I pescatori di balene/XXVIII. Fra i Tanana e i lupi

XXVIII. Fra i Tanana e i lupi

../XXVII. Sul Makenzie ../Conclusione IncludiIntestazione 18 maggio 2017 75% Da definire

XXVII. Sul Makenzie Conclusione

XXVIII


FRA I TANANA E I LUPI


La nebbia a poco a poco si alzava.

Il sole, che appena sceso sotto l'orizzonte subito riappariva, cominciava già a lanciare fasci di luce attraverso le masse di vapore, facendo scintillare vivamente i ghiacci che il fiume trascinava nel suo corso. Ancora pochi minuti e la riva sulla quale dovevano trovarsi i Co-yuconi sarebbe stata interamente visibile.

Le voci si continuavano a udire. Pareva che gli indiani si divertissero, poichè gli scrosci di risa non cessavano, anzi diventavano più sonori e più allegri. Però, nel momento in cui un gran fascio di luce, attraversando uno strappo manifestatesi nel nebbione, scendeva sull'isolotto, le voci improvvisamente cessarono, poi si riudirono a qualche distanza per quindi spegnersi completamente.

— Se ne sono andati — disse Koninson, facendo un gesto di dispetto.

— Ma forse il loro accampamento non è lontano — rispose il tenente.

— E contate di recarvi colà?

— Senza dubbio, fiociniere, poichè ci saranno di non poca utilità. Ecco che il nebbione si alza rapidamente; possiamo imbarcarci, ora che i ghiacci sono visibili.

— Sono pronto a seguirvi, signor Hostrup.

Rimisero in acqua i canotti, s'imbarcarono e in pochi minuti si trovarono sulla sponda opposta riparati dentro un piccolo seno formato da due alte rocce.

— Vedi nessuno? — disse il tenente, armando per precauzione il fucile.

— Nessuno, nè odo alcuna voce — rispose il fiociniere.

— Allora possiamo sbarcare.

— Una parola prima, signor Hostrup. Se gli indiani ci fanno un'accoglienza ostile, bisognerà venire alle mani e non so come la finirà. Noi siamo due, e loro sono in molti, forse.

— Hanno troppo paura dei bianchi per alzare le mani contro di noi. Eppoi il forte Speranza è vicino e non ardiranno farci qualche brutto tiro.

— Ma perchè volete avvicinarli?

— Non l'hai ancora compreso? È per farci condurre al forte dietro qualche compenso.

— Vi prevengo che la mia borsa è rimasta sul «Danebrog».

— Abbiamo i nostri fucili, armi molto preziose in questa regione.

— Allora andiamo, signor Hostrup.

In fondo al piccolo seno, fra due rupi, s'apriva a uno stretto sentieruzzo per il quale senza dubbio gli indiani erano discesi. I due balenieri, abbandonati i canotti dopo di averli ben assicurati ad uno scoglio, s'arrampicarono su per quello scabroso passaggio e raggiunsero la cima di una rupe dalla quale si poteva dominare un vasto tratto di paese.

Dinanzi a loro si estendeva una vastissima pianura, chiusa verso sud, ma a molte leghe di distanza, da una grande catena di montagne che probabilmente si staccava dalla grande catena delle Montagne Rocciose che forma l'ossatura principale dell'America del Nord. Qua e là, specialmente lungo il corso del fiume, apparivano boschi di pini, di abeti, di betulle e di altissimi pioppi.

Il luogotenente, che guardava attentamente verso est, non tardò a scorgere un gruppo di tende che si appoggiava ad un bosco e dalle cui cime coniche uscivano delle nuvolette di fumo.

— Ecco l'accampamento — disse il fiociniere.

— Ma mi sembra molto grande, signor Hostrup. Quali indiani saranno?

— Forse dei Denè o dei Loschi, oppure dei Chippewyans.

— E il forte, lo vedete in nessun luogo?

— È molto lontano, fiociniere, forse qualche centinaio e anche più di chilometri. Forza alle gambe e avanti.

Si gettarono in spalla i fucili e partirono di buon passo, fiancheggiando un bosco che seguiva il corso del fiume ed entro il quale si udivano numerosi ululati di lupi. La neve che ancora copriva la pianura, essendosi gelata durante la notte, rendeva la marcia facile. In meno di un'ora giunsero a poche centinaia di passi dall'accampamento composto di una quindicina di tende.

L'abbaiare di numerosissimi cani, che avevano fiutato le vicinanza di stranieri, fecero uscire dieci o dodici uomini, i quali avanzarono senza diffidenza verso i due naufraghi.

Erano tutti di statura piuttosto inferiore alla media, dalla pelle olivastra e lucente, forse perchè unta di recente con grasso, cogli occhi un pò obliqui e i capelli neri, grossi e lunghi. Portavano vesti di pelle di foca e di orso, munite di cappucci orlati di pelle di volpe, ed avevano lunghi stivali cuciti con nervi di animali. Le loro armi consistevano in certe fiocine di denti di narvalo munite d'una punta di rame, e in archi.

— Sono eschimesi — disse il tenente che li aveva subito riconosciuti.

— Possiamo fidarci? — chiese Koninson.

— Godono fama di essere molto ospitali, ma assai vendicativi. Credo che non avremo da temere.

Un eschimese, che doveva essere certamente un capo, a giudicarlo dalle vesti che erano più ricche di quelle degli altri, s'avvicinò ai naufraghi e, dopo averli salutati in inglese, strofinò energicamente il proprio naso contro il loro in segno di amicizia.

— I bianchi nulla hanno da temere dalle tribù degli Innoit! — disse poscia. — Siano i benvenuti nella mia tenda.

— Siamo pronti a seguirti, — rispose il tenente — e non avrai a pentirti di averci ospitati.

— I bianchi si recano al forte Speranza?

— Sì, ma noi non conosciamo la via venendo dalle lontane regioni dell'ovest.

— Kumiath la insegnerà! — rispose il capo. — Seguitemi nella mia tenda.

Il capo li condusse nell'accampamento dove vennero circondati da una trentina di eschimesi fra uomini e donne accorsi da tutte le parti ai furiosi abbaiamenti dei cani. Il tenente e il fiociniere notarono che fra i curiosi si trovavano anche alcuni individui che per la loro statura più elevata, per le loro vesti e per i loro lineamenti parevano appartenere ad un'altra razza. Non vi fecero però molto caso e seguirono il capo il quale, dopo averli fatti passare attraverso un vero labirinto di bastoni sostenenti gran numero di pezzi di carne messi a seccare, li condusse in una piccola tenda dove, in mezzo a mucchi di pelli, marcivano, fra odori pestilenziali, ma che sembravano invece apprezzati dagli eschimesi che si cibano volentieri di carni corrotte, salmoni, lucci, trote, gadus, coreganus ed altri pesci del Makenzie.

Benchè non si trovassero troppo bene fra quei miasmi, si accomodarono su una gran pelle d'orso distesa per terra e fecero come meglio poterono onore al cavallo marino conservato in olio di balena e ad una grossa trota, un pò troppo passata, offerta loro dal capo. Per tema di fare un affronto all'eschimese, furono anche costretti a sorbire una certa quantità di olio di morsa che fu loro gentilmente offerto, con quante smorfie ognuno lo può immaginare.

Terminato quel diabolico pasto, sontuoso per un eschimese gran bevitore d'olio e mangiatore di carne cruda, corrotta o malamente affumicata sulla fiamma di una lampada, ma quanto mai disgustoso per un europeo, il capo intavolò una conversazione narrando che da soli pochi giorni aveva lasciato il forte Speranza, dove aveva fatto moltissimi scambi di pelli contro tabacco, conterie, armi, ecc., e che ora stava per raggiungere le sponde dell'oceano a cacciarvi la balena.

— Dista molto il forte? — chiese il tenente, quando il capo ebbe finito.

— Tre giorni di marcia e niente di più! — rispose l'eschimese. — Basta seguire questo bosco che si stende lungo le rive del Makenzie per non smarrire la via.

— Ci sono altre tribù che si dirigono al forte?

— Sì, una che è venuta dalle lontane regioni dell'ovest, come voi e che si è accampata nel bosco.

— Appartiene alla vostra razza?

— No.

— È molto numerosa?

— Lo è diventata in questi giorni. Conta almeno quattrocento uomini.

— Il suo nome?

— Il suo nome è... Tò, ecco alcuni dei suoi uomini, senza dubbio qui giunti per vedere gli uomini bianchi e che...

Non aveva ancora finito che il fiociniere, alzatesi di colpo, si precipitava fuori urtando furiosamente contro un grosso attruppamento di persone radunatesi dinanzi alla tenda. Il suo robusto pugno piombò con secco rumore su di un uomo il quale stramazzò a terra mandando un urlo di dolore.

Gli eschimesi si divisero precipitosamente, lasciando alle prese i due avversari che lottavano con pari accanimento.

Il tenente, che non sapeva ancora di che si trattasse, accorse in aiuto di Koninson, il quale ad ogni pugno che lasciava cadere gridava:

— Questo per la polvere! Questo per le palle! E questo per la carne che ci hai rubato!

Solo allora si accorse che l'avversario era un indiano, anzi il capo Tanana che li aveva indegnamente traditi e derubati sulle rive del Porcupine.

Stava per piombare anche lui sul traditore, quando questi sgusciando con una agilità sorprendente fra le mani del fiociniere, riuscì a rimettersi in piedi.

— Ti ucciderò! — gridò minaccioso.

Poi fuggì a rompicollo verso la foresta dove si trovava il suo accampamento. Il tenente, che aveva perduta la sua flemma abituale, stava già per armare il fucile e inviargli una palla nel dorso, ma il capo eschimese gli abbassò l'arma dicendogli:

— Sii prudente! Essi sono molti e molto vendicativi.

— Ma quell'uomo ci ha derubati, dopo aver chiesto il nostro aiuto per rifornirsi di viveri — disse il tenente.

— Meriterebbe la morte, ma tu qui sei straniero e non hai che un compagno, mentre i Tanana sono numerosi. Vieni nella mia tenda e cercheremo di accomodare ogni cosa.

— È troppo tardi! — disse il fiociniere. — Si tratta ora di far parlare i fucili.

E non s'ingannava. Dalla foresta uscivano allora due o trecento guerrieri, mandando grida assordanti. I più erano armati di fiocine e di coltelli, ma taluni portavano dei fucili, assai vecchi, ma non del tutto in cattivo stato.

— Che uragano sta per scoppiare? — si chiese Koninson che si preparava però a vendere cara la vita. — Non so come la finirà, se quei pagani si gettano tutti uniti contro di noi.

— Fuggite! — disse l'eschimese che aggrottava la fronte e che era diventato pensieroso. — I Tanana sono valorosi e non si arresteranno dinanzi ai vostri fucili.

— Ma dove fuggire? — chiese il tenente. — I nostri canotti sono lontani e saremo raggiunti prima di trovarli.

— Dietro la mia tenda ho una slitta tirata da una muta di robusti cani. Montatela e fuggite verso il forte.

— Ma si vendicheranno contro di te, mio buon eschimese.

— I Tanana non ardiranno alzare le mani contro di me — rispose con fierezza l'eschimese. — Questa è la terra degli Eschimantik (mangiatori di pesce crudo), come loro ci chiamano, e sanno che una offesa fatta alla mia tribù la pagherebbero cara, poichè i miei compatrioti non la lascerebbero impunita. Presto fuggite, o sarà troppo tardi.

Il tenente si levò l'orologio e lo diede al bravo eschimese dicendogli:

— Conservalo in memoria della tua buona azione. Ed ora alziamo i tacchi.

Si slanciò dietro la tenda seguito da Koninson, ma si arrestò subito mandando una sonora imprecazione. Sette od otto Tanana, che si erano avvicinati tenendosi nascosti dietro le tende degli eschimesi, sbarravano la via. Alla loro testa, armato d'un vecchio fucile, si trovava il capo, il cui naso schiacciato dal potente pugno del fiociniere, mandava ancora sangue.

— Ah, brigante! — gridò il tenente.

— Non si passa di qui — disse il capo con tono minaccioso.

— E cosa pretenderesti tu?

— Che tu mi consegni il tuo compagno perchè io vendichi l'affronto fattomi.

— Bene, prendi questo, giacchè lo vuoi.

Il tenente puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Il Tanana, colpito alla fronte, stramazzò al suolo fulminato, mentre i suoi guerrieri fuggivano disordinatamente gettando urla di rabbia e di vendetta.

— Presto, Koninson, salviamoci! — disse il tenente.

— Andiamo, signore, e filiamo dritti al forte.

La slitta era pronta. Dodici robusti cani, somiglianti ai lupi, dalle gambe nervose, erano attaccati due a due, pronti a partire al primo segnale.

I due naufraghi balzarono nel veicolo e si slanciarono attraverso la pianura trascinati in una rapidissima corsa.

Dalla parte dell'accampamento scoppiarono alcune fucilate, le cui palle attraversarono gli strati d'aria sibilando; poi si videro i Tanana dirigersi correndo verso il bosco mandando clamori assordanti.

— Tò! Fuggono forse? — chiese Koninson al tenente che animava i cani colla voce e colla correggia.

— Ne dubito, fiociniere.

— Che ci diano la caccia?

— Lo temo, ma i nostri cani corrono come il vento e abbiamo già un notevole vantaggio.

— Terranno duro questi corridori?

— Per parecchie ore e senza rallentare. Basta che la neve non ceda sotto il peso della slitta.

— Vedo che la pianura è tutta bianca. Ma oh! La matassa s'imbroglia!

— Che cosa vedi?

— Delle slitte che escono dal bosco.

— Sono i Tanana che ci danno la caccia. Quante sono?

— Ne ho contate sette e, se non corrono più di noi, certo non rimangono indietro.

Il tenente volse un rapido sguardo verso il bosco e vide infatti sette slitte correre con fantastica rapidità sulla nevosa pianura, trascinate da lunghe file di cani. Quattordici uomini le montavano e i più erano armati di fucili.

— Diamine! Sono proprio decisi a vendicare il loro capo, — disse. — Bah! Avranno pane per i loro denti, se riescono a raggiungerci. Tu sorveglia i loro movimenti, mentre io cerco di far correre i nostri cani.

— E gli eschimesi? Mi spiacerebbe che quei buoni diavoli la pagassero per noi.

— Il capo mi sembrò quieto; è segno che non avrà nulla da temere. S'avvicinano?

— Vorrei ingannarmi, signor Hostrup, ma mi pare che guadagnino su di noi.

— Avanti, miei piccini! — gridò il tenente, sferzando i piccoli trottatori. — Se vi comportate bene, avrete doppia razione di carne stasera.

— Non ne abbiamo un pezzettino grande come un soldo.

— Ne troveremo al forte. Se continuiamo a correre così, vi giungeremo in poche ore. Guadagnano i Tanana?

— Sì, signor Hostrup. Non sono che a un chilometro da noi.

— Quante cariche ci restano?

— Una cinquantina.

— Ci bastano per abbatterli tutti quattordici! — disse il tenente con voce tranquilla. — Avanti, miei piccini, lesto il passo e tu, bianco, fatti più sotto. Là, così va bene.

Un colpo di fucile echeggiò al largo, ma la palla non giunse fino ai fuggiaschi.

— Troppo lontano, mio caro! — disse Koninson ridendo. — Quando sarete a tiro lo darò io il segnale e vi garantisco, brutti pagani, che lo assaggierete, il mio piombo.

Altri due colpi di fucile rimbombarono, ma non con miglior effetto. I Tanana compresero che non era ancor giunto il momento di far parlare la polvere e raddoppiarono le grida e le scudisciate per far correre di più i loro cani, i quali parevano più robusti e più veloci di quelli regalati dall'eschimese.

Ben presto non furono che a seicento metri di distanza.

Koninson, che non li perdeva di vista un sol momento, stava per puntare il fucile quando vide le sette slitte fare un rapido voltafaccia e fuggire precipitosamente verso l'accampamento, di cui si scorgevano appena appena le tende.

— Tò! — esclamò il fiociniere al colmo della sorpresa. — Battono in ritirata!

— Come? I Tanana fuggono?

— Sì signor Hostrup. Che abbiano avuto paura dei nostri fucili?

— Io non lo credo.

— E allora? Che siamo vicini al forte?

— Dinanzi a noi non vedo che un bosco e anche molto lontano.

— Che ci minacci qualche pericolo?

— Lo temo, Koninson, anzi ne sono certo.

— E da che lo arguite?

— I nostri cani da qualche minuto corrono più rapidi e mi sembrano inquieti.

Infatti il tenente non si ingannava. Le povere bestie non parevano più tranquille e divoravano la via con crescente rapidità, senz'essere eccitate. Avevano cessato i loro allegri abbaiamenti, il loro pelo era diventato irto e volgevano frequentemente la testa verso i padroni, come se invocassero la loro protezione.

— Hum! — mormorò Koninson. — C'è qualche cosa di grave in aria.

— O meglio in terra. Guarda laggiù, guarda!

Koninson guardò nella direzione indicata e vide una linea oscura estendersi dinanzi ad un bosco e poi slanciarsi attraverso la pianura con fantastica rapidità. Quantunque dotato di una buona dose di coraggio, impallidì.

— I lupi! — esclamò.

— Che giungono a centinaia — aggiunse il tenente.

— Ecco perchè i Tanana sono fuggiti. Sfuggire al palo di tortura degli Indiani per cadere sotto i denti dei lupi, mi sembra che sia un pò dura. Vi confesso, signor Hostrup, che comincio ad aver paura.

— Calma e sangue freddo, fiociniere. Se possiamo giungere a quel bosco che chiude l'orizzonte, siamo salvi.

— Contate di trovare colà dei difensori?

— No, ma troveremo degli alberi sui quali potremo trovare un comodo rifugio. Prepara le armi e lascia a me la cura di guidare i cani.

I lupi arrivavano di gran corsa mandando delle urla brevi, come strozzate e mostrando le loro potenti mascelle armate di acuti e bianchissimi denti. Erano almeno duecento e parevano molto affamati e perciò decisi a tutto.

Giunti presso la slitta, che continuava a filare colla velocità di una freccia, formarono un ampio semicerchio. Non assalivano ancora, forse tenuti in rispetto dalla presenza dei due uomini, ma le loro urla parevano volessero dire: Vi mangeremo! Vi mangeremo!

— Devo aprire il fuoco? — chiese Koninson con un leggero tremito.

— No, finchè si accontentano di seguirci — rispose il tenente che era tutto intento a far correre i cani, nella cui rapidità stava la salvezza di tutti. — Aspetta che ci assalgano.

Per un paio di miglia i lupi, quantunque la fame attanagliasse il loro stomaco, continuarono a seguire e a fiancheggiare la slitta, ma poi il loro semicerchio si restrinse e uno di loro, più ardito o più affamato degli altri, si precipitò addosso ai cani che si gettarono violentemente da una parte. Pronto come il lampo Koninson fece fuoco e l'aggressore cadde stecchito nella neve. Alcuni carnivori, spaventati dalla detonazione, si sbandarono, ma gli altri raggiunsero la slitta.

Pochi minuti dopo un altro lupo tentò l'assalto, ma ebbe egual sorte del primo. La slitta si trovava allora a due soli chilometri dal bosco e filava con una velocità vertiginosa. Tre o quattro altri l'assalirono per di dietro tentando di balzarvi dentro.

— Aiuto, signor Hostrup! — gridò Koninson. — Io non basto più.

Il tenente abbandonò la correggia affidandosi all'istinto dei cani e afferrò il fucile. Era tempo, poichè i feroci carnivori avanzavano sempre più, pronti ad un assalto generale.

Due detonazioni rimbombarono, poi altre due, poi due altre ancora abbattendo altrettanti lupi. I due balenieri continuarono così, mentre i cani li trascinavano verso il bosco.

I lupi, che ormai avevano assaggiato il sangue, non retrocedevano più. Urlando furiosamente assalivano la slitta per di dietro e ai lati tentando di strangolare i cani e di saltare alla gola degli uomini i quali si difendevano disperatamente.

Ad un tratto Koninson gettò un grido di disperazione.

— Non ho più polvere!

— Maledizione! — urlò il tenente. — E questo è il mio ultimo colpo!

I lupi, come se avessero compreso che la vittoria era ormai sicura, si precipitarono confusamente all'assalto della slitta, circondandola da ogni parte. I cani sparvero sotto il numero degli assalitori e dopo breve lotta furono fatti a brani, ma i due balenieri non erano ancora vinti. Ritti sul sedile, si difendevano con sovrumana energia respingendo l'orda incalzante coi calci dei fucili, spaccando teste, fracassando dorsi, scavezzando gambe, schiacciando musi.

Ma quella lotta di due contro centocinquanta e più non poteva durare a lungo. Già il fiociniere e il tenente si sentivano impotenti di più oltre resistere, già le loro forze venivano meno, i più feroci balzavano contro le loro gambe, quando una scarica violenta rintronò sotto il bosco che era lontano soli trecento passi.

Quindici o venti uomini, apparsi improvvisamente, balzarono in mezzo all'orda urlante disperdendola a colpi di scure e di fucile e accolsero nelle loro braccia i due balenieri, così miracolosamente salvati.

— Signore, — disse un di loro volgendosi verso il tenente che non si reggeva più — non abbiate più timore: siete fra i cacciatori del forte Speranza.