I misteri della jungla nera/Parte II - Capitolo II - Il Negapatnan

Parte II - Capitolo II - Il Negapatnan

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Parte II - Capitolo II - Il Negapatnan
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Capitolo II
Il Negapatnan


La villa del capitano Harry Macpherson, sorgeva sulla riva sinistra dell’Hugly, dinanzi ad un piccolo seno nel quale galleggiavano parecchi gonga e qualche mur-punky.

Era una di quelle palazzine che chiamansi in India bengalow, elegante, comodissima, ad un solo piano, alzata sopra un basamento di mattoni e sormontata da un tetto piramidale. Una galleria sostenuta da colonne, chiamata varanga, e che terminava in un’ampia terrazza, le girava attorno riparata da fitte stuoie di coccottiero.

A destra ed a sinistra si estendevano bassi fabbricati e tettoie, destinate per le cucine, per le rimesse, per le scuderie e pei sipai, ombreggiate da tara, da latania e da non pochi pipal e nim, alberi dal tronco enorme e dal fogliame fitto e cupo, che oggi sono in gran parte scomparsi nelle grandi pianure del delta gangetico.

Il capitano Macpherson entrò nella palazzina lasciando i sipai alla porta, percorse una lunga fila di stanze ammobiliate semplicemente ma eleganti, con seggioloni immensi e tavole e tavolini di acajù e salì sulla terrazza riparata da una grande tenda. Bhârata non tardò a raggiungerlo trascinando a viva forza lo strangolatore Negapatnan.

- Siedi e discorriamo, - disse il capitano, indicando allo strangolatore un sedile di sottili bambù intrecciati.

Negapatnan ubbidì facendo stridere le catene che gli imprigionavano i polsi. Bhârata si collocò al suo fianco, mettendosi dinanzi un paio di pistole.

- Tu adunque hai detto di conoscermi, - disse il capitano Macpherson, fissando sull’indiano uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.

- Ti dissi che tu sei il capitano Harry Corishant, - rispose lo strangolatore, - il padre della vergine della pagoda sacra.

- Come mi conosci?

- Ti vidi parecchie volte a Calcutta. Una notte anzi ti seguii, sperando di strangolarti, ma il colpo non mi riuscì.

- Miserabile! - esclamò il capitano, pallido d’ira.

- Non irritarti per sì poco, - disse lo strangolatore, sorridendo.

- Ti ricordi tu, la notte che mia figlia fu rapita?

- Come fosse ieri. Era la notte del 24 agosto 1853. Negapatnan fu sempre alla testa di tutte le imprese dei thugs, - disse l’indiano con orgoglio. - Fui io a sfondare la finestra ed a rapire tua figlia.

- Ma non tremi tu, a narrare simili cose al padre di quell’infelice?

- Negapatnan giammai tremò.

- Ma io ti infrangerò come una canna.

- E i thugs infrangeranno te come un giovane bambù.

- È questo che io voglio vedere.

- Capitano Corishant, - disse gravemente lo strangolatore, - al disopra dei dominatori dell’India v’è una potenza occulta e terribile che nulla teme. Le teste coronate si curvano sotto il soffio della dea Kâlì, nostra signora. Trema!

- Se Negapatnan giammai tremò, il capitano Macpherson giammai ebbe paura.

- Me lo dirai il giorno in cui il laccio di seta ti stringerà la gola.

- E tu me lo dirai il giorno in cui il ferro rovente calcinerà le tue carni.

- È per farmi morire fra le torture, che m’hai fatto qui condurre?

- Sì, se non tradisci il segreto dei thugs. Solo a questo patto puoi salvare la vita.

- Ah! tu vuoi farmi parlare? E su cosa?

- Sono il padre di Ada Corishant.

- Ebbene?

- Non ho perduta ancora la speranza di riaverla fra le mie braccia.

- Continua.

- Negapatnan, - disse il capitano con voce vivamente commossa. - Hai mai avuto una figlia tu?

- Oh! mai! - esclamò lo strangolatore.

- Hai mai amato almeno?

- Mai, fuorché la mia dea.

- Io l’amo quella mia povera figlia, al punto che darei tutto il mio sangue per la sua libertà. Negapatnan, dimmi dov’è, dimmi dove io possa trovarla.

L’indiano rimase impassibile come una statua di bronzo.

- Io ti donerò la vita, Negapatnan. - L’indiano ancora tacque.

- Io ti darò quanto oro tu vorrai, e ti condurrò in Europa onde sottrarti alla vendetta dei compagni. Ti farò dare un grado nell’esercito inglese, ti aprirò la strada per salire in alto, ma dimmi dov’è la mia Ada.

- Capitano Macpherson, - disse lo strangolatore, torvo in volto.- Il tuo reggimento non ha una bandiera?

- Sì, e perché tale domanda?

- Non hai giurato fedeltà a quella bandiera?

- Sì.

- Saresti tu capace di tradirla?

- Oh mai!

- Ebbene, io ho giurato fedeltà alla mia dea, che è la mia bandiera. Né la libertà che tu mi prometti, né il tuo oro, né gli onori scrolleranno la mia fede. Io non parlerò!

Il capitano Macpherson s’era alzato raccogliendo da terra uno scudiscio. Era diventato rosso come una brace, ed i suoi occhi sfolgoravano di rabbia.

- Mostruoso rettile! - esclamò furente.

- Non toccarmi con quella frusta, ché discendo da un ragià, - gridò lo strangolatore torcendo le catene.

Il capitano Macpherson, per tutta risposta alzò lo scudiscio e tracciò sul volto del prigioniero un solco sanguinoso. Un ruggito di belva uscì dalle labbra dello strangolatore.

- Uccidimi, - disse con un tono di voce che più nulla aveva d’umano.- Uccidimi, perché se non lo fai ti strapperò le carni dalle ossa brano a brano.

- Sì, mostro, ti ucciderò, non aver timore, ma lentamente, goccia a goccia. Bhârata, trascinalo nel sotterraneo.

- Devo torturarlo? - chiese il sergente.

Il capitano Macpherson esitò.

- Non ancora, - disse poi. - Lo lascierai ventiquattro ore senz’acqua e senza cibo tanto per incominciare.

Bhârata afferrò lo strangolatore a mezzo corpo e lo trascinò via, senza che questi opponesse resistenza.

Il capitano Macpherson, gettando lungi da sé lo scudiscio, si era messo a passeggiare per la terrazza a passi concitati, cupo, meditabondo.

- Pazienza, - diss’egli coi denti stretti. - Quell’uomo tutto mi confesserà, dovessi strappargli ogni parola a colpi di ferro rovente.

D’un tratto s’arrestò alzando vivamente la testa. Da uno dei recinti era partito un formidabile barrito, proprio dell’elefante quando sente l’avvicinarsi d’un nemico.

- Oh! - esclamò egli. - Il barrito di Bhagavadi.

Si curvò sul parapetto della terrazza. I cani del bengalow fecero udire i loro latrati ed al di sopra di un recinto comparve la gigantesca tromba di un elefante, la quale emise un secondo barrito ancor più forte.

Quasi nello stesso tempo, a un trecento metri dal bengalow, si slanciò nell’aria una massa nera, dotata d’una straordinaria agilità, che subito ricadde nascondendosi fra le erbe.

Il capitano non riuscì, stante l’incerto chiarore, a distinguere che cosa fosse.

- Olà! - gridò egli.

Il sipai che vegliava sotto la tettoia, uscì colla carabina sotto il braccio.

- Capitano, - diss’egli, volgendo all’insù la faccia.

- Hai visto nulla?

- Sì, capitano.

- Era uomo o bestia?

- Mi parve un animale. Si alzò a trecento metri da qui.

La massa nera di prima tornò a spiccare un salto. Il sipai mandò un grido di terrore.

- La tigre!...

Il capitano si slanciò verso la sua carabina, l’armò e sparò dietro all’animale che fuggiva, con salti giganteschi, verso la jungla.

- Maledizione! - esclamò con rabbia.

Il felino alla detonazione s’era arrestato, facendo udire un sordo mugolìo, poi s’internò fra i bambù con maggiore rapidità.

- Cosa succede? - chiese Bhârata, precipitandosi nella terrazza.

- Abbiamo una tigre nei dintorni, - rispose il capitano.

- Una tigre! È impossibile, capitano!

- L’ho vista coi miei propri occhi.

- Ma se le abbiamo tutte distrutte!

- Pare che una sia sfuggita alle nostre carabine.

- L’avete colpita almeno?

- Non lo credo.

- Quell’animale ci darà fastidio, capitano.

- Per poco, te lo prometto. Non amo simili vicini.

- La caccieremo adunque?

Il capitano guardò l’orologio.

- Sono le tre. Fra un’ora conto di salire su Bhagavadi e fra due d’avere la pelle della tigre.