I minatori dell'Alaska/XXXVI - Un nemico misterioso

XXXVI — Un nemico misterioso

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XXXVI — UN NEMICO MISTERIOSO


Per quattordici giorni i minatori continuarono a scavare, seguendo il filone aurifero e accumulando l'oro in grande quantità; al quindicesimo quel lavoro febbrile, faticosissimo, cessò improvvisamente. Dopo aver trovato parecchie tasche, ossia buche ripiene di pepite di diverse dimensioni che variavano dalla grossezza di una fava a quella di un piccolo pisello, si trovarono dinanzi a un enorme blocco di quarzo durissimo, assolutamente inattaccabile. Quella massa rocciosa si stendeva in direzione di un profondo burrone confinante con una delle due cascate, ed era così grossa e così solida da sfidare non solo i picconi, ma anche le mine. Dopo aver cercato a più riprese di scavare a diverse profondità con la speranza di trovare più sotto la continuazione del filone, dovettero convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. Ritornarono al principio del claim facendo diversi assaggi, per trovare da quella parte la continuazione del filone, e dopo numerose buche riuscirono a trovare ancora la sabbia aurifera. S'accorsero ben presto che non aveva la ricchezza dello strato aurifero fino allora seguito, poiché lo sluice, in due giornate di lavoro non diede che due chilogrammi d'oro.

— Corna di bisonte!... — esclamò Bennie. — Seicento dollari sono molti, ne convengo, e certo i claims della California più ricchi non producono di più, tuttavia sono pochi per noi. Continuando così, non diventeremo mai milionari.

— Possiamo accontentarci di guadagnarci cento dollari al giorno per ciascuno, amico Bennie — disse Armando. — Voi diventate molto esigente.

— Sono pochi, Armando.

— Trovatemi voi dunque un paese dove uno zappatore possa guadagnare tanto.

— Avete ragione, però eravamo abituati a guadagnare troppo per accontentarci di queste miserie.

— Le chiamate miserie!... Oh!... Il milionario!...

— Per noi, sì, signor Falcone; a quanto ammonta l'oro che abbiamo estratto in questi giorni?

— A centosessanta chili — rispose il meccanico.

— Ossia?...

— A centomila dollari.

— Addio milioni!

— Abbiamo appena cominciato, Bennie.

— Sono diciassette giorni che lavoriamo, signore.

— E non siete contento? Pensate che avete in tasca quasi ventimila dollari.

— Non si compera una città con questa somma.

— Allora cercate un claim più ricco.

— Credo che non si debba faticare molto a cercarlo, amici miei.

Un «oh» di stupore accolse quelle parole.

— Parlate, Bennie!... — dissero tutti.

— Prima una domanda; credete, signor Falcone, che nel Barem si trovi dell'oro?

— Certamente: ho esaminato l'altro giorno le sue sabbie, ed ho trovato delle pagliuzze d'oro.

— Da dove credete che provenga il prezioso metallo?

— Dai fianchi del Dom.

— Avete osservato la cateratta più grande?

— Sì.

— Alla sua base s'è formata come una immensa vasca, probabilmente assai profonda.

— È vero, Bennie.

— Ebbene, signore, sapete che cosa penso?...

— No, non sono un indovino.

— Che dentro quella vasca debba trovarsi accumulato l'oro trascinato dalla cascata.

Falcone guardò il canadese; era stato vivamente colpito da quella riflessione.

— Ma... sì... può essere... anzi così deve essere, — disse poi.

— E perché allora non andremo a pescare quelle ricchezze?

Caramba!... — esclamò don Pablo. — Forse ci sono tesori immensi in quel bacino, accumulatisi da secoli e secoli.

— Andiamoli a prendere — disse Back.

— Adagio, amico — rispose Falcone. — Bisognerà prima vedere se potremo mettere le mani su quei tesori. Non avete pensato alla cateratta.

— La devieremo — disse Bennie.

— E poi?

— Vuoteremo il bacino.

— Ci vorranno dei mesi. Però andiamo prima a vedere se c'è la possibilità, con qualche mina, di ottenere il nostro scopo. Quanta polvere possediamo?

— Dodici chilogrammi, senza contare le ottocento cartucce dei nostri fucili — rispose Bennie.

— Venite, amici.

Si diressero verso la cascata che rimbombava a destra della vallata, e giunti al margine del salto, si misero a osservarla attentamente per vedere se ci fosse la possibilità di tentare il lavoro progettato.

Il fiume che scendeva dalla montagna, si precipitava nel bacino inferiore da un'altezza di ben settanta metri, con un rombo assordante. La grande colonna d'acqua andava a raccogliersi in un'ampia vasca circolare, irta di punte rocciose, molto profonda, a quanto pareva, quindi sfuggiva attraverso a un numero infinito di canaletti, i quali passavano sotto una roccia enorme, per poi raccogliersi tre o quattrocento metri più avanti al di là di quell'ostacolo. Quel serbatoio aveva quasi la forma d'un imbuto, però le sue sponde erano così ripide che nessuno avrebbe potuto scenderle, senza l'aiuto di una scala o di una fune. Falcone, dopo un attento esame, si convinse che c'era la possibilità di intraprendere, con buona fortuna, il lavoro ideato dal canadese.

— Sì, — disse, dopo aver riflettuto. — Scavando una mina alla base di quella grande roccia che ostacola il libero passaggio delle acque, si potrebbe vuotare rapidamente il bacino. Quell'ostacolo, già roso dall'acqua, non può offrire molta resistenza e deve cedere sotto l'urto di una grossa carica di polvere. L'unica difficoltà consiste nel deviare la cascata.

— Vi sembra impossibile? — chiese Pablo.

— Forse con un'altra mina si potrebbe riuscire.

— Tentiamo, signore.

— Inonderemo però la vallata.

— Che cosa ce ne importa? Le acque s'apriranno ben presto una nuova strada per rigettarsi nel Barem.

— Seguitemi.

Falcone risalì la riva del fiume per due o trecento passi, cercando un posto propizio per aprire un nuovo varco alle acque. In quel luogo il fiume scorreva fra due sponde rocciose che lo rinserravano come in una morsa.

Esaminò a lungo il corso, rimontando sempre la corrente, poi si fermò nel punto dove il fiume descriveva una brusca curva. Essendo il pendìo del letto molto accentuato, le acque andavano a urtare contro la riva sinistra con tanta furia, da far tremare perfino le rocce che le costringevano a deviare.

— Là, — disse Falcone, indicando la curva. — Se in quel luogo si aprisse un passaggio, la corrente si precipiterebbe attraverso l'apertura, abbandonando definitivamente la cascata.

— Basterà una mina? — chiese Bennie.

— Ne faremo esplodere parecchie in un colpo solo.

— Se riusciremo, diventeremo milionari, signor Falcone. Io sono certo che in fondo alla cascata c'è la cassaforte della montagna.

— Che noi saccheggeremo — disse il messicano, ridendo.

— Senza scrupoli, signore.

— Andiamo a esaminare la riva opposta, amici.

Essendo la corrente rapidissima e profonda e le acque troppo gelate per affrontarle impunemente, furono costretti a improvvisare un ponte servendosi di due giovani pini, i cui tronchi bastavano per attraversare il fiume. Raggiunta la riva sinistra, esaminarono le rocce che dovevano far saltare. L'impeto della corrente le aveva già indebolite e in parte disgregate, quindi non dovevano offrire grande resistenza. Anche senza le mine, un giorno o l'altro avrebbero dovuto egualmente cadere sotto l'urto costante e furioso della massa d'acqua. I cinque minatori, soddisfatti del loro esame, si misero alacremente all'opera. Sei mine furono aperte dietro l'argine roccioso, molto profonde, per poter aprire un grande varco, e caricate ognuna di un chilogrammo di polvere, poi furono preparate le micce. Verso sera furono accese, poi i cinque minatori ripassarono rapidamente il fiume per non venire travolti dall'acqua irrompente attraverso lo squarcio. Le esplosioni non si fecero attendere. I sei chilogrammi di polvere s'accesero quasi simultaneamente, con un rimbombo assordante che si ripercosse nella vallata e nei boschi della montagna. L'argine, sventrato dalla forza della esplosione, cedette per un tratto di sessanta metri, lasciando un varco più profondo del letto del fiume. Le acque, trovando uno sfogo, si rovesciarono furiosamente attraverso lo squarcio e si precipitarono giù per la china, tutto abbattendo nella loro corsa, e stendendosi per la pianura.

— Hurrà!... hurrà!... — gridarono i minatori che, dalla riva opposta avevano assistito allo scoppio.

— L'oro è nostro!... — esclamò Bennie, gettando in aria il suo cappello. — Fra pochi giorni scenderemo nella cassaforte della montagna!...

Poco dopo, il fragore assordante della cascata cessava bruscamente.

Il fiume ormai aveva abbandonato il vecchio letto e seguiva il nuovo, incanalandosi fra le rocce della vallata e raggiungendo il Barem seicento metri più avanti.

— Alla cascata!... — gridò Falcone.

I cinque minatori si diressero verso quella specie d'imbuto gigantesco, e videro che l'acqua era quasi del tutto scomparsa. Solamente qualche rigagnolo, di nessuna importanza, scendeva ancora, lambendo le nere rocce del salto. Però alla base delle rocce rimaneva un bacino largo quaranta e più metri, e lungo quasi altrettanto, probabilmente assai profondo.

— Domani scenderemo, e faremo sparire anche quell'acqua — disse il signor Falcone. — Con una poderosa mina apriremo un varco attraverso la rupe.

— E domani sera saremo milionari!.. — esclamò Bennie, con entusiasmo.

— Voi correte troppo, mio bravo canadese.

— Come!.. Ne dubitate?

— Veramente no, però desidero prima vedere il fondo del bacino per accertarmi.

— Vi dico che troveremo delle masse d'oro, signor Falcone.

— Delle rocce formate tutte di minerale giallo, — disse il meccanico, ridendo. — Che fretta, Bennie!..

— È la febbre dell'oro, signore, — rispose il canadese ridendo. — Che cosa volete? Fa girare la testa!...

Essendo tutti stanchissimi, si ritirarono sotto la tenda e, dopo una parca cena, si sdraiarono sulle loro coperte, senza prendersi cura di destinare gli uomini per la guardia notturna. Non avendo scorto nessun animale pericoloso e nessuna traccia umana, già da qualche sera avevano rinunciato a quelle veglie noiose, ritenendole inutili. Dormivano da parecchie ore, sognando fiumi d'oro e milioni in numero favoloso, quando gli orecchi acuti del canadese furono colpiti da alcuni nitriti. Avendo l'abitudine di dormire con un occhio solo, fu pronto ad alzarsi in piedi, mettendo le mani sul fucile che teneva sempre al fianco.

— Se i cavalli della prateria hanno nitrito, devono aver sentito qualcosa, — mormorò.

Non volendo allarmare i compagni, non svegliò nessuno, e riuscì adagio adagio da quella specie di caverna. La notte era tutt'altro che limpida, non essendoci nè luna, nè stelle, però si poteva scorgere qualcosa a una distanza di trenta o quaranta passi. Guardò sotto la tettoia, e vide che i quattro cavalli erano alzati.

— Che qualche orso sia venuto a ronzare in questi dintorni? — si chiese il canadese. — Finora non abbiamo scorta alcuna traccia di plantigradi. Tuttavia sarebbe il ben venuto, e aumenterebbe considerevolmente le nostre provviste.

Tenendo un dito sul grilletto, fece il giro della tettoia, senza però scorgere nessuno. Un po' rassicurato, stava per rientrare nella tenda, credendo fosse stato un falso allarme, quando udì il suo mustano nitrire nuovamente.

— Per mille corna di bisonte!... — esclamò il canadese. — Il mio cavallo deve ben avere un motivo per essere così inquieto!

Passò sotto la tettoia, e con suo grande stupore urtò contro alcuni fasci di legna, accatastati in un angolo e che era ben certo di non aver mai visto.

— Mille demoni!... — esclamò, lanciando all'intorno uno sguardo inquisitore. — Chi ha messi qui questi fasci? A che cosa devono servire? Corna di bufalo!... Questo mistero mi fa bollire il sangue!...

Si lanciò verso la tenda, gridando:

— Armando!... Signor Falcone!...

I suoi compagni, svegliati di soprassalto da quelle grida, furono pronti a balzare fuori, portando con loro le armi.

— Che cosa succede, Bennie? — chiese Falcone.

— Delle cose inesplicabili, — rispose il canadese.

— Cosa volete dire?

— Qualcuno di voi ha portato dei fasci di legna sotto la tettoia?...

— No — risposero tutti a una voce.

— Siete certi di ciò che dite?...

— Certissimi.

— Ebbene, qualcuno ha cercato di dar fuoco alla tettoia.

— Qualcuno!... E chi?... — chiese il meccanico.

— Non lo so.

— Qualche indiano, forse?...

— Uhm!... — fece Bennie, crollando il capo. — A che scopo?

— Per rovinarci i cavalli e forse arrostire anche noi.

— E derubarci dell'oro, — soggiunse Armando.

— È impossibile, signori, — disse don Pablo. — Gli indiani di queste regioni non apprezzano ancora l'oro.

— E chi volete che sia stato?...

— Qualche minatore che ci ha seguiti, spiati e che cercava di immobilizzarci distruggendo i nostri viveri, e rovinandoci anche i cavalli, per impedirci d'inseguirlo.

— E dove si sarà nascosto quel cane?... — gridò Bennie.

— Vi sarà sfuggito.

— È probabile, con questa notte oscura.

— Signori miei, bisogna vegliare anche di notte — disse il messicano.

— E domani batteremo i dintorni, — aggiunse Falcone.

— Frugheremo tutti i boschi — disse Bennie. — Se troveremo qualche furfante vi giuro che gli mando sessanta grammi di piombo nel cranio.

Dopo aver fatto il giro delle rocce ed essersi spinti fino alla cascata, senza aver trovato nulla, i minatori fecero ritorno alla tenda, però due di loro rimasero a guardia della tettoia, sperando di poter sorprendere il briccone.