I pirati della Malesia/Capitolo XVII - Yanez in trappola
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Capitolo XVII
Yanez in trappola
Quando Yanez, verso le 10 di sera rientrò in Sarawack, rimase sorpreso dallo straordinario movimento che regnava in tutti i quartieri. Per le vie e per le viuzze passavano e ripassavano correndo, a due, a quattro, a otto, a drappelli, cinesi in abito da festa, dayachi, malesi, macassaresi, bughisi, giavanesi e tagali, gridando, ridendo, urtandosi gli uni cogli altri e dirigendosi tutti verso il piazzale ove sorgeva l’abitazione del rajah. Senza dubbio avevano avuto sentore della festa che dava il loro principe e vi accorrevano in massa, certissimi di divertirsi non poco e di fare delle buone bevute anche rimanendo sulla piazza.
— Buono, — mormorò il portoghese, stropicciandosi allegramente le mani. — Sandokan potrà passare presso la città senz’essere visto da alcun abitante. Mio caro principe, ci aiuti molto bene. Te ne sarò grato.
Facendosi largo coi gomiti e non di rado coi pugni, dopo cinque buoni minuti giungeva nella piazza. Innumerevoli torce resinose ardevano qua e là illuminando fantasticamente le case, gli alti e bellissimi alberi e la palazzina del rajah che era circondata da una doppia fila di guardie ben armate.
Una folla considerevole, parte allegra e parte ubriaca, si accalcava in quello spazio, emettendo urla indiavolate, mescolandosi e rimescolandosi. I buoni cittadini di Sarawack, udendo l’orchestra che suonava nelle stanze della palazzina, danzavano furiosamente schiacciandosi contro le case e contro gli alberi e urtando e rompendo le file delle guardie, le quali erano talvolta costrette a mettere le armi in resta.
— Giungiamo un po’ in ritardo, — disse Yanez, ridendo. — Il principe sarà inquieto per la mia prolungata assenza.
Si fece riconoscere dalle guardie, salì le scale, ed entrò nella sua stanza per fare un po’ di toletta e per deporre le armi.
— Si divertono? — chiese all’indiano che il rajah aveva messo a sua disposizione.
— Molto, milord, — rispose l’interrogato.
— Chi sono gl’invitati?
— Europei, malesi, dayachi e cinesi.
— Un miscuglio, dunque. Non ci sarà bisogno d’indossare il vestito nero, che del resto non ho.
Si spazzolò le vesti, depose le armi cacciandosi però una corta pistola in una saccoccia e si diresse verso la sala di ballo, sulla cui soglia si arrestò colla viva sorpresa dipinta sul viso.
La sala non era vasta, ma il rajah l’aveva fatta addobbare con un certo gusto.
Numerose lampade di bronzo, di provenienza europea, pendevano dal soffitto spargendo una viva luce; grandi specchiere di Venezia ornavano le pareti, stuoie dayache dipinte a vivi colori coprivano il suolo e sui tavolini facevano bella mostra grandi vasi di porcellana di Cina contenenti peonie di un rosso vivissimo e grandi magnolie che profumavano, fors’anche troppo, l’aria.
Gli invitati non erano più di cinquanta: ma quanti costumi e quanti tipi diversi! Vi erano quattro europei tutti vestiti di tela bianca, una quindicina di cinesi vestiti di seta e colle teste così pelate e così lucenti che sembravano zucche, dieci o dodici malesi dalla tinta verde oscura, insaccati in lunghe zimarre indiane; cinque o sei capi dayachi colle loro donne, più nudi che vestiti, ma adorni di centinaia di braccialetti, di collane, di denti di tigre. Gli altri erano maccassaresi, bughisi, tagali, giavanesi che si dimenavano come ossessi e che vociavano come fossero furibondi, ogni qual volta l’orchestra cinese composta da quattro suonatori di piene-kia (istrumento di sedici pietre nere) e da una ventina di flautisti, intonava una marcia impossibile a danzarsi.
Entrò nella sala e si diresse verso il rajah, l’unico che indossava l’abito nero, e che stava chiacchierando con un grosso cinese, senza dubbio uno dei principali negozianti della città.
— Si divertono qui, — disse.
— Ah! — esclamò il ‘‘rajah’’ volgendosi verso di lui. — Siete qui, milord? Vi aspetto da un paio d’ore.
— Ho fatto una passeggiata fino al fortino e nel ritorno smarrii la strada.
— Avete assistito al funerale del prigioniero?
— No, Altezza. Le cerimonie lugubri non mi vanno troppo a sangue.
— Vi piace questa festa?
— C’è un po’ di confusione, mi pare.
— Mio caro, siamo a Sarawack. I cinesi, i malesi e i dayachi non sanno far di meglio. Prendete qualche dayaca e fate un giro.
— Con questa musica è impossibile, Altezza.
— Ne convengo, — disse il rajah, ridendo.
In quell’istante verso la porta echeggiò un grido che coprì il baccano che regnava nella sala.
II rajah si volse bruscamente e, come lui, si volse pure Yanez. Ebbero appena il tempo di vedere un individuo vestito di bianco, con lunga barba grigiastra, il quale prontamente si trasse indietro.
— Che cosa accade? — chiese il rajah.
Alcune persone si diressero verso la porta, ma ritornarono quasi subito.
— Aspettatemi qui, milord, — disse il rajah.
Yanez non rispose, né si mosse. Quel grido, che forse non udiva per la prima volta, gli era sceso fino in fondo all’anima. Un leggero pallore coprì subito il suo viso, ed i suoi lineamenti, ordinariamente così calmi, per alcuni istanti si alterarono.
— Qual grido! — mormorò finalmente. — Dove l’ho udito io!... Scoppierebbe una catastrofe ora che abbiamo tratto la nave in porto?
Cacciò una mano nella saccoccia dei calzoni, e silenziosamente armò la pistola, risoluto a servirsene se fosse stato necessario.
In quel momento rientrò il rajah. Yanez vide subito che una ruga solcava la fronte di lui. Trasalì e divenne inquieto.
— È successo qualcosa? Qualcuno ha gridato! — domandò Yanez.
— Nulla, milord, — rispose il rajah con pacatezza.
— Ma quel grido?... — insistè Yanez.
— Lo emise un mio amico.
— Per qual motivo?
— Perché fu colto da improvviso malore.
— Eppure?...
— Volete dire?
— Quel grido non era di dolore.
— Vi siete ingannato, milord. Orsù, prendete qualche dayaca e, se è possibile, danzate una polka.
Il rajah passò oltre mettendosi a discorrere con uno degli invitati. Yanez invece rimase lì, seguendolo con uno sguardo inquieto.
— C’è sotto qualche cosa, — mormorò. — Sta’ in guardia, Yanez.
Finse di allontanarsi e andò invece a sedersi dietro ad un gruppo di malesi. Di là vide il rajah volgersi indietro e guardare all’intorno come se cercasse qualcuno. Yanez tornò a trasalire.
— Cerca me, — disse. — Ebbene, mio caro Brooke, ti giuocherò un bel tiro prima che tu possa giuocarlo a me.
S’alzò affettando la massima calma, girò due o tre volte attorno alla sala, poi si fermò a due passi dalla porta. Lì c’era un servo del rajah. Gli fece cenno di avvicinarsi.
— Chi ha gettato poco fa quel grido? — gli chiese.
— Un amico del rajah, — rispose l’indiano.
— Il suo nome?
— Lo ignoro, milord.
— Dove trovasi ora?
— Nel gabinetto del rajah.
— È ammalato?
— Non lo so.
— Posso recarmi a visitarlo?
— No, milord. Due sentinelle vegliano dinanzi alla porta del gabinetto coll’ordine di non lasciar passare alcuna persona.
— E non conosci quell’uomo?
— Di nome no.
— È un inglese?
— Sì.
— Da quanto tempo è a Sarawack?
— Arrivò subito dopo il combattimento avvenuto alla foce del fiume, — disse poi.
— Contro la Tigre della Malesia?
— Sì.
— È un nemico della Tigre?
— Sì, perché lo cercò pei boschi.
— Grazie, amico, — disse Yanez mettendogli in mano una rupia. E si diresse in fretta alla sua camera.
Appena entrato, chiuse per bene la porta, staccò dalla parete un paio di pistole e un kriss dalla punta avvelenata, indi aprì la finestra curvandosi sul davanzale.
Una doppia fila di indiani, armati di fucili, circondava l’abitazione. Al di là, un duecento o trecento persone danzavano emettendo grida selvagge.
— La fuga per di qui è impossibile, — disse Yanez. — Eppure bisogna che io lasci questo palazzo più presto che sia possibile. Sento che un gran pericolo mi sta vicino e che... — Si arrestò improvvisamente, colpito da un sospetto balenatogli in mente.
— Quel grido... — mormorò, tornando ad impallidire. — Sì, deve averlo emesso lui... sì, lord Guillonk, il nostro nemico... Sì, mi ricordo che Sambigliong disse di averlo veduto alla testa di un branco di dayachi, là nella foresta ove celasi Sandokan... È lui, sì, è lui!...
Si precipitò verso il tavolo e impugnò le pistole, dicendo:
— Yanez non ucciderà lo zio di Marianna Guillonk, ma difenderà la propria vita.
Si avvicinò alla porta e tirò il catenaccio, ma non fu capace di aprirla. Vi appoggiò contro una spalla e fece forza ma senza miglior esito. Una sorda esclamazione gli irruppe dalle labbra.
— M’hanno chiuso dentro, — disse. — Ormai sono perduto. Cercò un’altra uscita, ma non vi erano che le due finestre e sotto di esse stavano le guardie del rajah e più oltre la folla.
— Maledetta sia questa festa! — esclamò con rabbia.
In quell’istante udì battere alla porta. Alzò le pistole, gridando: «Chi è?
— James Brooke, — rispose il rajah dal di fuori.
— Solo o accompagnato?
— Solo, milord.
— Entrate, Altezza, — disse Yanez con accento ironico. Si mise le pistole alla cintura, incrociò le braccia sul petto ed a testa alta, collo sguardo calmo, attese la comparsa del formidabile avversario.