I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Un eroe persiano

Un eroe persiano

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La stella degli Afridi Fra gl'indiani

UN EROE PERSIANO


La storia che sto per narrarvi rimonta a quarant'anni fa, e in quell'epoca non regnava sul trono di Persia l'attuale Sciàh, che è molto più incivilito dei suoi antenati, bensì Nas-el-din, che godeva fama di essere molto crudele e molto barbaro.

Come tutti i regnanti asiatici, il defunto Sciàh era eccessivamente sospettoso ed in ogni persona che lo avvicinava, credeva di vedere un cospiratore pronto ad assassinarlo per impadronirsi del trono. Diffidava dei suoi stessi ministri e soprattutto dei suoi parenti e li faceva sorvegliare strettamente e spiava i loro passi. Diffidava però specialmente d'un suo cugino, un certo Alì, bel giovane, alto e bruno, che aveva dato grandi prove di coraggio, combattendo contro le tribù dei curdi, che avevano tentato d'invadere la Persia e di rovesciare il sovrano.

Lo Sciàh dapprima si era mostrato riconoscente verso il giovane valoroso che aveva salvato il regno da quei terribili abitanti delle steppe del mar Caspio, e lo aveva nominato generale dell'esercito, e per di più aveva dato il grado di principessa a sua sorella, la gentile Amina, che tutti chiamavano il fiore di Teheran.

Ora avvenne che un giorno alcuni abitanti ordissero una congiura contro il sovrano crudele, il quale, forte della sua possanza, abusava perfino troppo della pazienza dei suoi sudditi, taglieggiandoli in mille modi, specialmente i ricchi, per depredarli delle loro sostanze.

La congiura fu scoperta a tempo e tutti i congiurati furono condannati a morte, ma vi fu chi soffiò negli orecchi del possente monarca che la congiura fosse stata ordita da Alì, per impadronirsi del trono.

Bastò quel sospetto per generare nel cuore del tiranno un odio feroce contro il povero giovane che pure era stato il difensore del regno. Nas-el-din prestò fede alla voce malefica di quell'interessato, o meglio di quell'invidioso, ed un giorno, roso dai sospetti, mandò a chiamare Alì e gli disse a bruciapelo:

– Tu sei un traditore! Sei stato tu che hai ordito la congiura per togliermi il trono.

Il povero giovane, che non aveva mai preso parte a quella macchinazione, impallidì, sapendo bene che la sua vita era in grave pericolo, e gli rispose con grande sangue freddo:

– Datemi una prova, una sola, Maestà, ed io mi ucciderò ai vostri piedi: se non fossi innocente non vi direi ciò.

– Tu sei un miserabile! – urlò lo Sciàh furibondo. – La morte più orrenda sarebbe troppo dolce per punirti della tua perfidia.

Il giovane, punto sul vivo, scattò in piedi e con voce commossa per l'ira e l'indignazione, gli rispose:

– Sono queste dunque le ricompense che Vostra Maestà assegna a colui che difese col valore della propria spada la patria minacciata dai curdi?

– Ti ho creato principe del Farsistan e ti ho donato quella preziosa collana di rubini che porti al collo – rispose lo Sciàh.

– Che Vostra Maestà mi tolga quel titolo se così crede; in quanto alla collana ecco che cosa ne faccio.

Il giovane, così dicendo, se la tolse dal collo e con uno strappo la spezzò, disperdendo sul pavimento le pietre preziose.

Quell'atto, invece d'irritare maggiormente il potente monarca, lo calmò.

– Che mi abbiano ingannato? – esclamò.

– Che Vostra Maestà mi dica chi mi ha accusato ed io andrò ad ucciderlo di mia propria mano in un duello leale.

– Questo non te lo posso dire – rispose lo Sciàh. – Credo per ora alla tua innocenza, ma bada che ti farò sorvegliare e guai a te se oserai tramare qualche congiura contro di me.

Il giorno dopo uno degli alti dignitari del governo, governatore d'una provincia, veniva condannato all'estremo supplizio. Legato alla bocca d'un cannone fu fatto saltare in aria a brandelli, non essendovi in Persia l'uso di decapitare o di impiccare.

Nessuno seppe mai per quale motivo quel povero diavolo era stato condannato a quell'orribile morte; ma Alì suppose che fosse stato lui, per astio segreto, che lo avesse denunziato allo Sciàh come traditore.

Alcuni mesi dopo una nuova cospirazione si formava fra alcuni mercatanti di Teheran che si vedevano derubare dai funzionari del governo, ed uno di loro attentava alla vita del monarca, senza però riuscire nemmeno a ferirlo.

La stessa sera Alì veniva arrestato, non ostante le lagrime di sua sorella Amina, e tradotto sotto buona scorta nel massiccio castello della città.

La fanciulla, che temeva per la vita di suo fratello, già troppo sospettato, andò a trovare lo Sciàh e gli si gettò ai piedi, scongiurandolo di non prestare fede alle voci de' perfidi cortigiani.

Il monarca, che era ancora in preda ad una violenta commozione e ad un'ira tremenda, la respinse brutalmente, gridando:

– Tuo fratello è un traditore, ora ne sono certo. È stato lui che ha ordito la congiura dei mercatanti ed io lo farò impalare.

– È impossibile che voi, Maestà, abbiate delle prove – rispose Amina atterrita da quell'atroce minaccia. – Mio fratello è l'uomo più leale che vi sia in tutto il vostro regno e non dovete porgere orecchio ai miserabili che invidiano la sua posizione ed il suo valore.

– Ebbene, guarda – disse lo Sciàh, e si diresse verso un mobile di palissandro intarsiato di madreperla, ne aprì un cassetto e, togliendone una carta che mise sotto gli occhi della povera principessa: – Leggi – le disse. – Questo biglietto è stato trovato indosso a colui che tentò di uccidermi.

Amina vi gettò sopra uno sguardo e divenne spaventosamente pallida.

Non vi erano che poche righe per dare ai congiurati un appuntamento nel vecchio palazzo reale di Teheran, e sotto una firma: quella di Alì.

– Hanno imitato la scrittura di mio fratello! – gridò la disgraziata. – Lo giuro su Maometto, Alì è innocente, Maestà.

– Può darsi, – rispose Nas-el-din, – ma nel dubbio io preferisco la cosa certa e tuo fratello morrà impalato.

Amina comprese subito che sarebbe stato inutile scuotere quel crudele despota, e siccome era sicura dell'innocenza del fratello ed aveva numerosi amici fedelissimi, prese energicamente il suo partito.

– Farò fuggire Alì e cercherò poi il miserabile che ha nascosto quel biglietto nelle vesti dell'assassino. Questo delitto non rimarrà impunito.

Amina, quantunque giovanissima, possedeva una energia suprema. Tornata nel suo palazzo prese tutte le sue gioie e le impegnò presso un banchiere ebreo per avere in mano molto danaro, poi chiamò quattro amici devoti, che erano pure amici di Alì, e preparò il piano dell'evasione.

Non si trattava, d'altronde, che di corrompere il comandante della cittadella ove trovavasi il prigioniero e di tenere pronti dei cavalli velocissimi ed una scorta per poter raggiungere il più presto possibile la frontiera dell'Afganistan.

Una volta entrati nelle terre di quell'Emiro, non meno potente dello Sciàh, più nulla avrebbero avuto da temere.

Per maggior precauzione gli amici di Amina e di Alì assoldarono due dozzine di curdi del Demavend, gente quanto mai risoluta, sempre pronti a menare le mani in favore di chi li paga, per forzare all'occorrenza le porte della cittadella e ucciderne i guardiani.

La sera dopo Amina, vestita da nobile persiano, ed i suoi amici si presentavano alle porte della cittadella, chiedendo di parlare al comandante.

Trattandosi di personaggi influenti, che bazzicavano la corte del monarca, la sentinella non oppose ostacoli ed il comandante, subito avvertito della loro presenza, si affrettò a riceverli.

I curdi, intanto, si erano celati nei dintorni della prigione, pronti ad accorrere al primo cenno ed a sgozzare i guardiani.

Il comandante, che aveva già riconosciuto Amina anche sotto le vesti maschili, e che amava Alì, avendo combattuto sotto i suoi ordini, comprese subito di che cosa si trattava. Sapendo però che lo Sciàh non lo avrebbe risparmiato, finse dapprima di resistere alle offerte fattegli dalla coraggiosa fanciulla, ma cedette dinanzi alla cifra di mille tomani – ossia di ventimila lire – somma che gli permetteva di salvarsi a sua volta, sia verso il mar Caspio o nel Belucistan.

– Cedo alla forza, – disse, – ma fuggo subito anch'io. Lo Sciàh non mi perdonerebbe e m'impalerebbe.

Aprì la porta della prigione ove trovavasi lo sventurato giovane, un cupo e umido sotterraneo, condusse il prigioniero fuori della fortezza, dicendo ai guardiani che lo Sciàh lo aspettava, montò su uno dei cavalli più rapidi, e dopo d'aver intascato il premio, fuggì a rotta di collo per sottrarsi alla vendetta del suo crudele signore.

Amina, lieta di quella insperata liberazione, abbracciò affettuosamente il fratello, raccomandandogli di non arrestarsi che alle frontiere dell'Afganistan, gli consegnò una grossa somma e ritornò al suo palazzo per non far nascere alcun sospetto nell'animo dello Sciàh.

Alì che sapeva come suo cugino non gli avrebbe perdonato, anche se non aveva le prove sicure della sua colpevolezza, che d'altronde era stata creata da qualche cortigiano invidioso, perché non aveva mai pensato a prendere parte ad alcuna congiura, non essendo affatto ambizioso, spronò il cavallo datogli dall'affettuosa sorella per raggiungere le frontiere dell'Afganistan.

I quattro fedeli amici ed i curdi assoldati lo seguivano pronti a difenderlo.

Mentre cavalcava senza riposo attraverso le pianure immense della Persia meridionale, lo Sciàh veniva subito informato dell'evasione del prigioniero e anche della fuga del corrotto governatore.

Arse d'ira il despota e più che mai sicuro che suo cugino avesse preso parte alla congiura, ordinò alla sua cavalleria d'inseguire i fuggiaschi e di chiudere tutti i passi che conducevano nell'Afganistan.

I cavalieri persiani godono fama di essere dei corridori maravigliosi, montando quasi tutti cavalli arabi d'una resistenza straordinaria.

I mille e cinquecento uomini lanciati sulle tracce del fuggiasco non tardarono a raggiungere le frontiere ed a sbarrare i passi.

Disgraziatamente Alì, avendo pernottato in un villaggio, non era riuscito a uscire dallo Stato prima che i cavalieri del monarca fossero giunti alla frontiera, sicché quando volle varcarla si trovò dinanzi a forze imponenti, risolute a tagliargli la via.

Fra i curdi ed i cavalieri del re s'impegnò un furioso combattimento nel quale i primi ebbero la peggio, lasciando due terzi dei loro sul terreno, compresi i quattro amici di Amina, i quali avevano preferito una morte gloriosa, con la scimitarra in pugno, al palo od a qualche altro peggiore supplizio.

Lo sfortunato Alì, che si era battuto come un leone, senza riuscire a sgominare i cavalieri del re, troppo numerosi per poterli vincere, fu catturato vivo, rinchiuso in una portantina con le grate di ferro e ricondotto alla capitale.

Quando lo Sciàh se lo rivide dinanzi, la sua collera scoppiò tremenda:

– Ora non mi dirai più di non essere colpevole – gli disse. – Se tu fossi stato innocente non saresti fuggito, corrompendo per di più il comandante della cittadella. Ora sono certo che sei stato tu che hai ordito la congiura dei mercatanti.

– Vostra Maestà s'inganna – rispose Alì. – Sono fuggito per sottrarmi alla morte orrenda a cui mi avevate condannato e non già perché io fossi colpevole. Ciò che vi dissi un giorno ve lo ripeto ora: sono l'uomo più leale che esista nel vostro Stato, ma giacché esigete la mia morte, si compia il vostro desiderio. Mi vergognerei difendermi di più.

– Perché sei doppio e falso e non puoi dimostrare la tua innocenza – proruppe il tiranno furioso. – Tu volevi rifugiarti nell'Afganistan per aizzare contro di me l'Emiro di quel paese.

– Ripeto a Vostra Maestà che sono troppo leale per difendermi da simili accuse. Voi volete una vita umana: ebbene, prendetevela.

– E me la prenderò, traditore!

– Sono rassegnato alla mia triste sorte – rispose il giovane guerriero. – Vi auguro solo di non dovervi un giorno pentire di questo delitto.

– Sei un cane, un falso ed io non mi pentirò giammai di aver purgato la terra d'un miserabile pari tuo!

Alì non si degnò nemmeno di rispondere e volse le spalle al monarca, ricollocandosi fra le guardie che lo avevano condotto al palazzo reale.

Il domani la vasta piazza del Meidan, che è quella destinata ai supplizi, era gremita di persone o meglio di curiosi.

La voce che si stava per punire il cugino del possente monarca si era sparsa, e tutti gli abitanti della capitale, avidi di spettacoli sanguinosi, erano accorsi.

Non si trattava già del solito spettacolo di legare un uomo alla bocca d'un cannone e di sfracellarlo; bensì d'un supplizio ben più spaventevole: d'un'impalazione, di quell'atroce supplizio inventato dalla fantasia mostruosa dei sultani della Turchia.

La ghigliottina, la forca, la morte col cannone, la decapitazione con un buon colpo di scimitarra sono nulla in confronto alla morte col palo.

Per eseguire quella tortura spaventevole sono necessari dei carnefici d'una grande abilità, poiché la vittima non deve morire subito. La sua agonia non deve durare meno di tre giorni.

Si adopra una specie di spiedo di dimensioni gigantesche, infisso in una pietra e vi s'infila il condannato per modo che la punta entri sotto un fianco, il destro od il sinistro poco importa, ed esca dalla spalla, affinché non offenda alcun organo importante.

Il povero condannato rimane così quasi sospeso, con quel ferro attraverso il corpo, e può vivere persino quattro giorni.

Per rendergli l'agonia più atroce, il carnefice lo spalma di miele, onde le mosche e le api lo tormentino maggiormente. Certo nemmeno i cinesi, maestri in fatto di torture, non hanno mai inventato alcun che di simile.

Il valoroso Alì, ormai rassegnato al suo triste destino, fu condotto sulla piazza e affidato al carnefice.

L'atroce operazione fu fatta rapidamente ed il valoroso in pochi istanti si trovò sospeso al palo di ferro.

Quando svenne sotto l'atroce dolore, la folla indignata si allontanò, come muta protesta contro la crudeltà immane dello Sciàh.

La sera, mentre le due sentinelle vegliavano sull'agonia del giovane, una donna, che aveva il volto coperto da fitti veli, si avvicinò al palo, dicendo con voce risoluta:

– Fate largo alla sorella dello sventurato Alì.

Ella fece scivolare nelle mani dei due soldati due borse piene d'oro e s'accostò al giovane, che non era ancora morto.

– Mi puoi udire, fratello? – chiese con una voce strozzata dai singhiozzi.

– Sì, Amina – rispose il moribondo.

– Posso abbreviare il tuo supplizio?

– Sì, spezzandomi il cuore.

– Sì, lo farò, ma ti giuro che sarai vendicato. Sì, ho saputo chi è stato colui che mise dei sospetti nell'animo del re.

– Dimmelo e morrò felice perché so che tu mi vendicherai.

– È Ben-Zuf, il fratello di colui che lo Sciàh fece uccidere per mezzo del cannone, per punirlo di averti denunziato la prima volta. Sei innocente, non è vero?

– Lo giuro sulla barba di mio padre.

– Muori in pace.

L'eroica fanciulla, reprimendo i singhiozzi che la soffocavano, estrasse dal petto un sottile pugnale e con mano ferma lo piantò nel cuore del principe.

– Grazie... Amina – mormorò Alì, reclinando il capo sulla spalla trafitta dal palo di ferro. – Grazie!

Furono le sue ultime parole. La morte lo aveva sorpreso quasi nel medesimo istante, liberandolo dall'atroce tortura.

Per sette giorni Amina non si fece più viva, tanto che la popolazione e lo Sciàh stesso credettero che avesse lasciato la capitale per non incorrere in qualche punizione.

Invece, la brava fanciulla vegliava attentamente per sorprendere Ben-Zuf, il quale si teneva in guardia, sospettando una prossima vendetta di cui alcuni suoi amici lo avevano avvertito.

Una sera, mentre usciva dalla casa d'un suo parente, dove aveva cenato abbondantemente, fu sorpreso da dodici uomini armati, legato per bene e condotto al palazzo di Amina.

Quando il miserabile si trovò dinanzi alla sorella della sua vittima, comprese di essere perduto ed implorò il perdono.

– Io te lo accordo, purché tu dichiari che hai voluto vendicare con una delazione infame tuo fratello, fatto uccidere dallo Sciàh mio cugino – rispose la fanciulla.

Il persiano accondiscese, ma, quando ebbe scritto e firmato, uno degli amici di Alì estrasse una pistola e, rivolgendosi all'Amina, le disse:

– Voi avete perdonato, ma noi no! Quest'uomo merita la morte e morrà. Lo abbiamo giurato.

E lo freddò d'un colpo, facendogli saltare le cervella.

Dopo quella sera Amina scomparve da Teheran, ma vi fu chi s'incaricò di far pervenire a Nas-el-din la dichiarazione di Ben-Zuf.

Lo Sciàh fu molto impressionato da quel fatto, rimpianse a lungo la morte del coraggioso giovane che aveva difeso le frontiere dello Stato contro l'invasione dei curdi e decretò la distruzione di tutte le case appartenenti al delatore ed al fratello di lui, magro compenso per la morte d'un così bravo principe del suo sangue.

Fece cercare Amina nell'Afganistan e nel Belucistan per tentare di riparare in qualche modo al mal fatto, senza però riuscire nell'intento.

Quando finalmente morì, una mano audace scrisse sul suo mausoleo questa terribile frase che i persiani ancora ricordano!

«Qui giace l'assassino di Alì».

Nessuno seppe mai chi la vergò, né il suo successore, che è l'attuale Sciàh, credette opportuno di fare maggiori indagini.

In Persia si sospetta però che la mano fosse quella di Amina, la sorella dello sventurato e valoroso giovane, difensore delle frontiere persiane.