I pirati della Malesia/Capitolo II - I pirati della Malesia
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Capitolo II
I pirati della Malesia
Pel disgraziato tre-alberi era suonata l’ultima ora.
Incastrato fra due rocce, che sporgevano appena appena le loro punte nere, dentellate in mille guise dall’eterno movimento delle acque, colle coste rotte e la chiglia frantumata, non era più che un rottame impossibile a ripararsi, che presto o tardi il mare avrebbe indubbiamente triturato e disperso.
Lo spettacolo era grandioso e insieme spaventevole.
All’intorno il mare spumeggiava furiosamente con mille boati, frangendosi sulle scogliere, seco trascinando frammenti di murate, di madieri, di corbelli e di imbarcazioni, che si urtavano con mille scricchiolii.
Sul tre-alberi, i superstiti, quasi tutti pazzi di terrore, correvano da prua a poppa mandando mille urla, mille bestemmie, mille invocazioni. Uno s’arrampicava sulle griselle, un altro si spingeva fino alle coffe, un terzo più su, fino alle crocette. Chi invece saltellava come se fosse sui carboni ardenti, chiamando Dio e la Madonna, chi s’affannava a passarsi intorno al corpo un salva-gente, e chi preparava un galleggiante per montarvici su appena la nave si sfasciasse.
Il capitano Mac Clintock e mastro Bill, che ne avevano viste di peggio, erano i soli che conservassero un po’ di calma.
Visto che il tre-alberi rimaneva immobile, come se fosse stato inchiodato sulle scogliere, si affrettarono a scendere nella stiva. Videro subito che non v’era più speranza di rimetterlo a galla, essendo esso già zeppo d’acqua.
— Orsù, — disse mastro Bill, con voce commossa, — la poveretta ha esalato l’ultimo respiro!
— Hai ragione, Bill, — rispose il capitano ancor più commosso. — Questa è la tomba della valorosa Young-India.
— Che cosa faremo?
— Bisogna aspettare l’alba.
— Resisterà ai colpi di mare?
— Lo spero. Le scogliere sono penetrate nel suo ventre come un cuneo nel tronco di un albero. Mi sembra irremovibile.
— Andiamo a incoraggiare quelli che sono sul ponte. Sono mezzo morti di paura.
I due lupi di mare risalirono sul ponte. I marinai ed i passeggeri, coi visi sconvolti dal terrore, si precipitarono loro incontro, interrogandoli con viva ansietà.
— Siamo perduti? — chiedevano gli uni.
— Andiamo a picco? — chiedevano gli altri.
— C’è speranza di salvarsi?
— Dove siamo noi?
— Calma, ragazzi, — disse il capitano. — Non corriamo per ora pericolo alcuno. L’indiano Kammamuri, che aveva mostrato di aver tanta fretta d’arrivare a Sarawack, si avvicinò al comandante.
— Capitano, — chiese egli, con voce tranquilla, — andremo a Sarawack?
— Vedi bene che non è possibile, Kammamuri.
— Ma io devo andarci.
— Non so cosa dirti. Il vascello è immobile come uno scoglio.
— Ho il padrone laggiù, capitano.
— Aspetterà.
Lo sguardo vivo e scintillante dell’indiano s’annebbiò e la sua faccia, che aveva un non so che di feroce, divenne cupa.
— Kalì li protegge, — mormorò.
— Tutto non è ancora perduto, Kammamuri, — disse il capitano.
— Non affonderemo, dunque?
— Ho detto di no. Orsù, calma, ragazzi! Domani sapremo su quale isola o scogliera abbiamo naufragato e vedremo che cosa si potrà fare.
Le parole del capitano fecero buon effetto sugli animi dei marinai, i quali cominciarono a sperare di potersi salvare. Coloro che lavoravano alle zattere abbandonarono il lavoro; quelli inerpicati sugli alberi, dopo un po’ d’esitazione, si lasciarono scivolare giù. La calma non tardò a regnare sul ponte del vascello naufragato.
Tuttavia il mare continuava a mantenersi assai agitato. Gigantesche ondate correvano in tutte le direzioni, investendo con furia estrema le scogliere e sfasciandovisi sopra con spaventevole fracasso. Il vascello, scosso, sbattuto a prua ed a poppa, gemeva come un moribondo, lasciandosi portar via pezzi di murate e frammenti della chiglia frantumata. In certi momenti, anzi, oscillava da prua a poppa così fortemente, da temere che venisse strappato dal banco madreporico e travolto in mezzo ai marosi. Per fortuna stette saldo, ed i marinai, malgrado l’imminente pericolo e le ondate che si slanciavano in coperta, poterono gustare anche qualche ora di sonno.
Alle quattro del mattino, ad oriente cominciò a fare un po’ di chiaro. Il sole sorgeva con quella rapidità che è propria delle regioni tropicali, annunciato da una tinta rossa, magnifica. Il capitano, ritto sulla coffa dell’albero di maestra, con accanto mastro Bill, teneva gli occhi fissi al nord, dove sorgeva, a meno di due miglia, una massa oscura che doveva essere una terra.
— Ebbene, capitano, — chiese il mastro, che masticava rabbiosamente un pezzo di tabacco, — la conoscete quella terra?
— Credo di sì. Fa oscuro ancora, ma le scogliere che la cingono da tutte le parti mi fanno sospettare che quell’isola sia Mompracem.
— By god! — mormorò l’americano, facendo una brutta smorfia. — Ci siamo rotte le gambe in un brutto luogo.
— Lo temo purtroppo, Bill. L’isola non gode buon nome.
— Dite che è un nido di pirati. È tornata la Tigre della Malesia, capitano.
— Che! — esclamò Mac Clintock, che si sentì correre per le ossa un brivido. — La Tigre della Malesia tornata a Mompracem?
— Sì.
— È impossibile, Bill! Sono parecchi anni che quel terribile uomo è scomparso.
— Ma vi dico che è tornato. Quattro mesi or sono egli assalì l'Arghilah di Calcutta, il quale non gli sfuggì che con grande fatica. Un marinaio che aveva conosciuto il sanguinario pirata mi narrò d’averlo scorto a prua di un praho.
— Allora siamo perduti. Non tarderà ad assalirci.
— By god! — urlò il mastro, diventando di colpo pallidissimo.
— Che cos’hai?
— Guardate, capitano! Guardate laggiù!...
— Dei prahos, dei prahos! — gridò una voce dal ponte.
Il capitano, non meno pallido del mastro, guardò verso l’isola e scorse quattro legni che doppiavano un capo lontano appena tre miglia.
Erano quattro grandi prahos malesi, bassi di scafo, leggerissimi, snelli, con vele di forme allungate, sostenute da alberi triangolari.
Questi legni, che filano con una sorprendente rapidità e che, grazie al bilancere che hanno sottovento ed al largo sostegno che portano sopravento, sfidano i più tremendi uragani, sono generalmente usati dai pirati malesi, i quali non temono di assalire con essi i più grossi vascelli che s’avventurano nei mari della Malesia
Il capitano non lo ignorava, sicché appena li ebbe scorti s’affrettò a discendere sul ponte. In poche parole informò l’equipaggio del pericolo che li minacciava. Solo un’accanita resistenza poteva salvarli.
L’armeria di bordo, per disgrazia, non era troppo bene fornita. I cannoni mancavano totalmente, i fucili erano appena sufficienti per armare l’equipaggio e in gran parte assai malandati. V’erano però delle sciabole d’arrembaggio arrugginite sì, ma ancora buone, qualche pistolone, qualche rivoltella e buon numero di scuri.
I marinai ed i passeggeri, armatisi alla meglio, si precipitarono verso poppa, la quale, trovandosi immersa, poteva offrire una buona scalata. La bandiera degli Stati Uniti salì maestosamente sul picco della randa e mastro Bill la inchiodò.
I quattro prahos malesi, che filavano come uccelli, non erano più che a sette od ottocento passi e si preparavano ad assalire vigorosamente il povero tre-alberi.
Il sole che si alzava allora sull’orizzonte, permetteva di vedere chiaramente coloro che li montavano.
Erano ottanta o novanta uomini, seminudi, armati di stupende carabine incrostate di madreperla e di laminette di argento, di grandi parangs di acciaio finissimo, di scimitarre, di kriss serpeggianti, colla punta senza dubbio avvelenata nel succo d’upas, e di clave smisurate, dette kampiland, che essi maneggiavano come fossero semplici bastoncini.
Alcuni erano malesi dalla tinta olivastra, membruti e di lineamenti feroci; altri erano bellissimi dayaki di statura alta, colle braccia e le gambe coperte di anelli di rame. C’erano pure alcuni cinesi, riconoscibili pei loro crani pelati e lucenti come avorio, alcuni bughisi, macassaresi e giavanesi. Tutti quegli uomini tenevano gli occhi fissi sul vascello e agitavano furiosamente le armi, emettendo urla feroci che tacevano fremere. Pareva che volessero spaventare i naufraghi, prima di venire alle mani.
A quattrocento passi di distanza un colpo di cannone rimbombò sul primo praho. La palla, di calibro considerevole, andò a fracassare l’albero di bompresso, il quale si piegò, tuffando la punta in mare.
— Animo, ragazzi! — gridò il capitano Mac Clintock. — Se il cannone parla, è segno che la danza è cominciata. Fuoco di bordata!
Alcuni colpi di fucile seguirono il comando. Urla spaventevoli scoppiarono a bordo dei prahos, segno che non tutto il piombo era andato perduto.
— Così va bene, ragazzi! — urlò mastro Bill.
— Quei brutti musi non avranno il coraggio di spingersi fino a noi. Ohe! fuoco!
La sua voce fu coperta da una serie di formidabili detonazioni che venivano dal largo. Erano i pirati che cominciavano l’attacco.
I quattro prahos parevano crateri infiammati, eruttanti tremende grandinate di ferro. Tiravano i cannoni, tiravano le spingarde, tiravano le carabine, tutto schiantando, atterrando, distruggendo, con una precisione matematica
In meno che non si dica quattro naufraghi giacevano sulla tolda senza vita. L’albero di trinchetto, schiantato sotto la coffa, precipitò sul ponte ingombrandolo di pennoni, di vele, di cavi. Alle urla di trionfo erano succedute urla di spavento, di dolore, gemiti e rantoli d’agonia.
Era impossibile resistere a quell’uragano di ferro che arrivava con rapidità spaventevole, facendo saltare alberi, murate, madieri.
I naufraghi, vistisi perduti, dopo aver scaricato sette od otto volte i loro moschettoni, abbandonarono il posto fuggendo a tribordo, riparandosi dietro ai rottami dell’attrezzatura e delle imbarcazioni. Alcuni di loro perdevano sangue e gettavano grida strazianti.
I pirati, protetti dai loro cannoni, in capo a un quarto d’ora giunsero sotto la poppa del vascello, tentando issarsi a bordo.
Il capitano Mac Clintock si gettò da quella parte per ribattere l’abbordaggio, ma una scarica di mitraglia lo freddò insieme con tre uomini.
Un urlo terribile echeggiò per l’aria: — Viva la Tigre della Malesia!
I pirati gettano le carabine, impugnano le scimitarre, le scuri, le mazze, i kriss e danno intrepidamente l’abbordaggio aggrappandosi alle murate, ai paterazzi e alle griselle. Alcuni si slanciano sulla cima degli alberi dei prahos, corrono come scimmie lungo i pennoni e piombano sull’attrezzatura del tre-alberi, lasciandosi scivolare in coperta. In meno che non si dica i pochi difensori, sopraffatti dal numero, cadono a prua, a poppa, sul cassero e sul castello.
Presso l’albero di maestra un solo uomo, armato di una pesante e larga sciabola d’abbordaggio, rimaneva ancora.
Quest’uomo, l’ultimo della Young-India, era l’indiano Kammamuri, il quale si difendeva come un leone, smussando le armi del nemico incalzante, e percuotendo a destra ed a sinistra.
— Aiuto! aiuto!... — urlò il poveretto con voce strozzala.
— Ferma! — tuonò d’improvviso una voce. — Quell’indiano è un prode!