto per fare uffizio di cornice ai palazzi sullodati, tra i quali primeggia per bellezza il Paradiso, e per memoria quell’altro che diede albergo all’autore di Don Giovanni, della Parisina e del Lara.
Un nostro faceto amico, in una sua storia inedita della collina d’Albaro, deriva i tre nomi che la dividono, da tre fratelli che la avevano avuta in retaggio da uno dei soliti Noè dell’antichità; i quali tre fratelli si chiamavano Luca, Martino e Francesco. C’è infatti un San Luca, un San Martino e un San Francesco d’Albaro. Quest’ultimo è il più meridionale di tutti; laonde voi, quando abbiate fatto dieci minuti di strada dopo il ponte della Pila, vi trovate alle falde della collina incerto tra due strade, come l’asino di Buridano tra due misure di fieno. La strada a sinistra risale dolcemente la collina a San Martino, e di là scende a Sturla, a Quarto, a Quinto, a Nervi, e giù, giù, fino in capo al mondo; quella a destra piega un tratto verso mezzogiorno, poi sale faticosamente la collina a San Francesco d’Albaro, per ridiscendere verso San Luca, e andarsi a ricongiungere con la sua sorella di sinistra.
Noi, con licenza dei lettori, non baderemo che a San Francesco d’Albaro, il quale, sempre topograficamente parlando, ci presenta ancora tre viottole, le quali corrono da settentrione a mezzogiorno, tutte perpendicolari alla via maggiore, che taglia la collina precisamente accanto alla villa del Paradiso. La seconda di queste viottole finisce come le altre ad un ciglione che sopraggiudica il mare; ma su questo ciglione essa ci ha il particolare ornamento dell’antica chiesuola di San Nazaro; chiesuola senza tetto e senza lastrico, non più destinata ad altro che a qualche sacrificio cruento. Ed anche questa destinazione arbitraria non doveva durare. Dopo il ’60 la chiesuola è scomparsa, tramutandosi in una casa a parecchi quartieri, per uso e dilettazione estiva di villeggianti. Poesia delle rovine, addio; l’utilità ti soverchia. E infine, non ce ne addoloriamo oltre misura; l’istesso San Nazaro, che insieme col suo buon collega San Celso portò primo ai Genovesi il verbo dell’amore e della pace fraterna, non doveva essere troppo contento dei riti sanguinosi a cui le rovine della sua chiesuola erano state consacrate.
Il savio lettore ha già capito che questo era il luogo prefisso al duello del dottor Collini col marchese di Montalto. La posta delle due parti belligeranti era sul ripiano dinanzi alla chiesa; ma i padrini del Collini dovevano, come è già noto, aspettare quest’ultimo, mezz’ora prima, sotto la villa del Paradiso, per accompagnarlo poscia sul terreno.
Appunto in quel luogo la strada di San Francesco d’Albaro fa gomito, per dare agio ai carri e alle vetture d’inerpicarsi lassù. Epperò, sul ciglio della collina, dove fa capo quel giro tortuoso della salita, v’è una specie di terrazzo sporgente, il quale sopraggiudica la via sottoposta; e accanto al terrazzo una scaletta ripida, per comodo dei pedoni che vogliono prendere la scorciatoia.
Su questo terrazzo erano appostati alle quattro e mezzo del mattino tre uomini, Lorenzo Salvani, l’Assereto e il servo Michele. La vettura con la quale erano giunti, l’avevano mandata più innanzi.
Il cielo, ancora buio, stillava un po’ di brina, od altro di consimile: l’aria, non ricordandosi più de’ tepori del giorno innanzi, era gelida; e l’aspettare di quei tre sul terrazzo non poteva dirsi la cosa più allegra del mondo.
Lorenzo appariva tranquillo; solo l’amico Assereto si faceva lecito di scrollare il capo e di battere de’ piedi sul terreno, in guisa da lasciar trapelare che non il freddo soltanto gli recasse molestia.
Così la intese il Salvani, perchè, dopo alquante battute di quella fatta, si voltò all’amico e gli disse:
— Diamine! che impazienza è la tua?...
— Di’ piuttosto che disperazione; — soggiunse l’Assereto. Lorenzo non rispose altrimenti a quelle parole dell’amico che con un dispettoso crollar delle spalle.
— Sentimi, Lorenzo; — disse allora l’Assereto. — Io, già lo sai, ho accettato questa seccatura per te, non per altro riguardo al mondo. Ora ci ho in capo che questo signor Collini ce ne voglia fare una delle sue.
— Suvvia! — interruppe Lorenzo. — Tu l’hai sempre con lui, e questo non istà bene.
— Bravo! E tu vedi tutti gli uomini buoni, come un collegiale tutte le donne belle. Figliuolo mio, non si dànno di questi appuntamenti alla gente. Quando si è pronti a battersi, si dice ai padrini: venite a casa mia a svegliarmi. Quando se n’ha una voglia deliberata, si dice loro: dormite pure della grossa; io verrò a cercarvi a casa vostra. E in questo caso ci si arriva un’ora prima. Qui invece, che cosa avviene? Che si dà la posta a mezza strada, e si ritarda per giunta.
— Sia come tu vuoi; — rispose Lorenzo, — ma l’ora non è anche passata. D’altra parte, in questo negozio, siamo andati un po’ tutti col capo nel sacco, senza consultare il lunario. Tu vedi che incomincia appena ad albeggiare. Gli avversarii non sono giunti ancora.
— Oh, in quanto a quelli, guardali là in capo alla strada.
— E chi ti dice che non sia invece la carrozza del Collini?
— Vuoi scommettere?
— No, Assereto; non scommetto mai. Spero che quella sia la carrozza del Collini, e non mi curo del rimanente.
— Ed io ti dico che sono gli altri.
— Vedremo.
— Sta bene, vedremo. Ma intanto, se egli non viene, che cosa si fa?
— E che cosa vorresti fare? — chiese Lorenzo. — Già, credilo, il Collini non istarà molto a giungere, e quasi mi pare di fargli villania a darti retta. Ma, dato e non concesso, come dici tu, con eleganza curiale, che egli non venisse, la cosa è chiara come un’operazione aritmetica. Si va sul terreno, e si fa testimonianza dell’accaduto.
— Profferendosi prima ai comandi della parte avversaria, — interruppe l’Assereto.
— S’intende; ma è anche debito di gentiluomini rifiutare la generosa offerta; e i poveri padrini di un vigliacco se le vanno a capo chino e con la coda tra le gambe, come cani bastonati.
— Convieni che sarebbe una brutta cosa....
— È verissimo; ma che vorresti tu farci? A certi malanni che capitano tra capo e collo non c’è rimedio che tenga. Ma ecco la carrozza che gira il gomito della salita.
— Ahimè! — esclamò l’Assereto. — Siccome io sono certo che ella porta nel suo grembo i nemici, come il famoso cavallo di Troia, ti propongo di ritirarci nella scaletta, perchè non ci abbiano a vedere in questa disgraziata postura.
— E che c’è di strano, — rispose Lorenzo, — che noi stiamo qui aspettando il Collini? Noi non dobbiamo rendere ad essi altro conto che di una assenza sul terreno, all’ora prefissa. Del resto, ci avranno già veduti. —
Intanto che questo dialogo si proseguiva tra i due, la carrozza, girato il gomito della strada, veniva al trotto verso il ciglio della collina. I due amici si fecero per moto naturale a guardarla, e per la portiera, che era aperta, videro il Montalto co’ suoi padrini e il chirurgo.
Quei della vettura e quei della strada si scambiarono il saluto con molta freddezza. A Lorenzo il sorriso del marchese di Montalto parve altiero anzi che no. Tuttavia non volle dirne nulla all’Assereto, di cui temeva i commenti sarcastici. Ma all’Assereto non era sfuggito quel sorriso, e siccome egli nella furia del suo malumore non perdonava a nessuna cosa, si affrettò a dire:
— Hai veduto? Ci squadrano dal capo alle piante come bordaglia di strada. Ma riderà bene....
— Chi riderà l’ultimo! — gridò Lorenzo, levando le parole di bocca al compagno. — Hai ragione, Assereto. Ora usami questa cortesia, di aspettare un poco in santa pace. Sono le quattro e quaranta minuti, e il ritrovo davanti alla chiesa è fermo per le cinque. Il Collini non vorrà tardare più molto. Forse ha perduto tempo a trovar la carrozza. Aspettiamo dunque.... fino a tanto che si può.
— In questo caso, ottimo Lorenzo, tu sveglierai me, quando l’eroe sarà giunto, o tu ti sarai stancato di attenderlo. —
Così parlò quella buona lana dell’Assereto, e ravvoltosi bene nel suo mantello si sdraiò sul sedile di lavagna che correva intorno ai murelli del terrazzo, cercando di pisolare un tantino.