I pirati della Malesia/Capitolo X - La taverna cinese
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Capitolo X
La taverna cinese
— Olà! bell’uomo!
— Milord!
— Al diavolo i milord.
— Sir!...
— All’inferno i sir.
— Monsieur?... Señor!...
— Appiccati. Che pranzo è questo?
— Cinese señor, cinese come la trattoria.
— E tu vuoi farmi mangiar cinese! Cosa sono queste bestioline che si muovono?
— Gamberi del Sarawack ubriacati.
— E tu vuoi ch’io mangi i gamberi vivi? Corpo d’un cannone!
— Cucina cinese, monsieur.
— E questo arrosto?
— Cane giovane, señor.
— Che cosa?
— Cane giovane.
— Corpo d’una spingarda! E tu vuoi che io mangi del cane? E questo?
— È gatto, señor.
— Tuoni e fulmini! Un gatto!
— Un boccone da mandarino, sir.
— E questa frittura?
— Topi fritti nel burro.
— Cane d’un cinese! Tu vuoi farmi crepare!
— Cucina cinese, señor.
— Cucina infernale, vuoi dire. Corpo d’un cannone! Gamberi ubriachi, frittura di topi, cane arrosto e gatto in stufato per pranzo! Se mio fratello fosse qui, riderebbe tanto da scoppiare. Orsù, non bisogna essere schifiltosi. Se i cinesi mangiano questa roba, può mangiarla anche un bianco. Animo, portoghese mio!
Il brav’uomo che così parlava si accomodò sulla sedia di bambù, trasse dalla cintura un magnifico kriss coll’impugnatura d’oro smaltata di magnifici diamanti e fece a pezzi il cane arrosto che mandava un profumo appetitoso.
Fra un boccone e l’altro si mise a osservare il locale nel quale si trovava.
Era una stanzaccia bassa bassa, colle pareti dipinte a draghi mostruosi, a fiori strani, a lune sorridenti, ad animali vomitanti fuoco. Tutto all’intorno v’erano sedili e stuoie sulle quali russavano dei cinesi dal volto giallo, il cranio pelato, la coda lunghissima e i baffi pendenti; qua e là, senza ordine, c’erano tavole di tutte le dimensioni, occupate da brutti malesi, color olivastro, con denti neri, e da bellissimi Dayachi seminudi, colle membra coperte di anelli di ottone e armati di pesanti parangs, coltellacci lunghi mezzo metro. Alcuni di quegli uomini masticavano il siri, composto di foglie di betel e di noci d’areca, lanciando sul pavimento una saliva sanguigna; altri bevevano grandi vasi di arak o di tuwak e altri ancora fumavano lunghe pipe cariche di oppio.
— Hum, — borbottò il nostro uomo, sventrando il gatto. — Che brutte facce! Non so come quel briccone di James Brooke tenga sotto di sé questi birbanti. Deve essere un gran volpone e un...
Un fischio acuto, che veniva dall’esterno della taverna, gli troncò la parola.
— Oh! — esclamò.
Accostò due dita alle labbra e imitò quel fischio.
— Señor! — gridò il taverniere, occupato a scuoiare un cane grosso appena scannato.
— Che il tuo Confucio ti appicchi.
— Ha chiamato, monsieur?
— Silenzio. Scuoia il tuo cane e lasciami in pace.
Un indiano alto, di belle forme, quasi nudo, con un laccio di seta stretto attorno alle reni e un kriss sospeso al fianco destro, entrò, girando attorno i suoi nerissimi e grandi occhi. Il nostro uomo, che stava spolpando una zampa di gatto, scorgendo il nuovo arrivato si alzò, mormorando:
— Kammamuri!
Stava per lasciare il suo posto, quando un rapido cenno dell’indiano, accompagnato da uno sguardo supplichevole, lo arrestò.
— C’è qualche pericolo in aria, — tornò a mormorare. — In guardia, amico.
L’indiano, dopo aver un po’ esitato, si sedette di fronte a lui. Il taverniere accorse.
— Una tazza di tuwak! — chiese poi.
Il cinese volse le spalle e fece portare una tazza e un vaso di tuwak.
— Spiati? — chiese l’altro con un fil di voce a Kammamuri, continuando a divorare.
L’indiano fece col capo un cenno affermativo.
— Che appetito, signore! — esclamò poi a voce alta.
— Non mangio da ventiquattro ore, mio caro, — rispose il nostro uomo che, come il lettore si sarà immaginato, era il bravo Yanez, l’amico inseparabile della Tigre della Malesia.
— Venite da lontano?
— Dall’Europa. Eh! taverniere di casa del diavolo, un po’ di tuwak!
— Vi offro del mio, se non vi spiace, — disse Kammamuri.
— Accettato, giovanotto. Siedi vicino a me e dà un colpo di dente a tutta questa roba che mi sta dinanzi.
Il maharatto non si fece pregare e si sedette accanto al portoghese, mettendosi a mangiare.
— Possiamo parlare, — disse Yanez. — Nessuno può ora sospettare che noi siamo amici. Vi siete salvati tutti?
— Tutti, padrone Yanez, — rispose Kammamuri. — Prima che spuntasse l’alba, un’ora dopo la vostra partenza, lasciammo i fitti boschetti della riva e ci rifugiammo in una vasta palude.
— Il rajah aveva mandato soldati a perlustrare la foce del fiume, ma essi non riuscirono a scoprire le nostre tracce.
— Sai, Kammamuri, che siamo stati bravi a sfuggire al rajah?
— Un mezzo minuto di ritardo e saremmo saltati in aria tutti quanti. Buon per noi che la notte era tanto oscura, che quei birbanti non ci videro nuotare verso la riva.
— La povera Ada ha sofferto nulla?
— Nulla affatto, padron Yanez. Aiutato da Sambigliong, potei trasportarla a terra con tutta facilità.
— Dove si trova ora Sandokan?
— A otto miglia da qui, nel mezzo di un fitto bosco.
— Al sicuro dunque.
— Non lo so. Ho visto delle guardie del rajah aggirarsi nella foresta.
— Diavolo!
— E voi, non correte alcun pericolo?
— Io! Chi sarà quel pazzo che mi prenderà per un pirata? Io, un bianco, un europeo?
— State però in guardia, signor Yanez. Il rajah deve essere un uomo assai furbo.
— Lo so, ma noi siamo più furbi di lui.
— Sapete nulla di Tremal-Naik?
— Nulla, Kammamuri. Ho interrogato parecchie persone, ma senza esito.
— Povero padrone ! — mormorò Kammamuri.
— Lo salveremo, te lo prometto, — disse Yanez. — Questa sera stessa mi metterò all’opera.
— Che cosa volete fare?
— Cercare di avvicinare il rajah e diventare suo amico.
— E come?
— L’idea l’ho e mi pare buona. Provocherò un tafferuglio, farò del baccano, fingerò di voler accoppare qualcuno e mi farò arrestare dalle guardie del rajah.
— E poi?
— Quando mi avranno arrestato inventerò qualche amena storiella e mi spaccerò per un nobile lord, per un baronetto...
— E io che cosa dovrò fare?
— Nulla, mio caro maharatto. Andrai diffilato da Sandokan e gli dirai che tutto cammina di bene in meglio. Domani però verrai a ronzare attorno all’abitazione del rajah. Forse avrò bisogno di te.
Il maharatto si alzò.
— Un momento, — disse Yanez, traendo di tasca una borsa ben gonfia e porgendogliela.
— Che cosa devo fare?
— Per effettuare il mio progetto bisogna che non abbia un soldo in saccoccia. Dammi anzi il tuo kriss, che non ha alcun valore, e prendi il mio che ha troppo oro e troppi diamanti. Ehi! taverniere del demonio, sei bottiglie di vino di Spagna.
— Volete ubriacarvi? — chiese Kammamuri.
— Lascia fare a me e vedrai. Addio, mio caro.
L’indiano gettò sulla tavola uno scellino e uscì, mentre il portoghese stappava le bottiglie che certo costavano assai care.
Bevette due o tre bicchieri e il rimanente lo diede a bere ai malesi che gli erano vicini, ai quali non parve vero di aver trovato un europeo così generoso.
— Ehi, taverniere! — gridò il portoghese, — portami dell’altro vino e qualche piatto di lusso.
Il cinese, tutto contento di fare così grossi affari e pregando in cuor suo il buon Buddha di mandargli ogni dì una dozzina di simili avventori, portò nuove bottiglie e una terrina di delicatissimi nidi di salangana, conditi con aceto e sale, che solo i ricconi possono gustare.
11 portoghese, quantunque avesse mangiato per due, tornò a lavorare di denti, a bere e a regalare vino a tutti i vicini.
Quando finì, il sole era tramontato da una buona mezz’ora e nella taverna erano state accese gigantesche lanterne di talco, le quali spandevano sui bevitori una scialba luce, tanto cara ai coduti figli del Celeste impero.
Accese la sigaretta, esaminò la batteria delle sue pistole e si alzò mormorando:
— Andiamocene, caro Yanez. Il taverniere farà un baccano indiavolato, io ne farò più di lui, accorreranno le guardie del rajah ed io verrò arrestato. Sandokan, ne sono certo, non avrebbe ideato un piano migliore.
Gettò in aria due o tre boccate di fumo e si diresse tranquillamente verso la porta. Stava per varcarla, quando si sentì prendere per la giacca.
— Monsieur! — disse una voce.
Yanez si volse accigliato e si trovò dinanzi il taverniere.
— Che cosa vuoi, mascalzone? — chiese, fingendosi offeso.
— Il conto, señor.
— Quale conto?
— Voi non mi avete pagato. Mi dovete tre sterline, sette scellini e quattro penny.
— Vattene al diavolo. Non ho un soldo in tutte le dieci tasche. Il cinese, da giallo che era, divenne cinereo.
— Ma voi mi pagherete, — gridò aggrappandosi ai panni del portoghese.
— Lascia il mio vestito, canaglia! — urlò Yanez.
— Mi dovete tre sterline, sette scellini e...
— E quattro penny, lo so: ma io non ti pagherò, briccone... Va’ a scuoiare il tuo cane e lasciami in pace.
— Siete un ladro, gentleman? Io vi farò arrestare!
— Prova!
— Aiuto! Arrestate questo ladro! — urlò il cinese furibondo.
Quattro sguatteri si precipitarono in aiuto del loro padrone, armati di casseruole, di pentole e di schiumarole. Era quello che desiderava il portoghese, che ad ogni costo voleva far baccano.
Con mano di ferro abbrancò il taverniere per la gola, l’alzò da terra e lo scagliò fuori dalla porta a rompersi il naso sui ciottoli della via. Indi caricò i quattro sguatteri, dispensando con rapidità meravigliosa tali calci, che i disgraziati, in meno che non si dice, si trovarono l’uno sull’altro accanto al padrone.
Urla indemoniate scoppiarono tosto.
— Al ladro! All’assassino! Accoppalo! Ammazzalo! — urlavano gli sguatteri.