I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Lo stregone della palude nera
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LO STREGONE DELLA PALUDE NERA
Da cinque anni il capitano Barding aveva lasciato l'esercito inglese della Nuova Galles del sud per recarsi sulle rive del lago Torrens, uno dei vasti e dei più splendidi bacini dell'Australia meridionale, per fare il coltivatore e l'allevatore.
Quelle regioni, scoperte solamente poche diecine d'anni fa, sono il paradiso del bestiame grosso e piccolo. Tutte le regioni interne dell'Australia, bagnate però da fiumi, formano delle praterie così immense e così ricche di foraggi, da non aver eguali al mondo. Nemmeno quelle famose dell'America del Nord possono reggere nel confronto.
Non è quindi rado trovare su quegli ubertosi terreni delle fattorie che posseggono sette, otto e talvolta perfino quindici milioni di capi fra buoi, montoni e cavalli.
Il capitano Barding, informato delle rapide fortune fatte da quegli allevatori, aveva dunque lasciato l'esercito per diventare a sua volta proprietario di terreni e di mandrie, ottenendo dal governo una vastissima concessione di terreni nei pressi del Torrens.
Uomo attivissimo, di larghe vedute e anche danaroso, in pochi anni aveva radunato attorno a sé parecchie migliaia di montoni, aveva fatto dissodare vasti terreni coltivandoli a grano ed a maiz e si era anche costruito una superba fattoria, che non aveva rivali nei dintorni.
La fortuna già sorrideva all'intraprendente capitano perché le annate si succedevan sempre buone ed i montoni si moltiplicavano con prodigiosa rapidità e già sognava il momento di poter dotare la sua bionda Jenny, l'unica sua figlia, quando un avvenimento terribile venne a distruggere ad un tempo quella fortuna e anche la felicità del padre.
Da qualche tempo una tribù di selvaggi australiani cacciati dall'interno del continente dalla carestia e dalla siccità, malanni molto comuni nell'Australia centrale, era venuta ad accamparsi sulle rive del lago, a non molta distanza dalla fattoria del capitano.
Erano un centinaio e mezzo di ripugnanti individui, più somiglianti alle scimmie che ad esseri umani, coi ventri prominenti, le membra invece magre come zampe di ragno, coperte di pochi cenci e così sporchi da fare schifo.
Avevano costruite poche dozzine di capanne formate con cortecce d'albero, miseri abituri insufficienti a proteggerli tanto dal sole quanto dalle piogge, mettendosi subito in cerca di vermi, di lucertole e di serpenti, cibo ordinario di quei selvaggi, dopo che i canguri sono diventati rari su quelle terre già invase dai cacciatori europei.
Il capitano Barding, sapendoli ladri, non aveva veduto di buon occhio quella emigrazione ed aveva dato ordini severissimi ai suoi guardiani onde impedissero a quei bruti d'avvicinarsi alle sue possessioni.
Nondimeno aveva acconsentito che il loro capo si presentasse ogni settimana alla sua fattoria, per ricevere qualche soccorso, e ciò per far piacere alla figlia.
Quel capo era d'una bruttezza ributtante, tarchiato, con una testa grossissima che lo faceva rassomigliare ad un mandrillo, con una capigliatura folta, cresputa, abbellita da quattro penne rosse di kakatua.
Si faceva chiamare lo stregone della palude nera e si vantava di saper gettare dei malefici sulle persone che gli davano ombra o che credeva suoi nemici.
Dapprima quel ributtante selvaggio che si pavoneggiava nel suo lurido mantello di pelo d'opossum, si era tenuto ligio al permesso ottenuto, ma dopo qualche tempo raddoppiò le sue visite alla fattoria. Cercava poi soprattutto di accostare dovunque la giovane Jenny, seguendola dovunque quando percorreva le vaste possessioni del padre sul suo focoso cavallo.
Quell'assiduità sospetta, era stata notata dal capitano. Non sapendo dove mirasse lo stregone della palude nera, un giorno lo affrontò nel momento in cui presentavasi alla fattoria per ricevere i soliti soccorsi.
– D'ora innanzi, – gli disse senza preamboli, – tu non porrai più piede sulle mie possessioni e riceverai la carità, che mia figlia ha destinata alla tua tribù, nel tuo accampamento.
Il selvaggio guardò il capitano con stupore non dissimulato, poi disse:
– L'uomo bianco vuole scacciarmi?
– Tale è la mia intenzione.
– Eppure la mia tribù ha rispettato la proprietà dell'uomo bianco.
– È vero, ma tu mi nascondi qualche cosa.
– L'uomo bianco che sa leggere può vedere cosa sta scritto nel mio cuore – rispose lo stregone.
– Io non vi leggo niente – disse il capitano, seccato. – Vorrei invece sapere perché tu segui mia figlia.
Il selvaggio s'avvolse maestosamente nel suo mantello di pelo, rizzò fieramente il capo adorno di penne, quindi disse:
– L'uomo bianco lo ignora?
– Lo ignoro.
– Lo stregone della palude nera ama la fanciulla bianca e desidera farne la propria moglie. Io sono capo d'una tribù e sarà un grande onore per te avermi per genero.
Udendo quelle parole il capitano era rimasto tanto stupito, da non saper dapprima se rispondere o prendere a colpi di frusta quell'immondo selvaggio.
– Ma tu sei pazzo! – esclamò finalmente, scoppiando in una risata. – Io imparentarmi con un briccone della tua specie? Vattene prima che ti faccia frustare e che ti prenda a calci.
– L'uomo bianco rifiuta? – chiese lo stregone.
– Mia figlia non è un boccone per te, mio caro. Non è degna d'una scimmia così brutta.
– Rifiuti? – chiese lo stregone con voce minacciosa.
– Sì, perché mia figlia non è abituata a mangiare né vermi, né lucertole e tanto meno serpenti. Va' e senza voltarti indietro, se ti preme la pelle.
Il selvaggio si levò una delle penne che gli ornavano la capigliatura, la gettò a terra in atto di sfida e se ne andò lestamente, senza osar di voltarsi.
Il capitano Barding non era uomo da inquietarsi per le minacce dello stregone. Aveva parecchi servi devotissimi, armi in abbondanza, la sua fattoria era solida.
Temendo però qualche colpo di testa, pregò sua figlia di non allontanarsi più dalla possessione e di non occuparsi più della tribù australiana.
Erano trascorsi parecchi mesi, senza che alcun avvenimento fosse venuto a turbare la calma e la tranquillità che regnava nella ricca possessione del capitano.
Solamente si erano verificati alcuni piccoli furti commessi indubbiamente dall'affamata tribù. Qualche bue e dei montoni erano stati portati via e qualche piantagione era stata in parte devastata; eppure il capitano non vi aveva fatto caso, erano danni infimi che non meritavano castighi e la tribù era stata lasciata tranquilla.
Lo stregone poi si era ben guardato di farsi ancora vedere alla fattoria. Era stato però visto ronzare parecchie volte attorno alle possessioni in attitudine sospetta, e nessuno se n'era inquietato.
Nondimeno un giorno lo stregone fu veduto avanzarsi attraverso la possessione. Indossava un mantello nuovo, si era ornato il capo con un ciuffo di penne di casoaro e dipinto il corpo in giallo con macchie nere.
Chiese del capitano e appena se lo vide dinanzi, gli disse:
– La mia tribù parte per l'interno e sono venuto, per l'ultima volta, a chiederti la mano della fanciulla bionda. Vuoi concedermela?
– Vattene all'inferno! – esclamò il capitano stizzito. – Non voglio imparentarmi con un gorilla della tua specie. Mia figlia non sposerà che un uomo della sua razza.
– Io getterò su quell'uomo un maleficio.
– Gettane anche cento; non gli faranno né caldo né freddo.
– È l'ultima tua parola?
– L'ultima, – rispose il capitano, – come è l'ultima volta che ti permetto di presentarti dinanzi a me.
– Addio, uomo bianco, io parto, ma tua figlia non mi dimenticherà.
Lo stregone, come la prima volta, gettò a terra una piuma e se ne andò senza aver pronunziato né una minaccia, né tradire alcuna collera, per quel nuovo rifiuto.
L'indomani la tribù abbandonava i dintorni del lago Torrens, incamminandosi attraverso i superbi boschi di eucalyptus.
Si era definitivamente allontanata? Il capitano lo credette e non si occupò altro che dei suoi montoni e delle sue piantagioni.
Altri due mesi erano così trascorsi senza che più nulla si fosse saputo di quel ridicolo stregone della palude nera. Probabilmente la sua minaccia era stata una semplice spacconata e disperando di possedere la bianca fanciulla dai capelli d'oro era tornato nei suoi deserti dell'Australia centrale, così almeno la pensava il capitano.
Gli avvenimenti invece dovevano smentire, in breve, quella fallace supposizione.
Nella possessione era stata organizzata una caccia al canguro, alla quale erano stati invitati alcuni grossi allevatori della riva orientale del lago.
Il capitano Barding, appassionato cacciatore, aveva preparato le cose in modo che avesse una completa riuscita non solo, ma che anche terminasse con un banchetto degno della sua fama di perfetto anfitrione.
L'animale, una bellissima bestia che da parecchio tempo guastava le piantagioni, era stato scovato e costretto a rifugiarsi in un folto bosco d'eucalyptus da dove non avrebbe dovuto uscire che morto per passare poi allo spiedo.
La mattina fissata per la caccia era splendidissima. Il sole aveva appena cominciato a far capolino attraverso le foglie delle piante, quando i cacciatori lasciavano la possessione per scovare la selvaggina.
Jenny, montata su una bellissima giumenta bianca, era della partita. Abile cavallerizza ed intrepida cacciatrice, non avrebbe rinunciato a quel piacere, anche se fosse stata certa di correre qualche pericolo.
La cavalcata uscita dalla possessione si era ben presto dispersa per la vasta foresta, dove i battitori avevano già levato il canguro.
La povera bestia, inseguita dai cani del capitano, aveva cominciata la sua corsa sfrenata attraverso la boscaglia, spiccando salti giganteschi.
Jenny, che conosceva tutte le possessioni aveva lasciati indietro gli ospiti, colla speranza di sparare il primo colpo di fucile.
Già si era mostrata nella parte più fitta della boscaglia, quando tutto d'un tratto udì in aria un ronzìo sordo che s'avvicinava rapidamente.
Un momento dopo la sua giumenta faceva un brusco scarto e cadeva al suolo colle gambe anteriori fracassate da uno di quei bastoni ricurvi chiamati dagli australiani boomerang e che gl'indigeni lanciano con una destrezza impareggiabile.
La caduta era stata così improvvisa, che la giovane, perduto l'equilibrio, era andata a cadere nel mezzo d'un cespuglio, perdendo la carabina che teneva in pugno.
Quasi nel medesimo istante un selvaggio si slanciava fuori da una macchia, frapponendosi fra la fanciulla e la giumenta.
– La donna dei capelli d'oro non mi riconosce più? – chiese quell'uomo con accento ironico. – Sono due mesi che io l'aspetto.
Jenny aveva mandato un grido di sorpresa e di terrore.
In quel selvaggio aveva riconosciuto lo stregone della palude nera.
– Veniva a cercare mia moglie – rispose il selvaggio.
– Non ti comprendo, capo.
– Io aveva chiesto a tuo padre la tua mano e me l'ha negata; ora tu sarai egualmente mia.
– E tu oseresti?... – gridò la fanciulla.
– Ti ho detto che farò di te mia moglie – disse lo stregone con accento risoluto.
– Io ti disprezzo, miserabile selvaggio. Io sono una fanciulla bianca! – gridò Jenny.
– Ed io sono un capo tribù!
– Ti farò frustare da mio padre.
– Aspetta che venga! – rispose il selvaggio, sogghignando.
Accostò alle labbra una specie di flauto e cavò alcune note stridenti.
Un momento dopo quattro orribili selvaggi armati di scuri di pietra e di lance colla punta d'osso, uscirono dalla macchia, si gettarono brutalmente sulla fanciulla, la legarono con fibre vegetali, quindi gettatala su un palanchino formato con rami intrecciati, partirono di corsa attraverso la foresta.
Lo stregone li seguiva pronto a difendere la ritirata.
Quella corsa durò un'ora, poi i selvaggi s'arrestarono sulle rive del lago, in un luogo deserto, riparato da alberi enormi.
L'intera tribù era uscita dalle macchie, circondando il palanchino. Vi erano uomini, donne e fanciulli e alcuni guerrieri armati di scuri e di boomerang.
Lo stregone della palude nera fece sciogliere le corde che avvincevano la fanciulla, quindi volgendosi verso la tribù, disse:
– Ecco mia moglie! Si compia il rito del matrimonio.
Un vecchio d'aspetto orribile, col viso rugoso e coperto in parte di peli, si era fatto innanzi, tenendo in mano una mazza di legno durissima e pesante.
Jenny vedendolo, aveva mandato un urlo straziante perché aveva riconosciuto in quell'uomo un kerredais ossia il sacerdote della tribù.
Avendo una certa conoscenza dei costumi degli australiani, aveva subito compreso a quale atroce mutilazione stavano per sottoporla e s'era nascosto il viso fra le mani, chiudendo la bocca.
– Vuoi essere mia moglie? – chiese lo stregone della palude nera, accostandosi alla fanciulla.
– Giammai, miserabile! – gridò Jenny, coll'energia della disperazione.
– Ebbene tu lo sarai egualmente.
Ad un suo cenno due uomini l'avevano afferrata strettamente per le braccia mentre un terzo, stringendole il naso, la costringeva ad aprire la bocca.
Il kerredais le si era avvicinato tenendo alzata la mazza. Secondo il rito australiano, perché la fanciulla diventasse moglie legittima del capo, doveva spezzarle due denti incisivi.
Già la mazza stava per piombare e fracassare la candida dentatura della giovane, quando uno sparo echeggiò ed il sacerdote cadeva al suolo con una palla nel petto.
Il capitano Barding era balzato fuori dai cespugli, tenendo ancora in pugno la fumante carabina.
Non vedendo comparire la figlia, dopo la morte del canguro ucciso dalla sua infallibile palla, un terribile sospetto gli era balenato nel cervello.
Si era ricordato della minaccia dello stregone della palude nera ed avendo notato nella foresta delle tracce di piedi nudi e poi trovata la giumenta ferita dal boomerang, aveva dato l'allarme.
Mentre i suoi compagni frugavano la foresta per scovare i selvaggi, più fortunato di loro, aveva trovato le orme degli australiani ed era giunto sulle rive del lago nel momento in cui il kerredais stava per unire l'orribile stregone e la disgraziata fanciulla.
– Miserabile! – aveva gridato, fuori di sé. – Ora vi uccido tutti.
I selvaggi quantunque atterriti per la morte del loro sacerdote, non erano però fuggiti. Anzi, resi furiosi e aizzati dal loro capo si erano scagliati tutti insieme contro il disgraziato capitano.
Erano cento contro uno e la lotta non poteva essere dubbia, tanto più che il capitano si trovava ormai col fucile scarico.
Nondimeno, facendo mulinello colla carabina impugnata come mazza era riuscito a raggiungere Jenny, la quale era caduta al suolo svenuta.
– Indietro! – urlò. – Chi tocca mia figlia è uomo morto!
Lo stregone gli si era avventato contro come una tigre bramosa di sangue. Teneva in mano una pesante scure di pietra dal filo taglientissimo che maneggiava con abilità sorprendente.
– Che nessuno si intrometta – aveva gridato. – Lo stregone della palude nera ucciderà l'uomo bianco e ne sposerà la figlia.
Il capitano aveva compreso che quell'uomo voleva impegnare la lotta da solo.
Gettò la carabina che non gli era di nessuna utilità essendo, come abbiamo detto, scarica e raccolse da terra una scure dimenticata da qualche indigeno.
– Se tu credi di uccidermi, t'inganni, miserabile stregone! – gridò. – Ora io ti mostrerò il valore degli uomini bianchi.
– Ebbene, prendi! – urlò il selvaggio.
Si scagliò contro il capitano impegnando con lui un duello terribile che doveva finire colla morte di uno dei due campioni.
Il selvaggio era robusto e agile, e anche il capitano era un avversario formidabile e dotato d'un coraggio a tutta prova.
Mentre si misuravano a colpi di scure così furiosi da spaccare le rupi, i guerrieri della tribù avevano formato circolo intorno a loro senza mostrare l'intenzione d'intervenire in favore dell'uno o dell'altro.
Anche le donne erano accorse ad assistere a quella lotta, anzi alcune avevano circondato la giovane Jenny cercando di farla ritornare in sé.
Intanto lo stregone continuava ad investire il capitano con cresciuto furore. Ansava come una fiera, urlando ferocemente per spaventare l'avversario e parava velocemente senza mai venire toccato.
Si vedeva però che esauriva le sue forze senza alcun risultato, perché il capitano non si lasciava cogliere.
Anche questo abile schermitore dava assai da fare all'avversario, anzi più d'una volta lo aveva sfiorato.
Ad un tratto lo stregone, reso maggiormente furioso da quella resistenza, si gettò a colpo perduto addosso al capitano vibrandogli un tale colpo, che se l'avesse colto gli avrebbe spaccata la testa come una nocciuola.
Barding con una mossa altrettanto fulminea s'era gettato da una parte, poi approfittando del momento in cui lo stregone perdeva l'equilibrio, caricò a sua volta.
La pesante scure scese rapida e squarciò orribilmente il dorso del selvaggio, troncando contemporaneamente la spina dorsale.
– Muori, dannato! – gridò. – Così non sposerai più mia figlia.
I selvaggi vedendo il loro capo rotolare al suolo senza vita, avevano mandato un grido di terrore, poi tutti si erano scagliati sul vincitore strappandogli di mano la scure insanguinata.
L'assalto era stato così improvviso, che Barding non aveva nemmeno avuto il tempo di opporre la più debole resistenza.
– Uccidetemi, – disse egli, – e risparmiate la vita a mia figlia.
I selvaggi lo legarono senza manifestare, almeno per il momento, intenzioni ostili, poi lo portarono in una scialuppa scavata nel tronco d'un enorme eucalyptus, mentre Jenny veniva trasportata in un'altra.
I selvaggi tennero consiglio sulla cima d'una roccia, quindi seppelliti il capo ed il kerredais s'imbarcarono a loro volta, dirigendosi verso le rive orientali del lago.
Il capitano, in preda ad angoscia inenarrabile, aveva interrogati i selvaggi per conoscere la sorte che gli riserbavano, e non aveva ricevuta risposta alcuna.
Aveva però osservato che non manifestavano né verso di lui né verso Jenny alcun sentimento d'odio, anzi che cominciavano a trattarlo con una certa deferenza.
La traversata del lago, uno dei più ampi dell'Australia meridionale, durò due giorni e all'alba del terzo la tribù sbarcava sulle rive d'una baia circondata da superbi alberi gommiferi.
Ricollocarono il capitano e sua figlia su dei palanchini costruiti frettolosamente con alcuni rami e resi soffici da alcune bracciate di foglie e si cacciarono in mezzo ai boschi, procedendo in silenzio.
Il capitano, sempre più stupito, si chiedeva insistentemente cosa stava per succedere. Quella gita misteriosa lo preoccupava, quantunque i selvaggi si fossero dimostrati sempre verso di lui rispettosi.
Finalmente, dopo tre altri lunghi giorni di cammino attraverso a foreste immense, a burroni, a montagne, la tribù si arrestava sulle rive d'una palude le cui acque erano nere e popolate da smisurati serpenti.
Il capitano provò un'angoscia atroce e per un momento ebbe il sospetto che quei selvaggi lo avessero condotto in quel luogo per vendicare lo stregone della palude nera.
Invece con sua viva sorpresa si vide liberare dai legami; anche Jenny era stata sciolta.
Padre e figlia si erano subito abbracciati, mentre i selvaggi avevano formato circolo intorno a loro, come se avessero voluto impedire a loro la fuga.
– Padre! – gridò la fanciulla, piangendo. – Cosa sta per succedere? Non è questa forse la palude nera dello stregone?
– Lo temo figlia – rispose il capitano gettando uno sguardo disperato sui selvaggi che lo circondavano. – Questi maledetti ci hanno condotti qui per immolarci alle loro mostruose divinità.
– Ho paura, padre mio. Tentiamo di fuggire.
– È impossibile, Jenny. Io non ho alcuna arma e poi siamo circondati.
In quel momento il cerchio formato da guerrieri s'aprì e s'avanzò un selvaggio che aveva il petto coperto d'orpelli e di tatuaggi e infisse nel capelli due penne d'aquila, distintivo dei kerredais australiani.
In mano teneva una collana di denti di canguro e un boomerang, l'arma più formidabile dei selvaggi australiani e che soli essi sanno lanciare con un'abilità stupefacente.
S'avvicinò al capitano, gli mise al collo la fila di denti ed in mano il boomerang, dicendogli:
– L'uomo bianco ha ucciso lo stregone della palude nera, che era il più valente guerriero della tribù. Tu solo sei degno di surrogarlo, perché hai dimostrato di essere il più prode di tutti noi e noi ti nominiamo nostro capo.
– Io! – esclamò il capitano al colmo della sorpresa. – Io non desidero altro che di tornare nella mia fattoria.
– O nostro capo o la morte fra i serpenti della palude nera – disse il kerredais con voce recisa. – Non hai che da scegliere.
– E mia figlia?
– Sarà la figlia del nostro capo e, come tale, sarà rispettata da tutti noi.
Non v'era da scegliere. Il capitano Barding, impotente a resistere ai voleri di quei bruti i quali non avrebbero certamente esitato a mettere in esecuzione la terribile minaccia, fu costretto a cedere e lasciarsi investire del supremo potere.
Seduta stante fu tatuato, dipinto, spogliato delle sue vesti per indossare invece un mantello di pelo d'opossum e abbellito da un pezzo d'osso passato fra le cartilagini del naso.
Il povero capitano, per paura che quei bruti si lasciassero trasportare dall'ira, non aveva osato né ribellarsi, né lagnarsi.
Terminata la sua toletta, fu condotto nella più spaziosa capanna del villaggio un tempo abitato dalla tribù e lasciato solo con Jenny.
I due disgraziati piansero a lungo amaramente, ma si rassegnarono sperando un giorno di potersi sbarazzare di quei sudditi ributtanti e di tornare alle loro possessioni.
Erano speranze irrealizzabili perché quei selvaggi, pur rispettando il loro nuovo capo, di cui pareva che fossero orgogliosi, si guardavano bene dal lasciarlo fuggire.
Se si recava nelle foreste a cacciare il canguro, alcuni guerrieri lo accompagnavano; se andava a pescare nella palude, mettevano sentinelle nei dintorni.
Barding e sua figlia finirono per rassegnarsi e si dedicarono a civilizzare i loro sudditi i quali d'altronde non si mostravano così selvaggi né così rozzi come i loro compatrioti dell'Australia settentrionale.
Il capitano insegnò loro a costruire delle capanne più comode e più vaste, a fabbricare delle terraglie con dell'argilla, a coltivare il suolo trasformandoli a poco a poco completamente.
Jenny invece aveva insegnato mille altre cose alle donne della tribù, facendosi assai stimare ed amare da quelle misere creature che i loro mariti fino allora avevano trattate come bestie da soma.
Erano così trascorsi due anni dalla morte dello stregone. Il villaggio ormai s'era trasformato e la tribù civilizzata mercé le assidue cure del capitano e di sua figlia.
Un giorno mentre Barding stava seduto presso la sua capanna, all'ombra di un superbo gud-rem, con sua grande meraviglia, udì in lontananza squillare delle trombe che non rassomigliavano a nessun degli istrumenti primitivi usati dagli australiani.
Tutta la tribù allarmata, s'era precipitata fuori dalle capanne, stringendosi attorno al capo.
Poco dopo un drappello di soldati inglesi guidati da un tenente, entrano al galoppo nel villaggio, colle sciabole e le rivoltelle in pugno.
Il capitano Barding s'era alzato in preda ad una viva commozione.
Il tenente vedendolo, gli s'era slanciato contro gridando con voce minacciosa:
– Consegnate i prigionieri bianchi o noi vi stermineremo tutti, bricconi.
– Quali prigionieri? – chiese il capo che piangeva e rideva ad un tempo.
– Il capitano Barding e sua figlia che avete rapiti due anni or sono.
– Il capitano che cercate sono io, tenente.
– Voi!... È impossibile!... Voi siete un selvaggio!...
– No, tenente ed ecco qui mia figlia.
Jenny si era slanciata verso suo padre, abbracciandolo.
– Possibile! – esclamò il tenente. – La signora Jenny Barding! Ma voi capitano, cosa fate sotto quella orribile truccatura?
– Sono il capo della tribù, tenente. Come avete saputo che noi ci trovavamo qui, fra questi selvaggi?
– Eravamo stati informati da alcuni indigeni che venivano dal centro del continente i quali ci avevano assicurato d'aver veduto un uomo bianco capo d'una tribù. Capitano, son lieto d'avervi trovato e lo sarò doppiamente scortandovi nella vostra fattoria.
– Mi lasceranno venire i miei sudditi?
– Se si opporranno daremo a loro battaglia e li macelleremo.
– No, non spargete sangue perché ormai questi uomini mi amano ed io sono il loro capo. Vedrò di combinare ogni cosa.
L'indomani il capitano Barding e Jenny abbandonavano il villaggio scortati da soldati inglesi e seguìti da tutta la popolazione, la quale aveva deciso di seguire il loro capo.
Ora il capitano Barding vive ancora nella sua splendida fattoria in mezzo ai suoi sudditi, i quali hanno abbandonata per sempre la loro vita selvaggia diventando i più valenti coltivatori del circondario del Torrens.