I pirati della Malesia/Capitolo XV - Tremal-Naik

Capitolo XV - Tremal-Naik

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Capitolo XIV - Narcotici e veleni Capitolo XVI - La liberazione di Kammamuri

Capitolo XV
Tremal-Naik


Quantunque fosse assai stanco, il buon portoghese non fu capace di chiudere occhio in tutta la notte. Quel vecchio bianco che guidava un drappello di Dayachi e che somigliava tanto allo zio della defunta moglie della Tigre, visto in vicinanza della città dal malese Sambigliong, l’aveva sempre fisso nella mente e gli riempiva l’animo di forti inquietudini.

Invano cercava di tranquillarsi, ripetendosi che forse il malese erasi ingannato, che il lord doveva essere ancora lontano, forse a Giava, forse in India, forse più lontano ancora, in Inghilterra. Parevagli sempre di udire la voce del vecchio nell’attiguo corridoio; parevagli sempre di udire delle persone avvicinarsi alla sua stanza; parevagli sempre di udire un fragore di armi nel palazzo.

Più volte, non sapendo dominare le sue inquietudini, scese dal letto e aprì prudentemente le finestre e più volte andò ad aprire la porta della stanza, temendo che fossero state appostate delle sentinelle per impedirgli la fuga. Si addormentò verso l’alba, ma fu un sonno agitato, pieno di brutti sogni e che durò un paio di ore al più.

Si destò udendo un gong strepitare per la via.

Si alzò, si vestì, si cacciò nelle saccocce un paio di corte pistole e si diresse verso la porta. In quello stesso istante veniva bussato.

— Chi è? — chiese egli con viva ansietà.

— Il rajah vi aspetta nel suo gabinetto, — disse una voce.

Yanez si sentì un brivido correre per tutte le ossa. Aprì la porta e si trovò dinanzi ad un indiano.

— È solo, il rajah? — chiese, coi denti stretti.

— Solo, milord, — rispose l’indiano.

— Che vuole da me?

— Vi attende per bere il thè.

— Corro da lui, — disse Yanez, dirigendosi verso il gabinetto del principe.

Il rajah era seduto dinanzi al suo tavolino, sul quale c’era un servizio da thè in argento. Vedendo Yanez entrare, si alzò col sorriso sulle labbra, stendendogli la mano.

— Buon giorno, milord! — esclamò. — Siete rientrato tardi ieri sera.

— Perdonate, Altezza, se ho mancato al pranzo; ma la colpa non è mia. — disse Yanez, rassicurato dal sorriso del rajah.

— Che vi è accaduto?

— Mi sono smarrito in mezzo ai boschi.

— Eppure avevate una guida.

— Una guida!

— Mi dissero che avevate un indiano che si spaccia per un provveditore delle miniere di Poma.

— Chi ve lo ha detto, Altezza? — chiese Yanez, facendo uno sforzo straordinario per conservare la sua calma.

— Le mie spie, milord.

— Altezza, ai vostri servigi avete della brava gente.

— Lo credo, — disse il rajah, sorridendo. — L’avete incontrato dunque, quell’uomo?

— Sì, Altezza.

— Fino dove vi ha accompagnato?

— Fino ad un piccolo villaggio di Dayachi.

— Indovinate chi era quell’uomo.

— Chi era? — chiese Yanez, pronunciando con fatica quelle due parole.

— Un pirata, — disse il rajah.

— Un pirata!... È impossibile. Altezza.

— Ve lo assicuro.

— E non mi ha ammazzato?

— I pirati di Mompracem, milord, qualche volta sono generosi, come il loro capo.

— È generosa la Tigre della Malesia?

— Così si dice. Mi si racconta che parecchie volte regalò grossi diamanti a poveri diavoli.

— È un pirata molto strano, dunque!

— È coraggioso e generoso insieme.

— Ma siete certo, Altezza, che quell’indiano facesse parte della banda di Mompracem?

— Sicurissimo, perché le mie spie lo videro parlare con dei pirati della Tigre della Malesia. Ma non parlerà più con loro, ve lo giuro. A quest’ora deve essere in mano dei miei.

In quell’istante, giù nella strada, si udirono delle grida acute e un colpo forte di gong.

Yanez, pallido, agitatissimo, si precipitò verso la finestra per vedere ciò che accadeva, ma più di tutto per nascondere la propria commozione.

— Per Giove! — esclamò con voce strozzata, diventando maggiormente pallido. — Kammamuri!

— Che cosa succede? — chiese il rajah.

— Conducono qui il mio indiano, Altezza, — rispose con voce abbastanza calma.

— Non mi ero ingannato, io.

Si curvò sul davanzale e guardò.

Quattro guardie, armate fino ai denti, conducevano verso il palazzo l’indiano Kammamuri, al quale erano state legate strettamente le braccia con solide fibre di rotang. Il prigioniero non opponeva alcuna resistenza, né sembrava atterrito. Procedeva con passo calmo e guardava tranquillamente la folla di dayachi, cinesi e malesi che lo seguiva schiamazzando.

— Povero uomo! — esclamò Yanez.

— Lo compiangete, milord? — chiese il rajah.

— Un po’, lo confesso.

— Eppure quell’indiano è un pirata.

— Lo so, ma con me fu assai gentile. Che ne farete, Altezza?

— Cercherò di farlo parlare, innanzi tutto. Se riesco a sapere ove celasi la tigre della Malesia...

— L’assalirete?

— Radunerò le mie guardie e l’assalirò.

— E se il prigioniero si ostina a non parlare?

— Lo farò appiccare, — disse freddamente il rajah.

— Povero diavolo!

— Tutti i pirati hanno uguale trattamento, milord.

— Quando lo interrogherete?

— Quest’oggi non ho tempo, dovendo ricevere un ambasciatore olandese, ma domani sarò libero e lo farò parlare.

Un lampo balenò negli occhi del portoghese.

— Altezza, — disse, dopo un po’ d’esitazione. — Potrò io assistere all’interrogatorio?

— Se lo desiderate.

— Grazie, Altezza.

Il rajah scosse un campanello d’argento che stava sul tavolo. Un cinese vestito di seta gialla, con una coda lunga un buon metro, entrò portando una teiera di porcellana di ‘’Ming’’, piena di thè fumante.

— Il thè non vi spiacerà, spero, — disse il rajah.

— Non sarei inglese, — rispose Yanez, sorridendo.

Vuotarono parecchie tazze della deliziosa bevanda, indi si alzarono.

— Ove vi recate oggi, milord? — chiese il rajah.

— A visitare i dintorni della città, — rispose Yanez. — Ho scorto un fortino e con vostro permesso, lo visiterò.

— Troverete dei compatrioti, milord.

— Dei compatrioti! — esclamò Yanez, fingendo di tutto ignorare.

— Raccolti da me alcune settimane fa, mentre stavano per annegare.

— Dei naufraghi dunque?

— L’avete detto.

— E che cosa fanno in quel forte?

— Attendono l’arrivo di una nave per imbarcarsi e nel medesimo tempo mi guardano un Thug indiano che rinchiusi là dentro.

— Che? un Thug? un Thug indiano! — esclamò Yanez. — Oh! vorrei vedere uno di quei terribili strangolatori.

— Lo desiderate?

— Ardentemente.

Il rajah prese un foglio di carta, vi scrisse sopra alcune righe, lo piegò e lo consegnò al portoghese che lo prese con vivacità.

— Consegnatelo al luogotenente Churchill, — disse il rajah. — Egli vi mostrerà il Thug e se desiderate vi farà visitare l’intero fortino che però non ha nulla di bello.

— Grazie, Altezza.

— Pranzerete con me questa sera?

— Ve lo prometto.

— Arrivederci, milord.

Yanez, che non vedeva l’istante di uscire da quel gabinetto, si diresse verso la propria stanza.

— Ragioniamo, Yanez mio, — mormorò, quando si trovò solo. — Si tratta di fare un gran colpo senza essere scoperto.

Rimase lì, immobile, cogli occhi fissi sul fortino, dieci o dodici minuti, corrugando di quando in quando la fronte.

— Ci siamo! — esclamò d’un tratto. — Mio caro Brooke, il buon Yanez ti prepara un giuochetto che, se ho tutto ben calcolato, sarà bellissimo. Per Giove! Sandokan sarà contento del fratello bianco.

S’avvicinò al tavolo, prese una penna e sopra un pezzettino di carta, scrisse:

«Mi manda il tuo fedel servo Kammamuri, per salvarti. Tremal-Naik, se vuoi essere libero e rivedere la tua Ada, ingoia verso la mezzanotte le pillole che qui trovi, né prima, né dopo, se puoi.

Yanez - amico di Kammamuri».

Vi mise dentro due piccole pillole verdastre e fece una pallottolina che nascose in un taschino della sua giacca.

— Domani gl’inglesi lo crederanno morto e domani sera lo seppelliranno, — mormorò, stropicciandosi allegramente le mani, — e ad avvertire il mio caro fratello manderemo Kammamuri. Ah! mio caro James Brooke, non sai ancora di che cosa sono capaci i tigrotti di Mompracem.

Si cacciò in testa un cappellaccio di paglia fatto a guisa di fungo, si passò nella cintura il fedele kriss, e lasciò la stanza scendendo lentamente le scale.

Passando per un corridoio, vide dinanzi ad una porta un indiano armato di carabina, con baionetta in canna.

— Che cosa fai lì? — chiese il portoghese.

— Sono di guardia, — rispose la sentinella.

— A chi fai la guardia?

— Al pirata arrestato stamane.

— Bada che non ti sfugga, amico. È un uomo pericoloso.

— Terrò gli occhi sempre aperti, milord.

— Bravo ragazzo.

Lo salutò colla mano, scese la scala ed uscì in istrada con un sorriso ironico sulle labbra. Il suo sguardo subito si fissò sulla collina che gli stava di fronte, in cima alla quale, fra il verde cupo, spiccava la massa biancastra del fortino.

— Animo, Yanez, — mormorò. — C’è molto da fare.

Attraversò con passo tranquillo la città, invasa da una fitta folla di superbi dayachi, di orridi malesi e di coduti cinesi che schiamazzavano su tutti i toni, vendendo frutta, armi, vesti d’ogni sorta e giuocattoli di Canton, e prese un sentieruzzo ombreggiato da altissimi ‘‘durion’’ e da areche, che menava al fortino.

A mezza costa s’imbattè in due marinai inglesi che scendevano alla città, forse per ricevere qualche ordine dal rajah, e forse per informarsi se qualche nave aveva gettato l’ancora alle foci del fiume.

— Olà, amici — disse Yanez, salutandoli. — È lassù il comandante Churchill?

— L’abbiamo lasciato che fumava alla porta del fortino, — rispose uno dei due.

— Grazie, amici.

Si rimise in cammino e dopo un lungo giro sboccò in un largo piazzale, in mezzo al quale elevavasi il fortino. Sulla porta, appoggiato ad un fucile, stava un marinaio, occupato a masticare un pezzo di tabacco, e a pochi passi, sdraiato in mezzo alle erbe, fumava un luogotenente di marina, di statura alta, con lunghi baffi rossi. Yanez si arrestò.

— Toh! un bianco! — esclamò il luogotenente, scorgendolo.

— E che cerca di voi, — disse il portoghese.

— Di me?

— Sì.

— E che cosa desiderate?

— Ho una lettera pel luogotenente Churchill.

— Sono io, signore, il luogotenente Churchill, — disse l’ufficiale, alzandosi e muovendogli incontro.

Yanez estrasse la lettera del rajah e la porse all’inglese, il quale l’aprì e la lesse attentamente.

— Sono ai vostri ordini, milord, — disse, quand’ebbe letto.

— Mi farete vedere il Thug?

— Se lo vorrete.

— Accompagnatemi da lui, dunque. Ho sempre desiderato di vedere uno di quei terribili strangolatori.

Il luogotenente si mise in tasca la pipa ed entrò nel fortino, seguito da Yanez. Attraversarono un piccolo cortile, in mezzo al quale arrugginivano quattro vecchi cannoni di ferro, ed entrarono nel fabbricato costruito con robustissimo legno di tek, capace di resistere ad una palla di sei o anche di otto libbre.

— Ci siamo, milord, — disse Churchill, fermandosi dinanzi ad una solida porta sprangata. — Il Thug è qui dentro.

— È tranquillo o feroce?

— È mansueto come una tigre addomesticata, — rispose l’inglese, sorridendo.

— Non occorre quindi entrare armati.

— Non ha mai fatto male ad alcuno di noi, però non entrerei senza le mie pistole.

Levò le due spranghe ed aprì con precauzione la porta, sporgendo la testa.

— Il Thug sonnecchia, — disse. — Entriamo, milord.

Yanez provò un brivido, non già perché avesse paura dello strangolatore, ma per tema che questi lo perdesse. Infatti l’indiano poteva respingere il bigliettino e le pillole e svelare così ogni cosa al luogotenente Churchill.

— Coraggio e sangue freddo, — mormorò, — non è il momento di dare indietro.

Varcò la soglia ed entrò. Si trovò in una cella piuttosto piccola colle pareti di legno di tek, rischiarata da un finestrino a solidissime inferriate.

In un angolo, steso su un letto di foglie secche, e avvolto in un corto mantello di tela, stava il Thug Tremal-Naik, il padrone dell’indiano Kammamuri, il fidanzato dell’infelice Ada.

Era un superbo indiano, alto cinque piedi e sei pollici, color del bronzo. Largo e robusto aveva il petto, muscolose le braccia e le gambe, fieri i lineamenti del volto e regolarissimi. Yanez, che aveva visto cinesi, malesi, giavanesi, africani, indiani, bughisi, macassaresi e tagali, non si ricordava di aver incontrato un uomo di colore, così bello e così vigoroso. Non c’era che Sandokan che potesse superarlo.

Quell’uomo dormiva, ma il suo sonno non era tranquillo. Il petto gli si sollevava affannosamente, la sua ampia e bella fronte si corrugava, le labbra di un rosso vivo, ardente, fremevano e le sue mani, piccole come quelle di una donna, si aprivano e si chiudevano, come se volesse stringere qualche cosa e stritolarla.

— Bell’uomo! — esclamò Yanez.

— Zitto, parla, — mormorò il luogotenente.

Un rauco accento era uscito dalle labbra dell’indiano, ma un accento che aveva dello strazio.

— Mia! — aveva esclamato.

La sua faccia, d’un tratto, divenne burrascosa. Una vena che solcavagli la fronte s’ingrossò tutta d’un colpo.

— Suyodhana, — mormorò con accento d’odio l’indiano.

— Tremal-Naik! — disse il luogotenente.

A quel nome l’indiano si scosse, si alzò collo scatto di una tigre e fissò sul luogotenente uno sguardo che scintillava come quello di un serpente.

— Che cosa vuoi? — chiese.

— Un signore vuol vederti.

L’indiano guardò Yanez che stava qualche passo indietro a Churchill. Un sorriso sdegnoso sfiorò le sue labbra, mettendo a nudo i denti bianchi come l’avorio.

— Sono una belva io forse? — chiese. — Che...

Si arrestò e trasalì. Yanez, che come si disse stava dietro al luogotenente, gli aveva fatto un rapido cenno. Senza dubbio egli aveva compreso che gli stava dinanzi un amico.

— Come ti trovi qui dentro? — chiese il portoghese.

— Come può trovarsi un uomo che nacque e visse libero nella jungla, — disse Tremal-Naik, con voce triste.

— È vero che tu sei un Thug?

— No.

— Eppure hai strangolato delle persone.

— È vero, ma non sono un Thug.

— Tu menti.

Tremal-Naik si alzò digrignando i denti e cogli occhi fiammeggianti; ma un nuovo gesto del portoghese lo calmò.

— Se tu mi lasciassi alzare il mantellino, ti mostrerei il tatuaggio che distingue i Thug.

— Alzalo, — disse Tremal-Naik.

— Non accostatevi, milord! — esclamò il luogotenente.

— Non ho arma alcuna, — disse l’indiano.

Yanez s’avvicinò al letto di foglie e si curvò sull’indiano.

— Kammamuri, — mormorò con voce appena distinta.

Un rapido lampo brillò negli occhi dell’indiano. Con un gesto alzò il mantellino e raccolse il bigliettino con le pillole che il portoghese aveva lasciato cadere.

— L’avete visto il tatuaggio? — chiese il luogotenente che aveva, per ogni precauzione, armato una pistola.

— Non lo ha, — rispose Yanez, raddrizzandosi.

— Non è un Thug dunque?

— Chi può dirlo? I Thug hanno dei tatuaggi in più parti del corpo.

— Non ne ho, — disse Tremal-Naik.

— Da quanto tempo trovasi qui, luogotenente? — chiese Yanez.

— Da due mesi, milord.

— Dove lo si condurrà?

— In qualche penitenziario dell’Australia.

— Povero diavolo! Usciamo, luogotenente.

Il marinaio aprì la porta. Yanez approfittò per volgersi indietro e fare a Tremal-Naik un ultimo gesto che significava «obbedire».

— Volete visitare il fortino? — chiese il luogotenente quand’ebbe chiuso e sprangato la porta.

— Mi pare che nulla abbia di attraente, — rispose Yanez. — Arrivederci dal rajah, signore.

— Arrivederci, milord.