I pescatori di balene/XX. Attraverso le montagne

XX. Attraverso le montagne

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XIX. Caccia ai buoi muschiati XXI. Trascinati dai ghiacci

XX


ATTRAVERSO LE MONTAGNE


Erano tredici, meno grandi dei bufali e dei buoi comuni, ma d'aspetto ferocissimo, col loro lunghissimo pelo color bruno scuro che scendeva quasi fino a terra, gli occhi selvaggi e le lunghe corna minacciosamente allargate all'infuori.

Formavano una specie di cerchio attorno a due buoi che avevano forme più massicce, corna molto più lunghe e statura molto più elevata, senza dubbio due maschi, e che si guardavano ferocemente come se fossero lì lì per precipitarsi l'uno contro l'altro.

— Facciamo fuoco? — chiese Koninson, che tormentava il grilletto del suo fucile.

— Non ancora, — rispose il tenente.

— Perchè, signor Hostrup? Se ci scappano?

— Non ci scapperanno, fiociniere. Hanno ben altro da fare ora.

— E cosa mai?

— Se non m'inganno, stiamo per assistere ad un duello fra quei due maschi, cosa che succede di frequente fra questi intrattabili ruminanti.

— E perchè mai?

— Per disputarsi le femmine. Sta zitto e guarda.

I due maschi infatti stavano per impegnare una di quelle lotte che quasi sempre finiscono colla morte di uno degli avversari e qualche volta di tutti e due.

Avevano abbassato i solidi cranii, mostrando le corna che sembravano assai aguzze e d'una durezza a tutta prova e dimenavano le brevi code con crescente rapidità, indizio certo della grande irritazione che li animava. Le femmine, dal canto loro, si erano affrettate a ritirarsi da una parte, onde lasciare maggior campo ai due campioni.

Ad un tratto, i due combattenti mandarono un muggito lungo, sonoro, che si ripercosse stranamente per la stretta valle, e si scagliarono l'un contro l'altro con rabbia estrema e colla testa bassa.

L'urto fu terribile: entrambi non ressero all'incontro e caddero l'un sull'altro; ma tosto si rialzarono con un'agilità che non si sarebbe supposta in quei corpi, tornando a caricarsi con maggior furore e avventandosi tremende cornate che laceravano la pelle e producevano profonde ferite dalle quali il sangue sgorgava a rivi.

Per un buon quarto d'ora combatterono con varia fortuna mescendo i muggiti ai cupi colpi delle lunghe corna, poi uno, il più piccolo, cadde dibattendosi fra le convulsioni della morte. Dal ventre squarciato per un lungo tratto, assieme ad una vera pioggia di sangue, uscivano gli intestini.

Il vincitore però non si arrestò, e quantunque pur lui ridotto a mal partito, colla fronte quasi interamente scoperta dalla quale pendevano brani di pelle sanguinolenta, un occhio levato e il petto sfondato, si scagliò un'ultima volta sul vinto, percuotendolo rabbiosamente cogli zoccoli e colle corna.

— Ah brigante! — mormorò Koninson, che non poteva più star fermo. — Ora ti accomodo io.

Stava per puntare il fucile, quando la banda tutta d'un tratto fece un rapido voltafaccia slanciandosi attraverso la valle, seguita, dopo una breve esitazione, anche dal vincitore.

Il tenente e Koninson balzarono sulla roccia che li aveva fino allora nascosti e fecero fuoco dietro ai fuggiaschi che non si arrestarono, quantunque uno fosse stato veduto fare uno scarto e vacillare.

— Inseguiamoli! — gridò il fiociniere.

— È inutile, — disse il tenente. — Non vedi come trottano? Ci vorrebbero dei cavalli per raggiungerli.

— Ma in qualche luogo si fermeranno.

— Sì, ma dove e quando? Sono capaci di attraversare la catena di monti e di slanciarsi verso le pianure del sud.

— Quegli animali si arrampicano anche sui monti?

— Sì e come le capre.

— Ma ditemi, signor Hostrup, perchè si chiamano buoi muschiati?

— Perchè la loro carne è impregnata di muschio.

— Sicchè noi mangeremo delle bistecche...

— Muschiate e molto muschiate, mio caro fiociniere.

— Bah! Purchè sia carne fresca, non domando altro.

— Non ne mangerai molta, te l'assicuro.

— Ma se gli eschimesi la mangiano...

— Gli eschimesi vi sono abituati e poi, sai bene che hanno dei ventricoli capaci di tollerare qualunque cibo nauseante, come pesci corrotti, olio di foca e di balena, ecc. Orsù, andiamo a tagliare qualche pezzo di carne e poi torniamo alla tenda.

Si diressero verso il bue che aveva terminato di agitarsi e a colpi di scure gli aprirono il ventre, staccandogli sei o sette costole. Koninson però non si accontentò e si impadronì anche della lingua che doveva essere eccellente.

Raccolte le armi, si misero in cammino e verso le 6 pomeridiane giungevano alla tenda attorno alla quale trovarono numerose traccie di lupi, segno evidente che avevano tentato di entrarvi, ma senza riuscirvi.

La lampada fu accesa e la pentola messa a bollire con un bel pezzo di carne che non pesava meno di due chilogrammi; ma i due balenieri per quanto si sforzassero e per quanta voglia avessero di porre sotto i denti un pò di quel manzo, fecero poco onore al pasto. Carne e brodo erano impregnati di muschio in siffatto modo, che un vero affamato avrebbe esitato lunga pezza.

— Al diavolo i buoi e il loro muschio! — esclamò Koninson, — Non valeva la pena di fare tanta strada per guadagnarci questo pasto.

— Te l'avevo detto — disse il tenente. — Ma ci hanno guadagnato le nostre gambe che avevano bisogno di una bella passeggiata per prepararsi alla gran marcia.

— Quando partiremo?

— Domani, se il tempo lo permetterà.

— Allora buona notte, signor Hostrup.

Richiusero la tenda, tirando per maggior precauzione la slitta dinanzi all'entrata e s'avvolsero nelle loro coperte dopo aver però caricato le armi onde essere pronti a qualsiasi assalto.

Il mattino del 23 il tenente dava il segnale della partenza. Egli aveva fretta di allontanarsi da quelle spiaggie che non offrivano alcuna risorsa e che, stante la vicinanza della catena di montagne, le cui cime dovevano essere ricche di ghiacciai pronti a spezzarsi ai primi calori, potevano diventare pericolosissime.

Piegata la tenda e insaccati i viveri, i due intrepidi balenieri si recarono sulla spiaggia a dare un ultimo sguardo a quel mare gelato nelle cui profondità dormivano i loro disgraziati compagni e che forse non dovevano mai più rivedere.

I campi di ghiaccio erano ancora là, colle nevi che il sole non era ancora riuscito a intaccare e colle loro montagne dalle cime bizzarramente frastagliate, ma non presentavano più quella superficie compatta che avrebbe sfidato le mine e lo sperone delle corazzate dei due mondi. Qua e là, immensi crepacci si erano aperti ed in fondo a questi si vedeva il mare alzarsi ed abbassarsi e poi tornare a montare, quasi fosse stanco di quella lunga ed opprimente prigionia.

Ogni qual tratto, un «iceberg» mal solido, o scosso dai continui urti di ghiacci minori, capitombolava con un fragore immenso che si ripercuoteva a grandi distanze in quell'atmosfera limpida e secca, o s'apriva improvvisamente, con uno scricchiolìo che si perdeva in lontananza, un largo crepaccio dentro il quale si rovesciavano confusamente colonne, cupole e piramidi che tosto scomparivano sotto lo spumeggiante oceano. Altre volte invece, una vera montagna di ghiaccio, sfondando col proprio peso il banco, scompariva e poi riappariva con un salto immenso lanciando, in mezzo ai ghiacci che l'attorniavano, degli enormi sprazzi di acqua che correvano in tutte le direzioni, formando qua e là dei torrenti e dei laghetti ove calavano subito a bagnarsi, gettando strida gioconde, bande di uccelli marini.

— È pur sempre bello questo strano spettacolo che solamente qui si può ammirare — disse il tenente.

— Bello sì, ma io vorrei esserne ben lontano — disse Koninson. — Vivessi mille anni mi ricorderò sempre di questa disgraziata campagna.

— Non parliamone, amico mio, e partiamo.

— Avete ragione, signor Hostrup. È meglio lasciar dormire i tristi ricordi e mettere la prua verso sud. Animo, Koninson, se vuoi salvare la pelle.

Il fiociniere e il tenente, dato un ultimo sguardo all'oceano polare, si attaccarono alla slitta a cui avevano legato delle corde e si misero animosamente in marcia cercando di mantenere una via, più che era possibile, retta.

La grossa crosta di ghiaccio che ancora copriva la terra, si prestava assai allo scivolamento del veicolo, ma le frequenti screpolature, manifestatesi qua e là, e di cui talune raggiungevano qualche metro di larghezza, i frequenti incontri di strati di neve non ancor ben solidificata o in via di scioglimento, entro i quali i due balenieri sprofondavano fino alle anche, e talvolta anche più, rallentavano e rendevano penoso il cammino. Ma la tenacia del tenente e la robustezza di Koninson la vinsero sugli ostacoli, ed a mezzogiorno la slitta si trovava già nella valle che menava direttamente ai monti. Colà si trovava ancora il bue muschiato ucciso il giorno innanzi, ma ridotto ormai uno scheletro dai denti degli affamati lupi.

Fecero una breve fermata onde mangiare un boccone, indi ripresero il faticoso cammino, reso ancor più difficile dal notevole innalzarsi del terreno e dall'incontro di enormi lastre di ghiaccio staccatesi senza dubbio da qualche vicino ghiacciaio e scivolate fin là.

La valle era deserta e selvaggia. A destra e a sinistra, bizzarre roccie di natura granitica, come lo sono tutte quelle che si incontrano in quelle gelate regioni, rivestite di neve e di ghiaccio, s'alzavano capricciosamente frastagliate e per lo più coi fianchi così ripidi da rendere impossibile una scalata. Qua e là gran numero di massi enormi coprivano il terreno e disposti in così strana guisa che parevano scagliati da qualche improvviso scoppio di una poderosa mina ed in mezzo a quelli, piccole piante, magri licheni, mezzi divorati dai buoi muschiati o dalle renne, ranuncoli, sassifraghe e graminacee.

Non un animale, non un uccello si scorgevano in quella brutta valle e regnava un silenzio profondo, triste, che faceva una strana impressione.

— Che brutto luogo! — disse Koninson. — Si direbbe che stiamo per attraversare un cimitero. Ma dove si sono cacciati i lupi e i buoi muschiati?

— Non lo so meglio di te — rispose il tenente. — Ma, se devo dirti il vero, non mi trovo bene in questa valle.

— E perchè? Temete qualche cosa?

— Forse, Koninson; ma andiamo innanzi.

Continuarono ad avanzare, salendo sempre e raddoppiando gli sforzi, senza incontrare nè un lupo, nè una volpe, animali questi che si vedono dappertutto in quelle lontane regioni. Il tenente, man mano che procedeva, diventava più inquieto; l'assenza di quegli animali, anzichè tranquillizzarlo, lo rendeva pensieroso.

Erano già giunti a due soli chilometri da un'alta montagna, i cui fianchi, coperti da immensi ghiacci tramandavano, sotto i riflessi del sole, una luce acciecante, quando il tenente si arrestò improvvisamente afferrando le braccia di Koninson.

— Ascolta! — disse.

Lassù, verso la montagna, si udiva uno strano rumore; pareva che si staccasse o si fendessse del ghiaccio e che poi scivolasse producendo dei lunghi fischi.

— Cosa succede? — chiese Koninson.

— Non v'è più dubbio, ci troviamo dinanzi ad un grande ghiacciaio — rispose il tenente.

— E così?

— Questi scricchiolii e queste sorde detonazioni indicano la imminente caduta dei ghiacci. Stiamo in guardia, Koninson.

— Volete che pieghiamo verso est?

— Credo che sarà meglio per noi.

Piegarono a destra e si cacciarono dietro una lunga linea di roccie che potevano ripararli. Era tempo!

Tutt'a un tratto, sulla montagna che giganteggiava dinanzi a loro, s'udirono spaventevoli detonazioni seguite da lunghi fischi e dall'alto si videro scivolare con straordinaria rapidità degli immensi blocchi di ghiaccio i quali, rovesciando e polverizzando gli innumerevoli «hummoks» formati dalla neve, si scagliavano attraverso alla valle come altrettanti treni diretti, alcuni filando verso nord in direzione del mare ed altri spaccandosi contro le roccie che nell'urto perdevano tutto il loro rivestimento invernale.

A quella prima discesa ne tenne dietro una seconda, poi una terza, una quarta, una quinta ad intervalli di pochi minuti, empiendo l'aria di mille fragori e la valle di massi di ghiaccio.

I due balenieri, riparati dalle roccie che si dirigevano verso est senza interruzioni, camminavano rapidamente per tema che altri ghiacci, passando sopra ai caduti, non finissero col sorpassare la linea che li proteggeva e che non era molto alta.

Di quando in quando, dei massi di ghiaccio, rimbalzando a grande altezza, cadevano al di là delle roccie ed uno per poco non sfracellò la testa a Koninson.

— Presto, presto, — ripeteva il tenente, facendo sforzi sovrumani, — o prima di domani nessuno di noi sarà vivo.

— Dannata regione! — borbottava Koninson, che malgrado il freddo cominciava a sudare. — In mare i ghiacci stritolano le navi e in terra mirano le costole degli uomini!

Spronati dal continuo capitombolare dei massi e dalle detonazioni che crescevano d'intensità annunciando altre e più pericolose cadute, verso le otto della sera, affranti, affamati, giungevano dinanzi ad una seconda montagna più bassa, meno irta e i cui fianchi non offrivano alla vista alcun ghiacciaio.

— Alt! — disse il tenente. — Accampiamoci qui.

— Saremo sicuri?

— Lo credo, Koninson; però dormiremo con un solo occhio.