I minatori dell'Alaska/XXVII - La fuga

XXVII — La fuga

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XXVII — LA FUGA


Il canadese aveva compreso il gravissimo pericolo che stava per piombare addosso a loro. Non era necessario avere troppo buona memoria per ricordarsi dello stregone che Armando aveva mitragliato presso l'alce, per difendersi da morte certa. Il caso aveva voluto che i compagni del morto comparissero proprio nel momento in cui gli uomini bianchi stavano per ingannare il secondo stregone e fuggirsene al forte Scelkirk. Anche Armando aveva riconosciuto in quei cinque guerrieri i compagni del prepotente mago e gran sacerdote della tribù e si era lanciato dietro a Bennie, trascinando con sè suo zio. Back, vedendo che tutti fuggivano, aveva stimato prudente seguirli più che in fretta. Gli indiani non s'erano ancora rimessi dal loro stupore, che già i minatori si trovavano nella grande capanna o meglio nel magazzino delle pellicce, con le armi in mano, pronti ad impegnare la lotta dentro quella specie di fortino di tronchi d'albero. I Tanana erano rimasti dapprima indecisi, poi erano entrati nelle loro tende per armarsi e si erano precipitati verso il magazzino, ululando come una banda di lupi e agitando minacciosamente le loro lance e le loro pesanti scuri. Lo stregone, diventato di punto in bianco il più feroce nemico degli uomini bianchi, perché nella loro morte vedeva ormai la propria salvezza, non essendo difficile scagliare su di loro l'accusa di aver cacciato in corpo al capo moribondo lo spirito maligno, guidava l'orda furibonda.

— Corna di bisonte!... — esclamò il canadese, che si era affacciato alla porta. — Non so chi mi tenga dal mandare a casa del diavolo quel furfante di stregone!... Sarà però ben bravo se più tardi salverà la sua pellaccia!...

— Mi sembra però, che la faccenda assuma una pessima piega, — disse il signor Falcone. — Sono almeno in cento!

— E noi abbiamo quattro o cinquecento cartucce — rispose Bennie. — Se credono di prenderci, si ingannano, è vero Armando?

— Sono pronto ad aprire il fuoco, — disse il giovanotto.

— Aspettiamo.

— Che cosa?

— Forse diventeranno più ragionevoli. Ah!... Ecco quel furfante di stregone che avanza solo! Se desidera parlamentare, sia il benvenuto, per ora.

Lo stregone aveva trattenuto lo slancio dei Tanana e si era diretto verso la capanna, accennando a voler parlare. Bennie si mise la rivoltella nella cintura, impugnò il fucile e uscì, mentre i suoi compagni dirigevano le armi contro il grosso della banda, per impedire qualsiasi sorpresa.

— L'uomo bianco mi ascolti, — disse lo stregone.

— Sono tutto orecchi — rispose Bennie.

— Un grave delitto è stato commesso da parte di uno dei tuoi compagni, il più giovane.

— E così?

— Il giovane uomo bianco ha ucciso il grande stregone della tribù.

— Lo so, ma sai tu perché lo ha ucciso? Ignori che lo stregone tuo fratello voleva uccidere il giovane uomo bianco, perché non voleva cedergli un'alce che non apparteneva ai Tanana?

— Io non lo so.

— Allora te lo dico io.

— Sarà come dici tu, però il giovane uomo bianco, avendo ucciso uno stregone, deve morire.

— E tu credi che noi siamo così sciocchi da lasciare che i tuoi uomini lo uccidano? Il giovane uomo bianco ha ucciso lo stregone per difendersi e se tu e i tuoi vorrete vendicare quel furfante, sappiate che noi ci opporremo a colpi di fucile. Ho detto!... Riferisci la mia risposta ai Tanana.

— L'uomo bianco parla come un fanciullo.

— No, come un vecchio cacciatore abituato alle battaglie contro gli indiani.

— Noi siamo molti.

— E noi pochi, ma decisi e armati di fucili.

— Tu dunque vuoi la guerra?

— Non è la lotta che noi cerchiamo; non desideriamo che andarcene.

— È impossibile, però...

— Ah!... — disse Bennie, ironicamente.

— Si può evitare uno spargimento di sangue.

— Insegnami il modo.

— Guarite il nostro capo e noi vi lasceremo andare senza toccarvi un capello.

— Amico mio, devo dirti che il tuo capo è un uomo e che non lo guarirebbero tutte le medicine del mondo. Che cosa vuoi? È vecchio come manitou, come il Grande Spirito, e poi ha i polmoni in disordine.

— Tu però mi avevi detto che al forte Scelkirk c'era una medicina che lo avrebbe guarito. Forse che l'uomo bianco voleva ingannarmi?

— Niente affatto; volevo semplicemente torcerti il collo.

— Che cosa vuol dire l'uomo bianco?... — chiese lo stregone, a denti stretti.

— Che tu sei un furfante peggiore dell'altro e che se non ci farai liberare più che presto, ti manderò a raggiungere il tuo compare. Orsù, vattene o ti pianto una palla nel tuo cranio di orso grigio.

Lo stregone, che teneva alla pelle e non ignorava la potenza delle armi da fuoco, girò sui talloni e raggiunse i Tanana, per informarli del cattivo risultato di quel colloquio. Gli indiani, apprendendo le risposte dell'uomo bianco, parvero diventare furiosi. Urlavano come lupi affamati e saltavano in tutte le direzioni per eccitarsi al combattimento. Quando si credettero abbastanza inferociti, i più audaci si precipitarono verso la capanna. I bianchi, non volendo essere i primi a cominciare le ostilità, fecero una scarica in aria. Udendo quegli spari, gli indiani arrestarono il loro slancio, poi sentendo fischiare le palle sopra le loro teste, se la diedero a gambe, sgombrando precipitosamente la piazza.

— Non mi sembrano molto coraggiosi — disse Armando.

— Non ditelo così presto — rispose Bennie. — I Tanana godono fama di essere audaci e lo sanno i russi, i quali furono costretti a subire molti combattimenti riportando gravissime perdite.

— Io temo che abbiano modificato il loro piano.

— Volete dire?...

— Che si siano decisi di assediarci.

— Lo credete?...

— Guardate quei furfanti!... Si sono nascosti dietro le tende e non ci perdono di vista.

— Se tentassimo una sortita?...

— Non la consiglierei giovanotto. Sono più di cento e se si gettassero tutti addosso a noi, non avremmo certo la vittoria.

— Che cosa volete fare? — chiese il signor Falcone.

— Attendere la notte e uscire di sorpresa.

— Mi affido interamente a voi, Bennie.

— E poi, ho un certo progetto che mi frulla per il capo, — aggiunse il canadese, guardando l'ammasso di pelli che ingombravano la capanna.

— Quale?...

— Ve lo dirò più tardi, signor Falcone. Lasciamo che i Tanana ci sorveglino pure.

Chiusero la porta, assicurandola internamente con grosse pertiche che avevano trovate nella capanna, vi accumularono dietro degli ammassi di pelli ed apersero due fori per passarvi i fucili e sorvegliare i Tanana. Avendo trovato in un angolo una grossa provvista di pesci candela, ne accesero parecchi, per non rimanere all'oscuro. Avevano appena terminato quei preparativi e stavano cercando il modo di accendere anche un po' di fuoco per allestire la cena, avendo con loro delle provviste, quando al di fuori udirono urla assordanti. Credendo che gli indiani cominciassero l'attacco, si precipitarono verso i due fori e si convinsero che si trattava di ben altro. Tutto quel pandemonio era causato dallo stregone. Egli stava facendo un ultimo tentativo per scacciare lo spirito maligno che aveva invaso il povero capo della tribù. Straordinari preparativi erano stati fatti a tale scopo. Sulla piazza, dinanzi alla tenda dell'ammalato, erano stati accesi quattro falò giganteschi per gettarvi sopra quell'ostinato spirito maligno e bruciarlo ed erano stati rizzati dei pali, ornati di stracci di tutte le tinte e di monili di conchiglie, perline di vetro, denti di orso grigio, di lupo, di volpe, e corna d'alce e di renna. Il capo già era stato portato in mezzo ai quattro fuochi e adagiato su una grande pelle d'alce. Pareva proprio agli estremi e tossiva convulsamente, in modo tale da squarciarsi i polmoni. Gli indiani avevano formato un ampio circolo e avevano intonato un coro a voce bassa, senza dubbio qualche invocazione. Lo stregone, collocatosi presso il malato, pareva spiasse il momento opportuno per cominciare la lotta contro lo spirito maligno. Per la circostanza aveva indossato una nuova pelle d'orso grigio, col pelo chiazzato di rosso, nero e azzurro e si era appeso al collo, alle braccia ed alle gambe un numero infinito di amuleti portentosi. Attese che gli indiani finissero il coro, poi si curvò sul malato e parve afferrare qualcosa, quindi si mise a spiccare salti indiavolati, agitando pazzamente le braccia, vibrando colpi e calci in ogni direzione. Il brav'uomo aveva afferrato lo spirito maligno, però questi gli era fuggito di mano e doveva ronzare attorno al malato per ripiombargli nuovamente addosso. Fortunatamente il mago vegliava e lo vedeva. Una lotta disperata si impegnò allora fra il mago e l'invisibile spirito. Quel buffone fingeva di stringerlo fra le braccia, di tempestarlo di pugni e di calci e di trascinarlo verso il fuoco per bruciarlo. Le sue forze non dovevano però bastare in quella faticosa lotta, poiché tutto d'un tratto lo si vide correre come un indemoniato, manifestando il più profondo spavento. Il poveretto era stato invaso dallo spirito maligno che egli aveva saputo estrarre, con tanta arte, dal petto del capo moribondo. Per sbarazzarsene saltava, sbuffava, urlava, digrignava i denti, si gettava a terra rotolandosi nel fango come un maiale e aveva la spuma alla bocca, mentre gli occhi parevano volergli uscire dalle orbite. Gli indiani, intanto, avevano intonato il loro coro, alzando gradatamente la voce e si erano messi a correre in circolo, saltando e ballando come una banda di pazzi. Tutto quel pandemonio finalmente cessò. Il mago era riuscito a sbarazzarsi dallo spirito maligno e a gettarlo sul fuoco. Un immenso urlo avvertì i prigionieri che la vittoria ormai era assicurata e che il capo doveva essere guarito. Due indiani, certamente due dignitari, si avvicinarono al capo e presolo sotto le ascelle lo sollevarono, invitandolo a camminare e assicurandolo che era perfettamente sano. Il povero uomo, quantunque avesse una illimitata fiducia nello stregone della tribù, si provò a fare qualche passo, poi tutto d'un tratto lo si vide vacillare, quindi stramazzare pesantemente al suolo, rimanendo immobile. Era morto!...

Gli indiani, atterriti, si misero a urlare, mentre lo stregone, prevedendo una grossa burrasca, fuggiva a tutta velocità, abbandonando, e forse per sempre, il morto e anche i vivi.

— Ah!... Il furfante!.... — esclamò Bennie. — Cerca di salvare la sua pelle:... Se ti trovo, ti caccerò io in corpo lo spirito maligno!....

— Che cosa succederà, ora? — chiese il signor Falcone.

— Seppelliranno il morto e nomineranno un altro capo — rispose il canadese.

— E noi?

— Saremo più sorvegliati che mai.

— Che colpa abbiamo noi della morte del capo?

— Chi andrà a togliere dal cervello di quegli indiani il sospetto che siamo stati noi a far morire il loro capo?... Sono capaci di accusarci anche di questo, per sacrificarci sulla sua tomba.

— Forse che uccidono degli uomini sulla tomba dei capi? — chiese Armando.

— Talvolta sì. Gli indiani delle isole, specialmente quelli di Khutsnoo, usano uccidere alcuni schiavi e delle vecchie donne, perché tengano compagnia ai loro capi nel lungo viaggio dell'altro mondo.

— Che debba proprio toccare a noi simile sorte?

— Non abbiate questo timore, Armando, — disse Bennie, con un risolino misterioso. — Questa sera, quando faranno i funerali al capo, preparerò loro una brutta sorpresa. C'è però una cosa che mi preoccupa.

— E quale?

— Sapete dove hanno messi i nostri cavalli?

— Lo so io — disse Back. — Sono stati rinchiusi in un recinto che si trova all'estremità del villaggio.

— Benissimo. Prepariamoci la cena e non occupiamoci per ora degli indiani.

Non essendoci della legna, Bennie e Back si provvidero di pesci candela, ne ammucchiarono parecchi in mezzo alla capanna, improvvisarono una graticola con alcuni pezzi di ferro trovati in un angolo e misero ad arrostire un bel pezzo di cigno. Avrebbero preferito cucinarlo nella pentola, però mancavano d'acqua. Dovettero rinunciare al brodo. Mentre si occupavano della cucina, il signor Falcone e Armando vegliavano dietro i due fori. Gli indiani avevano fatto in tutta fretta i preparativi per il funerale, d'altronde semplicissimi. Rizzato dinanzi alla tenda del morto un grande albero, dipinto a vivaci colori, vi avevano appeso ghirlande di perle, pelli di lupo, di lontre, di martore o di ghiottoni, dei coltelli, delle scuri e dei vestiti da dividersi fra i parenti del capo e i più cospicui personaggi della tribù. In mezzo alla piazza avevano poi collocato il feretro, una specie di canotto di corteccia di betulla, capace di contenere il cadavere e le armi che aveva usate e che poi si doveva trasportare nella vicina foresta e sospendere a due metri da terra, su quattro piuoli. Numerosi fuochi erano stati accesi. Avevano messo ad arrostire interi quarti d'orso, e un gran numero di grossi pesci, i quali dovevano servire per gli invitati, poiché quei popoli mangiano a crepapelle prima di condurre i morti alla loro ultima dimora. Già le tenebre cominciavano a calare e gli indiani si preparavano a radunarsi, urlando e saltando, quando Bennie chiamò i suoi compagni, dicendo:

— Bisogna approfittare del momento, se vogliamo prendere il largo.

— Che cosa avete intenzione di fare? — chiese il signor Falcone.

— Preparare una mascherata che farà rizzare i capelli ai Tanana.

Il signor Falcone e Armando guardarono il canadese con stupore, mentre Back, che doveva ormai aver compreso di che cosa si trattava, si metteva a ridere.

— Non vi comprendo, Bennie, — disse il signor Falcone.

— Seguitemi, — rispose il canadese.

Si diresse verso un angolo della capanna, dove si trovava un ammasso gigantesco di pellicce e dopo averlo rovesciato, prese quattro pelli d'orso grigio, di taglia enorme e conservate con grande cura. Ne levò una, si accomodò per bene la testa in modo da coprirvisi il viso, si infagottò nella pelle, poi si gettò al suolo mettendosi a galoppare con i piedi e con le mani.

— Ditemi, signor Falcone, — disse. — Non vi sembro un orso?

— Sì, Bennie. Un po' basso, a dire il vero, però potete passare per un grizzly.

— Specialmente di notte — aggiunse Back.

— Ebbene, signori miei vi assicuro, la mascherata produrrà un effetto superbo.

— Volete spaventare i Tanana?

— Spaventarli!... Li metteremo in fuga, signore. Chi potrebbe resistere all'improvviso attacco di quattro orsi?

— Specialmente se appoggiati da colpi di fucile — aggiunse Back.

Il signor Falcone e Armando non poterono frenare una risata.

— Suvvia, non perdiamo tempo, — proseguì il canadese. — Gli indiani per il momento non si occupano di noi, e abbiamo ancora da lavorare. Bisogna, innanzi tutto, aprire un passaggio dietro la capanna, non essendo prudente uscire dalla porta.

— Siamo ai vostri ordini — disse il signor Falcone.

Bennie, prima di mettersi al lavoro, andò ad osservare gli indiani. Pareva che questi si fossero dimenticati dei prigionieri, poiché si erano tutti radunati sulla piazza, uomini, donne e bambini, urlando e danzando attorno al feretro del capo. Il momento per agire non poteva essere più opportuno. Il canadese, aiutato da Armando e da Back, adoperando il suo bowie-knife, riuscì a strappare un palo, poi un secondo, quindi un terzo, ottenendo un passaggio sufficiente per tutti. Si gettarono a tracolla i fucili, dopo averli ricaricati con nuove cartucce, per essere sicuri dei loro colpi, si avvolsero nelle pellicce dei grizzly, accomodandosele indosso meglio che poterono affinchè l'illusione fosse più perfetta, poi uscirono attraverso l'apertura. In quel momento i Tanana urlavano come ossessi, e danzavano vertiginosamente attorno al feretro del capo, mentre sui falò le carni crepitavano e arrostivano. I quattro orsi fecero il giro della capanna, poi giunti vicino a alcune macchie di ribes che crescevano a breve distanza, si alzarono in piedi, cercando di imitare le rauche urla di quei terribili plantigradi.